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  • Sabato 30 agosto 2014

L’illusione di essere diversi

Il quotidiano Repubblica ha intervistato il sociologo Vanni Codeluppi sulle aspirazione e ambizioni correnti degli italiani e le strategie conseguenti della comunicazione pubblicitaria.

A parte il lusso, in che direzione si muovono i nostri desideri?
“Siamo attratti dalla novità. Il consumatore è un “cercatore di emozioni”, come lo definisce Bauman, e l’emozione più forte arriva sempre da ciò che è nuovo. Ora a questa richiesta è in grado di rispondere solo la tecnologia, che è diventata l’unica grande terra promessa. È uno dei pochi settori che riesce a colpire il nostro immaginario”.

La crisi economica ha modificato l’estetica del messaggio pubblicitario?
“Più che la crisi l’ha modificata la rete, che brucia tutto più rapidamente. La nuova logica è quella della condivisione. Il messaggio ha successo se viene “scambiato”, non c’è tempo per curare l’estetica, bisogna creare un caso. E far notizia. Una pubblicità nello stile di Gavino Sanna  –  piccoli film molto curati  –  oggi non avrebbe più senso. E anche i registi che oggi girano gli spot  –  da Salvatores a Guadagnini a D’Alatri  –  non cercano un segno stilistico diverso. Non gli viene chiesta una prestazione artistica, ma solo il nome”.

Ma noi riusciamo a fare di Banderas un mugnaio impolverato di farina.
“Sì, ma non è credibile. Quella è Hollywood, non è campagna. Se prima Barilla trasferiva la famiglia in un casolare toscano, ora recluta una celebre star che interpreta se stessa. Il mulino bianco era nato negli anni Settanta, quando la società italiana era attraversata da sensi di colpa nei confronti della natura e dell’ambiente, distrutti da un’industria divenuta sempre più pervasiva. Basti pensare alle denunce di Pasolini. Oggi questo senso di colpa s’è completamente perduto. Anzi, le industrie ci fanno capire che possono migliorare la natura, nel trionfo di integratori, vitamine, componenti farmaceutici che rendono miracolosi yogurt e bevande”.

Che cosa allora esercita appeal?
“I testimonial. Questa è un’anomalia rispetto agli altri paesi, dove il loro impiego è molto più ridotto. Dipende da un sistema televisivo bloccato, che si prende la maggior parte degli investimenti pubblicitari. Dovendo elargire grosse somme, le aziende cercano di raggiungere risultati in modo rapido: il testimonial è un trucco per catturare il consumatore”.

Ma quali sono le strategie di seduzione? Da cosa restiamo affascinati?
“Dall’illusione di essere diversi dagli altri. Il trend più forte è rappresentato oggi dall’offerta che consente la personalizzazione. Perfino Nutella, tipico marchio italiano, dà la possibilità di differenziare il prodotto mettendo l’etichetta sul barattolo. La merce che si presenta massificata viene rifiutata perché nessuno di noi vuole essere considerato massa”.

Questo non confligge con il trionfo dei centri commerciali, negli ultimi decenni promossi a piazze contemporanee?
“E infatti quel modello è entrato in crisi non solo per la nostra ridotta capacità di spesa. C’è una ragione più profonda: il centro commerciale è stato pensato per un’organizzazione sociale che è cambiata, ossia le famiglie tradizionali con figli. Siamo sempre più una società di single, e di single anziani. L’anziano ha problemi di mobilità e soprattutto non si riconosce in un modello massificato come quello”.

Può colpire che questi templi del consumo siano nati in Italia all’inizio degli anni Novanta, quando cominciavamo a renderci conto che avevamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità.
“Può apparire paradossale ma era inevitabile. In America erano nati tra gli anni Quaranta e Cinquanta, e in Europa sono arrivati poco dopo. Da noi aveva resistito la tradizione delle piccole botteghe, un modello in sintonia con il nostro tessuto sociale e culturale ma assai più dispendioso. Oggi hanno più successo gli outlet che riproducono l’arredo urbano dei nostri centri storici o le città della gastronomia in stile Eataly che evocano il vecchio mercato. Noi desideriamo sentirci speciali. Vince chi ci illude di esserlo”.