Avere tatuaggi visibili rende un po’ più difficile trovare lavoro

A parità di curriculum le aziende preferiscono assumere chi non ne ha, scrive l'Economist, ma ci sono delle eccezioni

LONDON, ENGLAND - SEPTEMBER 27: A detail view of Jimmy Q's tattoo at the London Tattoo Convention in Tobacco Dock on September 27, 2013 in London, England. Over 300 tattoo artists from around the world are showcasing their body art in 26 halls at the convention which also features live music and tattoo competitions. (Photo by Oli Scarff/Getty Images)
LONDON, ENGLAND - SEPTEMBER 27: A detail view of Jimmy Q's tattoo at the London Tattoo Convention in Tobacco Dock on September 27, 2013 in London, England. Over 300 tattoo artists from around the world are showcasing their body art in 26 halls at the convention which also features live music and tattoo competitions. (Photo by Oli Scarff/Getty Images)

L’Economist ha pubblicato un articolo in cui cerca di capire se avere dei tatuaggi visibili possa in qualche modo rendere più difficile trovare un lavoro: se cioè a parità di curriculum non si preferisca assumere chi non ne ha. Conclusione degli studi: in questo momento storico, fatte salve alcune eccezioni, avere un tatuaggio visibile può essere uno svantaggio.

Nelle società cosiddette “primitive”, dei paesi africani e delle isole del Pacifico, il tatuaggio aveva un ruolo sociale e religioso e segnava il passaggio all’età adulta o all’inclusione in una comunità. In Occidente il tatuaggio era storicamente legato al mondo del circo, del crimine o di chi lavorava in mare. Divenne poi un segno distintivo dei giovani di città e infine una vera e propria moda. L’Economist dice che negli Stati Uniti un adulto su cinque ha un tatuaggio, che due su cinque di coloro che hanno un tatuaggio hanno circa trent’anni e che la maggior parte delle persone tatuate sono donne. «Ma cosa succede quando queste persone cercano lavoro?», si chiede il giornale.

Andrew Timming, professore dell’Università scozzese di St. Andrews, sostiene ad esempio che nonostante i tatuaggi siano ormai molto diffusi – sono conformisti, potremmo dire – sono ancora percepiti e associati a un atteggiamento di ribellione che può mettere in guardia un datore di lavoro, consapevolmente o no. In uno studio realizzato nel 2013 insieme ad altri suoi colleghi, Timming ha chiesto a diversi responsabili delle assunzioni o del personale di valutare alcuni candidati sulla base delle loro immagini, alcune delle quali erano state modificate con l’applicazione di un tatuaggio sul collo. I candidati tatuati si sono classificati ai posti più bassi, a parità di curriculum. Da un altro studio condotto da Timming risultava inoltre che molti manager del settore dei servizi erano diffidenti riguardo i tatuaggi visibili, soprattutto per quanto riguardava le assunzioni per ruoli che prevedevano contatto e trattative con i clienti. Si tratta comunque di un «pregiudizio sociale e non individuale», ha spiegato Timming: nelle risposte dei manager contava il fatto di come i clienti avrebbero potuto percepire i dipendenti con tatuaggi visibili.

Ci sono comunque – e contano anche queste, dice Timming – diverse percezioni a seconda dei tatuaggi: quelli che rappresentano fiori o farfalle sono generalmente ritenuti accettabili, mentre quelli che rappresentano teschi o altre situazioni negative sono stati maggiormente rifiutati. Ci sono, infine, luoghi di lavoro più aperti (“tattoo-friendly”, scrive l’Economist) rispetto ad altri: quelli cioè che hanno una clientela più giovane e quelli in cui avere un tatuaggio può essere anche considerato un vantaggio. Il dirigente di un carcere per esempio ha spiegato che avere dei tatuaggi gli ha reso più semplice il rapporto con i detenuti. In generale comunque avere un tatuaggio visibile può essere uno svantaggio.

«Nonostante il pregiudizio possa sembrare anacronistico, non è infondato», precisa l’Economist. Diversi studi empirici hanno infatti a lungo legato i tatuaggi alla percezione di comportamenti devianti: le persone con la pelle tatuata sembrano più propense a portare armi, a fare uso di droghe e a commettere reati. «L’associazione è più forte quando i tatuaggi sono grandi o quando ce ne sono diversi» dice Jerome Koch, sociologo presso la Texas Tech University.

Questo potrebbe aiutare a spiegare la decisione che l’esercito americano prese nel settembre 2013, adottando una serie di regole volte a limitare le dimensioni e il numero di tatuaggi e vietare quelli sul collo, sulla testa e sulle mani. Già da molti anni, all’interno dell’Army Regulation, erano invece già proibiti senza alcuna eccezione i tatuaggi razzisti, sessisti o con significati estremisti. La recente modifica vuole promuovere disciplina e professionalità ma rende più difficile reclutare nuovi soldati. Alcuni stanno risolvendo il problema facendo rimuovere i loro tatuaggi: un mercato che negli ultimi dieci anni è cresciuto del 440 per cento (i dati sono di IBIS World, una società che effettua ricerche di mercato).