Chi sa bene l’italiano corretto?

Quelli che hanno il potere di decidere quale sia, e di privilegiarlo su altri dialetti: ma hanno formalmente tutti lo stesso valore, spiega una linguista

Spada - LaPresse
19 06 2013 Brescia ( Italia )
Cronaca
Esami di maturità 2013
La prova scritta di italiano del primo giorno
nella foto : studenti durante l'esame
Spada - LaPresse 19 06 2013 Brescia ( Italia ) Cronaca Esami di maturità 2013 La prova scritta di italiano del primo giorno nella foto : studenti durante l'esame

Questo articolo della linguista Gretchen McCulloch è stato pubblicato su Slate in riferimento alla lingua inglese: nella traduzione alcuni passaggi sono stati adattati all’identica trattazione a proposito della lingua italiana.

Non fingete di essere diversi. Ci sono ottime probabilità che abbiate discusso di recente con qualcuno su una questione di grammatica o di scrittura, di “si dice e non si dice” e altri aspetti della lingua. Forse avete insistito che si debba dire “ministra” o avete contestato l’uso settentrionale di “piuttosto che”, oppure avete discusso ancora su quali siano i verbi “di opinione” che impongono il congiuntivo.

Ma cos’è che fa pensare a ognuno di noi di essere la massima autorità su come la lingua dovrebbe essere usata? Una risposta ha a che fare con quello che possiamo chiamare “microlinguaggio”, creato dalle varie strutture del nostro cervello che contengono la consapevolezza di essere degli individui che parlano italiano. Anche se non avessimo altri umani con cui parlare, o manuali di linguistica, tutti coloro che parlano una lingua hanno un senso intuitivo di cosa suoni come un corretto uso della lingua stessa e cosa no.

Ma ognuno di noi ha il suo, di “microlinguaggio”. Ci sono addirittura diversi gruppi che chiamiamo “dialetti”, definiti soprattutto dalla geografia o da aspetti demografici come l’età, il genere, l’istruzione. E ci sono molti altri fattori più sottili, come l’aver vissuto in luoghi diversi, il patrimonio di espressioni familiari più o meno uniche con cui si è cresciuti, il gergo di scuole e luoghi di lavoro che si sono frequentati, i posti verso cui si è viaggiato e le altre lingue che si conoscono, e anche i propri interessi personali. Un medico che guarda molta fantascienza avrà un vocabolario differente da quello di un avvocato che legge biografie storiche, e tutti e due li avranno diversi da quello del loro vicino che è un birdwatcher. Così come non esistono due persone con la stessa vita, non ne esistono due con lo stesso set di influenze linguistiche: nessuno parla la stessa lingua di un altro.

A partire da questa considerazione, i linguisti coniarono tempo fa il termine idioletto. Non si riferisce solo al vocabolario, ma a tutto quanto ha a che fare con l’uso della lingua, dall’accento con cui pronunciamo certe parole a come le componiamo assieme, fino a cosa immaginiamo significhino. Avete mai discusso con qualcuno sul colore esatto di un oggetto, se sia più azzurro o più verde? Anche questa è una differenza di idioletto. Da un punto di vista filosofico, state osservando lo stesso oggetto sul turchese, ma ognuno di voi ha posto la linea mentale che separa l’azzurro dal verde in un punto diverso. Chi ha ragione? Tutti e due, rispetto al proprio idioletto. Potete anche consultare delle autorità maggiori, magari i creatori delle tabelle Pantone, ma quello che state facendo in realtà è confrontarvi con gli idioletti di qualcun altro.

Con questo non si deve pensare che un idioletto sia del tutto arbitrario. Non vi svegliate la mattina e decidete che un aereo si chiama piccione, perché nessuno capirà di cosa diavolo parliate. Il che ci guida verso il concetto del “macrolinguaggio”: quello che la nostra rappresentazione mentale del linguaggio ha in comune con gli altri individui che parlano italiano e ci permette di capirci l’un l’altro (almeno di solito).

E questo italiano comune com’è fatto, e dove lo si trova? C’è una tendenza, soprattutto nelle culture con una estesa tradizione scritta, a sostenere che la versione ufficiale della lingua si trovi in qualche testo o libro, per esempio il dizionario Treccani, o i pareri dell’Accademia della Crusca, o diverse autorevoli grammatiche. Ma basta pensarci un momento per capire che non può essere così: pensate di essere uno straniero che impari l’italiano solo su questi libri – e non lo parli con nessun essere umano reale – e vi rendete conto che il vostro italiano parlato non avrà niente di naturale. Anche i bambini di cinque anni che sanno a malapena leggere “scuola materna”, figuriamoci un libro, possono costruire racconti elaborati in una lingua che è chiaramente italiano.

C’è questa idea leggendaria degli autori di dizionari riuniti intorno a un tavolo per decidere quali saranno le nuove parole da rendere ufficialmente “italiano”, ma come vi dirà qualunque linguista, il loro lavoro è esattamente il contrario. Rovistano tra grandi moli di linguaggi già esistenti, scritti o registrati, e cercano di capire quali nuove parole o nuovi usi di vecchie parole vengono pronunciati da gruppi di persone abbastanza numerosi e diversificati per diventare rilevanti per i futuri utenti dei dizionari. I dizionari vengono inevitabilmente dopo la lingua parlata, perché sono le persone a creare i cambiamenti linguistici.

Quindi, se non viene dai libri, dove si trova la lingua di livello “macro”? Il nostro senso complessivo dell’italiano è in realtà una combinazione astratta di tutti gli idioletti con cui abbiamo avuto a che fare nel corso della nostra vita, soprattutto in età giovane e formativa. Le conversazioni che abbiamo fatto, i libri che abbiamo letto, la televisione che abbiamo guardato: tutto questo ci dà un senso di quello che esiste là fuori in termini di possibili varianti dell’italiano. Gli elementi che ricorrono più frequentemente, o le formule che preferiamo per qualunque ragione, sono quelle che assumiamo come modelli.

Il problema nasce quando decidiamo di ritenere che il macrolinguaggio e tutti i microlinguaggi debbano essere la stessa cosa. Che tu sia la massima autorità sulla lingua italiana così come esiste nella tua testa, va bene. Le tue percezioni, e anche i tuoi gusti personali, sono reali e non li puoi ignorare. Purtroppo però questo vale anche per chiunque altro.
Ma allora che ne è dell’italiano “corretto”? Non ci sono varianti – idioletti o gruppi di idioletti – che sono migliori di altre?
In termini linguistici, no.

Ma non è forse più facile e rapido leggere una cosa su cui abbiamo concordato delle convenzioni di scrittura, piuttosto che lasciare ognuno a scegliere come gli pare punteggiature e sillabazioni? Certo (anche se la modalità “come gli pare” è in sostanza quella che veniva applicata nel Medioevo, e nessuno sembrava preoccuparsene. Di certo, è più facile da imparare). E non hanno un valore l’esposizione o la scrittura concisi e ben organizzati? Eccome. Ma da un punto di vista formale, qualunque cosa un oratore dica intenzionalmente fa parte di un sistema mentale complesso e regolato, e ognuno di questi sistemi è ugualmente degno di interesse e rispetto. E allora, posto che riusciamo a capirci l’un l’altro, come ci formiamo l’opinione che “ho fame” sia meglio di “c’ho fame”, o che “torso nudo” sia meglio di “dorso nudo”, o che il rigido “letteralmente” sia così peggio degli ormai più laschi “veramente” o “realmente”? Perché preferiremmo che i nostri figli imparassero a parlare come Corrado Augias piuttosto che come Checco Zalone?

Quello che riteniamo “italiano corretto” è la lingua storicamente parlata dalle persone con maggiore potere. La proliferazione di grammatiche e manuali di lingua a partire dalla metà dell’Ottocento in molti paesi più progrediti fu parte di un tentativo da parte della classe media in ascesa di accedere alle opportunità economiche prima disponibili solo alle persone in grado di parlare come un professore. Dapprima furono soltanto manuali per parlare come le classi elevate, ma nel corso degli anni diverse scelte arbitrarie vi si fecero largo e si cristallizzarono come dogmi, al punto che – per citare il linguista Stan Carey – “lo scopo di queste non-regole è mantenere delle parole d’ordine anacronistiche che permettano a una comunità di congratularsi per conoscerle”.

Può essere saggio per i figli dei Checco Zalone del mondo modificare il proprio idioletto in cerca di maggiori opportunità? Certo. Ma a livello sociale è piuttosto sgradevole che i figli di Corrado Augias crescano parlando una lingua che automaticamente li avvantaggerà nel lavoro e nella carriera, mentre i figli di Checco Zalone dovranno imparare una lingua diversa da quella delle loro famiglie e dei loro amici per avere le stesse opportunità. Non scegliamo noi dove e come crescere, e sappiamo che quel dove e come influenza i nostri idioletti, quindi perché deve essere accettabile che alcuni siano penalizzati per una cosa su cui non hanno controllo? La risposta è semplice se l’obiettivo è mantenere potere e opportunità economiche dove sono sempre stati. Ci piace pensare di essere più illuminati e meno classisti dei nostri avi, ma fino a che pensiamo che alcuni idioletti siano giusti e altri sbagliati, non stiamo progredendo molto. L’italiano “corretto” è un ambiguo assortimento di idioletti come qualunque altro dialetto, e privilegiarne uno su un altro è una costruzione sociale che non ha niente a che fare con le questioni linguistiche.

© Slate 2014

– Luca Sofri: Frustare il vento (sui grammar-nazi)