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  • Mercoledì 20 agosto 2014

Cosa fare con l’IS?

Quali sono le ipotesi di cui si parla per fermare i miliziani sunniti, e con quali rischi

La diffusione online del video della brutale esecuzione del giornalista statunitense James Foley ha reso ancora più attuale la discussione pubblica globale sullo “Stato Islamico” (IS) – gruppo estremista sunnita prima conosciuto come ISIS – e sulla sua avanzata verso il Kurdistan iracheno e in particolare verso Erbil, la capitale curda in cui vivono anche molti cittadini statunitensi. Anche se la questione è più grande di così: l’IS opera da mesi in Iraq e in Siria e ha creato una specie di Stato, che definisce “Califfato” e che governa applicando brutalmente la legge islamica, uccidendo oppositori e infedeli. Il video della decapitazione di Foley è solo l’ultima di una lunga serie di violenze efferate che sono state mostrate e diffuse dall’IS sui social media.

Venerdì 8 agosto il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha annunciato l’inizio di una campagna aerea contro alcune postazioni militari dell’IS nel nord dell’Iraq. L’obiettivo, ha detto Obama, è fermare l’avanzata dei miliziani dell’IS verso il Kurdistan iracheno: per il momento qualche risultato è stato ottenuto, come la riconquista da parte dei curdi dell’importante diga di Mosul. La decisione di Obama ha fatto parlare della possibilità di un “ritorno americano in Iraq”, dopo la lunga occupazione militare cominciata nel 2003 e conclusa solo alla fine del 2011.

Le opzioni che si stanno valutando in queste ultime ore per colpire lo Stato Islamico sono diverse. Per valutarle ragionevolmente, comunque, è necessario fare due premesse. Primo: il tipo di intervento militare – la sua ampiezza, gli attori coinvolti, i mezzi e le armi utilizzate – dipende dall’obiettivo politico che si vuole raggiungere. Per esempio: se l’obiettivo è soltanto la liberazione di alcuni ostaggi, viene da sé che un massiccio bombardamento aereo senza supporto di terra non ha molto senso (per liberare ostaggi hai bisogno di qualcuno che li porti via, sia che siano tuoi soldati sia che siano milizie tue alleate). Se l’obiettivo è proteggere il Kurdistan, le risorse da impiegare saranno altre; se l’obiettivo è smantellare l’IS, saranno altre ancora.

Secondo: se si vuole prendere come metro di giudizio l’intervento finora autorizzato da Obama, c’è da tenere a mente che gli Stati Uniti hanno esplicitamente affermato che il loro obiettivo è fermare l’avanzata dello Stato Islamico, non sconfiggerlo. Per questa ragione finora si sono limitati agli attacchi aerei e a dare armi ai curdi, ma hanno rifiutato l’opzione di intervenire con truppe di terra.

Le opzioni militari di cui si parla di più sono:

Continuare con gli attacchi aerei. Come ha spiegato Douglas Olivant, gli attacchi aerei sono utili quando usati su certi obiettivi e controproducenti se usati nelle situazioni sbagliate. L’Iraq presenta entrambe le alternative. Sul fronte più avanzato, l’IS sta conducendo una guerra di aggressione – di conquista, si potrebbe definire – che crea le condizioni affinché gruppi di miliziani, veicoli e armi si trovino in posti lontani dai centri urbani e siano facili da colpire dal cielo. Quindi, se l’obiettivo è fermare l’aggressione e l’ulteriore espansione dell’IS verso il Kurdistan, i mezzi aerei possono essere efficaci. Questo è l’obiettivo che si è dato Obama, e la strategia adottata ha dato per ora dei buoni risultati: il più significativo è stato la riconquista da parte delle milizie curde della diga di Mosul, la più grande di tutto l’Iraq, supportate dagli attacchi aerei americani. Naturalmente si tratta però di un obiettivo parziale: se non il Kurdistan, un pezzo dell’Iraq e un pezzo della Siria resterebbero comunque nelle mani dell’IS, con tutto quello che di terribile ne consegue per le persone che abitano quei posti.

– Attacchi aerei combinati con alleanze con gruppi locali. L’IS ha istituito il suo Califfato su un territorio comprendente buona parte dell’Iraq occidentale e della Siria orientale: al suo interno ci sono aree urbane piuttosto estese e popolate, come Mosul e Fallujah, che non possono essere riconquistate esclusivamente con l’uso del potere aereo. Se l’obiettivo politico cambia – quindi non ci si vuole più soltanto limitare a frenare l’avanzata dello Stato Islamico, ma si vogliono ricacciare indietro i miliziani e riconquistare terreno – allora dovrà cambiare anche la strategia militare adottata. Olivant ipotizza un’alleanza con le diverse forze presenti in Iraq, in particolare con gli arabi e i curdi, che formino un fronte compatto per combattere lo Stato Islamico. Questo tipo di soluzione presenta un grosso problema: negli ultimi nove anni l’Iraq è stato governato dal primo ministro sciita Nuri al-Maliki, che a causa delle sue politiche settarie si è alienato il sostegno dei sunniti e dei curdi. Ora il governo a Baghdad sta per cambiare, ma potrebbe essere troppo tardi per augurarsi la creazione di un fronte comune. Inoltre la situazione irachena di questi anni e l’impreparazione del suo esercito giustifica qualche scetticismo sul successo di un’operazione di questo tipo, sia nel breve che nel lungo periodo, anche se qualche risultato potrebbe essere ottenuto.

Intervento di terra. Se l’obiettivo è la distruzione dello Stato Islamico, scrive l’analista della New America Foundation Brian Fishman, lo sforzo militare richiesto diventa molto più grande. Negli anni dell’occupazione militare americana in Iraq, i soldati statunitensi si scontrarono con le difficoltà di avere a che fare con una rivolta locale in un territorio urbano ostile alla potenza occupante: in particolare nella provincia di Anbar, dove si trova anche la città di Fallujah, le perdite americane causate dai gruppi sunniti locali furono altissime. In situazioni di guerriglia urbana di questo tipo, l’asimmetria militare tra le due fazioni si riduce notevolmente. Ciò significa che nonostante gli Stati Uniti possano contare su una superiorità militare e tecnologica notevole rispetto all’IS, ci potrebbero volere anni e decine di migliaia di truppe di terra per riuscire a sconfiggere i nemici.

E stiamo parlando comunque soltanto dell’Iraq. Pensare di sconfiggere l’IS in Siria vorrebbe dire infilarsi in una faccenda molto più grande dell’IS: la guerra civile in Siria, che va avanti da oltre tre anni, che ha provocato la morte di quasi 200.000 persone e nella quale – civili incolpevoli a parte – è diventato praticamente impossibile distinguere i buoni dai cattivi, visto come i ribelli cosiddetti “moderati” sono stati schiacciati e annullati dagli estremisti islamici e dal regime di Bashar al Assad.

– Non fare niente. È l’opzione che i governi del mondo hanno di fatto percorso – salvo forse qualche contatto diplomatico con i paesi accusati di finanziare l’IS – fino alla scelta degli Stati Uniti dello scorso 8 agosto. Il risultato è la situazione attuale. C’è una corrente di pensiero che sostiene che le brutalità dell’IS sono così enormi che anche i sunniti alla fine si rivolteranno contro i miliziani, cacciandoli; anche se questo scenario dovesse verificarsi, è evidente che passerebbe per la prosecuzione delle violenze sui civili per un periodo di tempo non breve, e probabilmente anche per un’ulteriore avanzata dei miliziani in Iraq. Altri suggeriscono di intraprendere azioni non belliche, limitandosi a inviare aiuti umanitari in attesa di organizzare una risposta internazionale: ma ammesso che questa risposta internazionale arrivi – tutt’altro che scontato, senza considerare che anche un eventuale intervento militare dell’ONU dovrebbe affrontare i problemi strategici di cui sopra – nel frattempo l’IS continuerebbe ad avanzare e uccidere.