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  • Lunedì 4 agosto 2014

Perché questa epidemia di ebola è diversa

C'entrano credenze locali, la facilità con cui oggi ci si può spostare, la diffidenza verso la medicina occidentale e una grande carenza di risorse

di Michael T. Osterholm –Washington Post

A nurse sets an information sign about Ebola on a wall of a public health center on July 31, 2014 in Monrovia. Liberia announced on July 30 it was shutting all schools and placing "non-essential" government workers on 30 days' leave in a bid to halt the spread of the deadly Ebola epidemic raging in west Africa. The impoverished country, along with neighbouring Guinea and Sierra Leone, is struggling to contain an epidemic that has infected 1,200 people and left 672 dead across the region since the start of the year. AFP PHOTO / STRINGER (Photo credit should read STRINGER/AFP/Getty Images)
A nurse sets an information sign about Ebola on a wall of a public health center on July 31, 2014 in Monrovia. Liberia announced on July 30 it was shutting all schools and placing "non-essential" government workers on 30 days' leave in a bid to halt the spread of the deadly Ebola epidemic raging in west Africa. The impoverished country, along with neighbouring Guinea and Sierra Leone, is struggling to contain an epidemic that has infected 1,200 people and left 672 dead across the region since the start of the year. AFP PHOTO / STRINGER (Photo credit should read STRINGER/AFP/Getty Images)

Diverse decine di volte negli ultimi quarant’anni si sono verificate epidemie di ebola in Africa, e ogni volta queste epidemie sono state messe sotto controllo. Questo è stato possibile grazie a tecniche efficaci come la prevenzione del contatto diretto con le persone infette e il controllo clinico di tutte le persone entrate in contatto con una persona infetta. Chiunque mostrasse sintomi precoci dell’infezione veniva messo in quarantena. Nonostante non esista una cura o un vaccino per l’ebola, queste comuni pratiche hanno funzionato ogni volta.

Sfortunatamente l’epidemia attualmente in corso è molto diversa da quelle passate. A meno che non cominciamo a investire maggiori risorse nella lotta – coordinando gli sforzi attraverso i diversi paesi interessati – l’epidemia si diffonderà ulteriormente. Se dovesse succedere, seguirebbero un caos politico e un caos economico.

Ma cosa c’è di diverso in questa epidemia? Il virus ebola non è cambiato, l’Africa invece sì.

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Primo: gli abitanti dei paesi colpiti – Guinea, Sierra Leone e Liberia – viaggiano molto di più e hanno molti più contatti con altre persone di quanto non facessero qualche decina di anni fa. Controllare le persone che abitano a qualche chilometro di distanza da una persona infetta è molto più facile che provare a rintracciare persone che abitano a decine di chilometri di distanza. Grazie ai moderni sistemi di trasporto non è raro che qualcuno viaggi centinaia di chilometri per stare con una persona cara. Inoltre, gran parte della regione colpita dall’epidemia di ebola è molto più urbanizzata di quanto non lo fossero quelle che lo sono state nel passato: il virus per questa ragione si è diffuso più velocemente.

Ma ci sono altre ragioni che hanno facilitato la diffusione dell’epidemia. Se di norma i familiari di una persona infetta hanno contatti prolungati col malato prima che lei o lui muoia, nel caso dell’Africa spesso i familiari entrano in contatto con il malato anche quando preparano il corpo per il funerale. Le tradizioni funebri in Africa includono frequentemente il lavaggio del corpo prima della sepoltura, cosa che spesso causa il contatto con sangue e altri fluidi corporei infetti. Gli operatori sanitari che lavorano nella regione non sono stati in grado di ridurre l’incidenza di queste pratiche: è una questione che mette le esigenze di controllo sanitario in conflitto con credenze culturali e religiose. A questi aspetti si aggiunge il fatto che è la prima volta che questa regione dell’Africa viene colpita da un’epidemia di ebola e non c’è memoria collettiva di quello che si può fare per fermare l’epidemia.

Secondo: le popolazioni locali con il passare del tempo sono diventate sempre meno propense alla cooperazione con il personale medico e gli operatori sanitari, in parte perché si è diffusa la credenza che siano loro stessi a diffondere il virus. Nonostante questo non sia un fenomeno nuovo, la fiducia nella medicina tradizionale e nelle pratiche di salute pubblica è diminuita notevolmente negli ultimi anni. Il risultato è che i nuovi casi non vengono identificati, i malati non vengono portati nelle strutture e le ricerche delle persone che sono entrate in contatto con il malato non riescono ad arginare il contagio. Questo oggi sta succedendo molto di più che in passato.

Negli ultimi due mesi le organizzazioni non governative che si stanno occupando di contenere l’epidemia si sono accorte che le strategie messe in atto dai governi locali e dalle istituzioni internazionali erano inadeguate. Le loro richieste di ulteriori risorse, inclusi più personale e fondi, sono rimaste però inascoltate. Ora mettere fine all’epidemia richiederà una risposta parecchio più ampia e complessa di quelle che sono state sufficienti nel passato.

A questo si aggiunge il fatto che molte persone tengono nascosti casi di contagio nella paura che i loro cari, ammalati, vengano messi in isolamento in una clinica o in un ospedale, dove moriranno in solitudine. Queste credenze sono alimentate dalla mancanza di informazione su come si diffonde il virus ebola e sulle difficoltà di curarlo. Quello che molte persone vedono è che i loro cari vengono portati via da vivi e tornano in sacche da morto.

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Da quando i primi casi di ebola sono stati individuati in marzo in alcune aree forestali del sud della Guinea, l’epidemia si è allargata molto sia in termini di persone infettate che di zone geografiche colpite. Il virus ha infettato oltre 1.300 persone e oltre 700 sono morte. Questi numeri sono ancora molto lontani da quelli causati da altre epidemie come quelle di HIV, malaria e tubercolosi che sono presenti ogni giorno in queste stesse regioni dell’Africa, ma l’ebola tocca le corde della paura in modo diverso da altre epidemie, a causa della morte orribile e veloce che provoca.

Il personale medico che in prima linea sta combattendo l’epidemia è stato eroico e indefesso, ma sono semplicemente troppo pochi. Medici senza frontiere è l’organizzazione che ha più personale sul campo nei tre paesi colpiti e si occupa di fornire cure e lavorare con le comunità per la prevenzione. Poi ci sono la Croce Rossa, la Mezzaluna Rossa e le agenzie coordinate dall’Organizzazione mondiale per la Sanità, oltre che le organizzazioni sanitarie locali e gli educatori che lavorano nelle diverse comunità.

Queste associazioni sanno come combattere la malattia, hanno aiutato a sviluppare i rimedi che hanno contribuito a fermare altre epidemie nel passato, ma, come ha detto il portavoce di Medici senza frontiere «le organizzazioni non governative sono prossime a finire tutte le loro risorse e a quel punto sarà impossibile implementare delle strategie di controllo efficaci, a causa della carenza di personale sul campo e della vastità della regione colpita».

Il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie degli Stati Uniti (CDC) ha annunciato giovedì che invierà 50 specialisti nella regione, per aiutare a combattere il virus; questi si aggiungeranno ai 12 esperti già sul campo. Per un’epidemia che coinvolge 22 milioni di persone e una superficie di 430.000 chilometri quadrati questo non è certamente un numero adeguato di personale sul campo, ma il CDC è solo uno dei diversi enti che dovrebbero intervenire: anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e le altre nazioni del G7 devono fare qualcosa.

L’OMS non ha le risorse per fermare l’epidemia da solo. Mantenendo un grande rispetto per la sovranità delle nazioni coinvolte, il G7 – gli Stati Uniti, Canada, Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone – dovrebbero inviare immediatamente centinaia di esperti epidemiologi insieme alle attrezzature mediche necessarie per mappare la diffusione dell’epidemia. Centinaia di medici ed esperti in più saranno necessari per attrezzare i centri di cura e per aiutare le persone a capire come ostacolare la diffusione del virus.

In aggiunta a queste risorse esterne, i paesi coinvolti devono aumentare i loro sforzi per fermare l’epidemia. La settimana scorsa Ernest Bai Karoma, presidente della Sierra Leone, ha dichiarato lo stato di emergenza sanitaria a causa del virus ebola. Ha chiesto all’esercito di mettere in quarantena i quartieri infettati e di aiutare nelle ricerche porta a porta delle persone che si pensano essere entrate in contatto con il virus. Queste decisioni mostrano che l’epidemia non verrà fermata se si continueranno a usare le stesse strategie del passato. A oggi non è ancora chiaro come il governo della Sierra Leone si stia coordinando con l’OMS e le altre ONG che operano nel paese, ma siccome questo è un problema dell’intera regione che richiederà il lavoro di tutti i paesi coinvolti per essere risolto, la coordinazione con i governi locali è necessaria.

Cosa succederà se non cambierà la risposta all’epidemia? Paura e panico stanno aumentando ogni giorno, sempre più zone vengono colpite da casi di ebola e molti operatori sanitari sono morti. Se le cose dovessero continuare così, l’Africa dell’ovest ne uscirebbe politicamente ed economicamente destabilizzata. Già ora, a causa dei timori sulla diffusione del virus, molti campi non vengono più coltivati. Diverse scuole in Liberia hanno chiuso e l’associazione umanitaria Peace Corps ha ritirato molti dei suoi volontari dai paesi colpiti dall’epidemia. I confini tra i paesi vengono chiusi e anche questo avrà un impatto sull’economia – quindi sulle vite delle persone, anche quelle sane.

Questa settimana la crisi causata da ebola dovrà essere messa al centro degli incontri tra Stati Uniti e leader africani in programma a Washington. Se i presidenti di Guinea, Liberia e Sierra Leone decideranno di stare a casa, sarà impossibile cominciare a organizzare una risposta all’epidemia. Anche gli altri paesi africani devono impegnarsi per una veloce ed efficace risposta qualora l’epidemia dovesse arrivare fino nei loro paesi. Siamo in un momento decisivo e le decisioni della comunità internazionale e dei paesi colpiti da questa nuova epidemia saranno decisive per sapere se questa sarà solo una pagina nella loro storia o se questa regione dell’Africa vivrà un drammatico e pericoloso cambiamento.

©2014–The Washington Post