Il punto su Alitalia

Una storia sempre più complicata: ci sono parecchi problemi coi sindacati e con Poste Italiane

Questa settimana sui giornali italiani si è tornati a parlare parecchio di Alitalia per via di una serie di problemi e complicazioni che stanno rallentando l’accordo con Etihad, la compagnia aerea degli Emirati Arabi Uniti che dovrebbe investire in Alitalia e comprare il 49 per cento delle sue azioni. Le difficoltà principali arrivano dal rapporto con i sindacati e con alcuni azionisti e sono soltanto l’ennesimo capitolo di una storia contorta che negli ultimi anni è costata diversi miliardi di euro allo stato italiano.

La storia, fino a questo punto, è più o meno questa. Nel 2008, dopo un lungo periodo di crisi e interventi più o meno approssimativi di vari governi, Alitalia venne privatizzata e acquistata da una cordata di imprenditori chiamata “CAI” (qui il primo “capitolo” della storia). Nell’ottobre del 2013 la compagnia si è trovata di nuovo vicina al fallimento ed è stata salvata soltanto grazie ad un accordo con le banche e all’ingresso di Poste Italiane che investirono circa 70 milioni di euro, un intervento che all’epoca fu molto criticato e che venne definito un vero e proprio aiuto di stato (Poste Italiane è controllata dal ministero dell’Economia, qui il secondo “capitolo” della storia).

La soluzione Poste, però, era solo temporanea. Poche settimane dopo l’accordo, il governo e Alitalia hanno cominciato a cercare un partner straniero in grado di investire nella società e compiere un’operazione di rilancio per rendere finalmente Alitalia in grado di reggersi sulle sue gambe senza bisogno continuo di interventi e aumenti di capitale. Dopo mesi di trattative per cercare un investitore è rimasta soltanto Etihad, la compagnia aerea degli Emirati Arabi Uniti, che lo scorso giugno ha firmato un accordo preliminare per rilevare il 49 per cento del capitale di Alitalia. L’accordo definitivo dovrebbe essere firmato nei prossimi giorni, sempre che non sorgano altri problemi.

L’accordo con Etihad prevede una serie di condizioni, tra cui un totale di circa 2.500 esuberi tra i dipendenti di Alitalia, gran parte dei quali dovrebbero venire riassorbiti nella società o nelle sue controllate. La CGIL si è rifiutata però di firmare l’accordo, sostenendo che avrebbe rischiato di portare al licenziamento di circa mille dipendenti. Visto che l’accordo è stato sottoscritto dal 50 per cento più uno delle rappresentanze sindacali, l’opposizione della CGIL non dovrebbe rappresentare un grosso problema.

Qualche giorno dopo è stata la UIL a causare difficoltà alla trattativa: si è opposta a un altro accordo, firmato anche questo da quasi tutte le altre principali sigle sindacali, che riguardava un nuovo contratto per i dipendenti della società e una diminuzione degli stipendi (questo secondo accordo, a quanto pare, non era stato richiesto esplicitamente da Etihad per acconsentire alla trattativa). La UIL ha chiesto di tenere un referendum sull’accordo che si è svolto venerdì 25 luglio.

Alla consultazione potevano partecipare tutti i dipendenti di Alitalia, ma il referendum non ha raggiunto il quorom del 50 per cento più uno dei votanti. Questo ha causato una divisione tra i sindacati: adesso la UIL sostiene che l’accordo non è più valido, mentre CISL e CGIL, insieme ad Alitalia, sostengono che l’accordo resta comunque in vigore. Circa 3.555 dipendenti hanno votato su un totale di circa tredicimila. L’85 per cento dei votanti ha votato si all’accordo. Anche in questo caso l’accordo è stato sottoscritto da organizzazioni sindacali che rappresentano più della metà dei dipendenti e quindi l’opposizione della UIL potrebbe non pregiudicare l’accordo.

Ma non è finita qui, perché l’accordo non ha incontrato soltanto l’opposizione di alcuni sindacati, ma anche di alcuni degli azionisti. In particolare Poste Italiane. In sostanza Poste Italiane si è rifiutata di investire altri 40 milioni di euro in una sorta di “operazione ponte” per tenere in piedi la società in attesa dell’arrivo di Etihad. L’amministratore delegato di Poste, Francesco Caio, ha detto di essere disposto a investire in Alitalia, ma solo a condizione di poterlo fare nella “nuova” Alitalia, quella che nascerà dopo l’ingresso di Etihad. Caio non vuole invece investire nell’attuale Alitalia-CAI, una scelta che caricherebbe ulteriori perdite della società su Poste Italiane.

Anche per questo motivo, diversi giornali hanno scritto negli ultimi giorni che governo e azionisti di Alitalia sono alla ricerca di altri azionisti in grado di intervenire garantendo alla compagnia i 40 milioni necessari a completare l’aumento di capitale che a sua volta è fondamentale per consentire l’ingresso di Etihad. Ma cosa accadrebbe se l’accordo non dovesse andare in porto? Secondo il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi l’unica alternativa all’accordo è il fallimento di Alitalia. La Stampa ha ipotizzato altre due alternative, pur ammettendo che il fallimento è quella più probabile. Una prima ipotesi è che Alitalia riesca a mantenersi senza bisogno di aiuti, ma questo costringerebbe gli azionisti ad un ulteriore aumento di capitale (e non è sicuro che abbiano i soldi per farlo) e probabilmente porterebbe ad un numero ancora maggiore di esuberi. L’altra alternativa è un aiuto di stato, di dimensioni maggiori rispetto all’intervento compiuto ad ottobre tramite le Poste. Non è molto probabile, però, che il governo riesca a trovare il denaro necessario e che l’Unione Europea dia il suo via libera (gli aiuti di stato, tranne in particolari eccezioni, sono vietati).