Come va Square?

Non bene: la promettente startup di pagamenti elettronici - quella del "cubetto" per le carte di credito - produce utili, ma pochi, e deve farsi venire un'idea

«Soltanto nella Silicon Valley il successo può apparire così spiacevole», ha scritto il giornalista Austin Carr a proposito di Square, la società che fino a un anno fa era considerata una delle più promettente startup delle nuove tecnologie. Square, che si occupa principalmente di sistemi innovativi per gestire i pagamenti elettronici e aveva introdotto il “cubetto” che permette a iPhone e iPad di usare le carte di credito, si trova in un suo momento di svolta. Le premesse sopra le quali è stata costruita non sono più sufficienti a garantirgli le quotazioni in borsa multimiliardarie a cui ci hanno abituato Facebook e Twitter. Ma questo non significa che l’azienda sia vicina al fallimento. A volte però, come spiega Carr, nella Silicon Valley sopravvivere è peggio che fallire.

Che cos’è Square
Square è una società che si occupa principalmente di gestire pagamenti elettronici tramite una serie di sistemi innovativi. Il suo prodotto più famoso è Square Reader, un scatoletta di plastica grande poco più di una moneta da due euro che si può inserire nel jack audio di uno smartphone o di un tablet trasformandolo in un lettore di carte di credito in grado di processare pagamenti. Square è stata fondata nel 2009 da Jack Dorsey e Jim McKelvey. Dorsey, 37 anni, è uno degli imprenditori più famosi di tutta la Silicon Valley: è stato uno dei fondatori e dei creatori di Twitter. Uno dei membri del consiglio di amministrazione di Square, l’ex rettore di Harvard Larry Summers, lo ha definito «la persona vivente più simile a Steve Jobs».

Effettivamente, per diversi anni, Square sembrava in grado di diventare la nuova Apple. Lo Square Reader prometteva di rivoluzionarie un intero mercato e lo si vedeva in giro in diversi esercizi commerciali americani. Non era un mercato qualsiasi, come scrive Carr: si trattava del settore della finanza, l’ultima enclave industriale che negli Stati Uniti non è stata raggiunta, conquistata o almeno influenzata dalla Silicon Valley. Entrare nel campo dei pagamenti elettronici significava per Square misurarsi con presenze come Visa e Mastercard, i giganti delle carte di credito, ma anche PayPal (un altro famosissimo servizio di pagamenti elettronici online) e Amazon (che ha da poco creato una sua versione dello Square Reader).

Dopo Reader, Square ha cercato di insistere sul mercato dei commercianti e ha prodotto Square Stand e Square Register. Il primo è un supporto per iPad che include un lettore di carte di credito; il secondo è una app che svolge tutte le funzioni di un registratore di cassa. Messi insieme, questi due prodotti trasformano qualunque iPad in un punto di vendita che può gestire pagamenti con carte di credito a un costo competitivo rispetto ai servizi offerti dagli altri circuiti di pagamento (i POS che vediamo in tutti i negozi): una tariffa fissa del 2,75 per cento su ogni pagamento.

Nel 2012 la società raggiunse il culmine della sua notorietà. Gestiva circa 10 miliardi di dollari di pagamenti all’anno e il suo fondatore, Dorsey, era sulle prime pagine di tutti i giornali specializzati (e a volte anche sugli altri). In quei mesi Starbucks, la grande catena di caffetterie, decise di investire 25 milioni di dollari nella società e di utilizzare Square per i pagamenti dei suoi 7 mila punti vendita. Come scrive Carr, per Dorsey e Square sembrava fosse arrivato il “momento Facebook”: quello in cui una piccola startup riesce a cambiare un intero sistema, a convincere le persone a fare in un modo nuovo qualcosa che avevano sempre fatto. Square cominciò a prepararsi per una quotazione in borsa nel 2014.

La crisi
Nel 2013 però le cose cominciarono ad andare male. Il problema non era il volume d’affari, anzi. Secondo le ultime proiezioni, Square gestirà circa 30 miliardi di dollari di pagamenti nel corso del 2014: il triplo rispetto a tre anni fa. Il problema è che in questo modo non si fanno i soldi. Il 2,75 per cento di 30 miliardi di dollari sono circa 825 milioni: una cifra rispettabile, che però non è davvero quello che incassa Square. Per far funzionare i pagamenti deve per forza di cose appoggiarsi agli intermediari finanziari che gestiscono le carte di credito, Visa e Mastercard (che portano sulle spalle anche tutte le spese dei sistemi antifrode e assicurativi). Tolta la percentuale che Square paga agli intermediari nelle sue tasche restano circa 280 milioni di dollari. E non si tratta di profitti, ma di un fatturato lordo a cui togliere tasse e spese.

In altre parole, il core business della società si è rivelato non particolarmente profittevole. Anche per questo Square ha cercato di diversificare la sua offerta, alla ricerca dell’idea che permetta alla società di dare una svolta ai suoi utili. Nel suo lungo articolo, Carr raccoglie molte testimonianze di manager dell’azienda che ammettono come questa ricerca sia stata fatta in maniera disordinata. Oggi la società offre quasi una decina di prodotti diversi che spesso non hanno nulla a che fare gli uni con gli altri. Square Order, per esempio, permette di ordinare e pagare un prodotto in anticipo (per esempio la cena a un ristorante) e quindi andarlo a ritirare. Il team che ha sviluppato Order all’inizio pensava di venderlo come un prodotto completamente separato, senza nemmeno il marchio Square.

Altri prodotti si sono rivelati dei veri e propri fallimenti, come per esempio Square Wallet, che la società ha ritirato dal commercio lo scorso maggio. Wallet permetteva di immagazzinare in un “portafoglio virtuale” tutte le proprie carte di credito. Andando in un negozio dotato della stessa app era possibile pagare dando semplicemente il proprio nome. Come ha ammesso lo stesso Dorsey, era un sistema futuristico per pagare, ma in realtà poco pratico. Il risultato principale dell’usare Wallet era che il cassiere doveva perdere qualche minuto di tempo a capire il meccanismo del pagamento.

L’accordo con Starbucks, per la società, era principalmente un successo di comunicazione e un modo per incentivare la diffusione di Wallet (i cassieri di Starbucks erano già istruiti su come far funzionare l’app) ma anche un’operazione fatta consapevolmente in perdita. Per acconsentire all’accordo, Starbucks ha preteso infatti condizioni particolari che hanno, sostanzialmente, eliminato il margine di guadagno di Square. Alla fine del primo anno l’operazione aveva portato a Square una perdita di 25 milioni di dollari. Carr scrive che è stata una scommessa da parte di Dorsey, che vedeva l’accordo con Starbucks come un investimento nel marketing. La pubblicità ha funzionato e per settimane dopo l’accordo tutti parlavano di Square. Ma i guadagni non ci sono stati e nel 2013 Square ha avuto perdite per 100 milioni di dollari.

Il successo nella Silicon Valley
Il management di Square sostiene che la società è in perdita per scelta: al momento pensa che gli investimenti in nuove idee e in capitale umano siano più importanti dei profitti. Carr, che ha visto alcuni documenti contabili della società, dice che probabilmente c’è un fondo di verità in questa affermazione, che è da molti anni la filosofia della stessa Amazon a cui gli analisti scettici si sono dovuti adeguare. Dorsey e il resto del management continuano a investire alla ricerca del prodotto che porti la società alla sua svolta. Altro esempio: all’inizio di agosto Square ha acquistato un servizio di consegna di cibo a domicilio. Il core business della società, comunque, continua a produrre utili: pochi, ma ci sono. Anche se lo scorso aprile giornali importanti come il Wall Street Journal davano la compagnia per quasi spacciata, è molto difficile che Square si trovi davvero costretta a chiudere.

Ma, scrive Carr, nel mondo delle startup la gloria si ottiene creando prodotti che cambiano il mondo, oppure fallendo in maniera spettacolare e poi ricominciando da capo. Nell’epica della Silicon Valley non c’è posto per piccole aziende che riescono a fare un po’ di soldi nella loro nicchia di mercato. Anzi: questa prospettiva è peggiore del fallimento. Come ha raccontato a Carr l’amministratore delegato di una società concorrente: «Se le cose gli andranno male, probabilmente dovranno affrontare un cammino difficile per correggere i loro obiettivi. Diventeranno una piccola, anche se non insignificante, azienda di pagamenti. Non imploderanno, ma sarà molto doloroso».