Se si va a votare davvero, come si vota?

Renzi e il PD minacciano elezioni se le riforme non passano, ma la legge elettorale è diventata più un garbuglio di prima

Foto Roberto Monaldo / LaPresse
30-06-2014 Roma
Politica
Senato, Commissione Affari Costituzionali 
Nella foto Roberto Calderoli

Photo Roberto Monaldo / LaPresse
30-06-2014 Rome (Italy)
Senate - Constitutional Affairs Committee
In the photo Roberto Calderoli
Foto Roberto Monaldo / LaPresse 30-06-2014 Roma Politica Senato, Commissione Affari Costituzionali Nella foto Roberto Calderoli Photo Roberto Monaldo / LaPresse 30-06-2014 Rome (Italy) Senate - Constitutional Affairs Committee In the photo Roberto Calderoli

Da mesi proseguono le trattative politiche portate avanti dal governo riguardo l’approvazione definitiva della nuova legge elettorale, approvata dalla Camera il 12 marzo ma ferma al Senato perché legata dal governo all’approvazione del disegno di legge costituzionale sulle riforme, l’ambizioso progetto per modificare il funzionamento di numerose istituzioni a partire dallo stesso Senato. La legge elettorale vigente, la cosiddetta “legge Calderoli” del dicembre 2005 che da tempo si insisteva di voler cambiare, è stata poi ritenuta parzialmente incostituzionale da una sentenza della Corte Costituzionale il 4 dicembre 2013.

Da giorni il presidente del Consiglio Matteo Renzi dice di voler cominciare la discussione della legge elettorale in Senato «il giorno dopo» il voto sul disegno di legge costituzionale sulle riforme. Al contempo, però, ha spiegato che nel caso il disegno di legge dovesse non essere approvato nei tempi previsti (che abbiamo spiegato estesamente qui) «si andrà sparati alle elezioni». Anche il presidente del Partito Democratico Matteo Orfini, in un’intervista pubblicata oggi dall’Unità, ha detto che «se l’obiettivo delle riforme costituzionali dovesse rivelarsi impraticabile, le elezioni anticipate sarebbero inevitabili».

In molti pensano che questo sia un tentativo di fare pressione sugli altri partiti per approvare più velocemente il disegno di legge, dato che nel caso di ipotetiche nuove elezioni il Partito Democratico si troverebbe in una posizione di forza: potrebbe infatti addossare ad altri la caduta del terzo governo in poco più di un anno cercando di conservare il consenso altissimo ottenuto alle ultime elezioni europee. Se però davvero ci trovassimo con il governo Renzi dimissionario e nuove elezioni da tenere, con quale legge elettorale andremmo a votare? Facciamo finta che quel giorno sia domani.

Cosa resta del “Porcellum”
La Legge Calderoli (chiamata anche “Porcellum”) fu approvata il 21 dicembre 2005 dall’allora governo Berlusconi. Il Porcellum era basato su un sistema proporzionale più un premio di maggioranza, distinto tra Camera e Senato. Alla Camera l’assegnazione del premio spettava alla coalizione di partiti – o al singolo partito senza coalizione – che otteneva anche un solo voto più degli altri su base nazionale. Il premio era molto grande e corrispondeva al 55 per cento dei seggi, cioè a 340 deputati su 617 (altri 12 vengono eletti nella circoscrizione estero, uno nel seggio della Valle d’Aosta). Al Senato il premio di maggioranza era invece su base regionale (era il motivo per cui nelle ultime elezioni al Senato era praticamente impossibile ottenere una maggioranza simile a quella della Camera).

Inoltre, prevedeva liste bloccate decise dai singoli partiti: gli elettori non potevano cioè indicare una preferenza ma votare solo il partito. Per tre volte gli elettori italiani hanno votato il Parlamento con questa legge elettorale: nel 2006, nel 2008 e nel 2013. Per due volte un Parlamento eletto con questa legge ha scelto un presidente della Repubblica. I governi sostenuti da parlamenti eletti con questa legge elettorale sono stati cinque: Prodi dal 2006 al 2008, Berlusconi dal 2008 al 2011, Monti dal 2011 al 2013, Letta dal 2013 al febbraio 2014, Renzi dal febbraio 2014 ad oggi.

Il 4 dicembre 2013 la Corte Costituzionale dichiarò incostituzionali alcune parti del Porcellum, che annullò formalmente il 16 gennaio 2014. Le motivazioni della sentenza, pubblicate il 13 gennaio, hanno chiarito che ad essere incostituzionali erano – semplificando molto – l’eccessivo premio di maggioranza, che produceva una «sovra-esposizione della lista di maggioranza relativa» e la mancanza delle preferenze, che secondo la Corte rendeva il voto «sostanzialmente “indiretto”». La Corte, però, spiegava che non essendoci «un modello di sistema elettorale imposto dalla Carta costituzionale», sarebbe spettato all’attuale Parlamento sceglierne uno in particolare: è sufficiente che rispetti le indicazioni contenute nella sentenza (qui le cose principali attorno alla nuova legge approvata dalla Camera, il cosiddetto “Italicum”).

E quindi?
Come spiegano gli stessi giudici nella sentenza della Corte Costituzionale, già la Corte di Cassazione – che aveva esaminato il ricorso contro il Porcellum nella primavera del 2013 – aveva scritto che «la proposta questione di legittimità costituzionale non mira a far caducare l’intera legge n. 270/2005 né a sostituirla con un’altra eterogenea, ma a ripristinare nella legge elettorale contenuti costituzionalmente obbligati (concernenti la disciplina del premio di maggioranza e delle preferenze), senza compromettere la permanente idoneità del sistema elettorale a garantire il rinnovo degli organi costituzionali». Insomma, la Corte Costituzionale non ha abolito il Porcellum, ma ne ha escluso alcune parti ritenute incostituzionali.

Sempre nelle motivazioni, la Corte spiega che in sostanza rimane valido «il meccanismo in ragione proporzionale delineato dall’art. 1 del d.P.R. n. 361 del 1957 e dall’art. 1 del d.lgs. n. 533 del 1993, depurato dell’attribuzione del premio di maggioranza» e che «le norme censurate riguardanti l’espressione del voto risultano integrate in modo da consentire un voto di preferenza». Sulla carta, quindi, diventerà una legge proporzionale pura senza premio di maggioranza, con la possibilità di esprimere una preferenza e uno sbarramento alla Camera invariato al 2 per cento su base nazionale per i partiti in coalizione e al 4 per cento per quelli non coalizzati (al Senato le soglie sarebbero invece stabilite su base regionale).

Un sistema elettorale proporzionale mira a riprodurre, nell’organo elettivo, le stesse proporzioni ottenute dai partiti a votazione conclusa. Semplificando molto, se un assemblea si componesse cioè di 100 membri e tre partiti ottenessero rispettivamente il 50, il 30 e il 20 per cento, eleggerebbero a testa 50, 30 e 20 parlamentari. Una legge del genere obbligherebbe qualsiasi partito che non ottenesse più del 50 per cento dei voti a formare una grossa coalizione con il secondo partito o terzo partito più grande oppure con tutta una serie di partiti più piccoli, indebolendo in partenza qualsiasi governo. Prendendo a esempio i risultati delle ultime europee – il contesto è completamente diverso ma li usiamo per praticità – il PD, nonostante abbia stravinto col 40,8 per cento, per governare dovrebbe fare un’alleanza con il Movimento 5 Stelle o Forza Italia (che hanno ottenuto rispettivamente il 21,1 e il 16,8) oppure tutta una serie di piccoli partiti; viceversa, una coalizione formata da Forza Italia, M5S, Lega Nord, UDC/NCD e Fratelli d’Italia avrebbe potuto scegliere di fare un governo escludendo il partito più votato (insieme avrebbero assommato circa il 52 per cento dei voti).

Per quanto riguarda le preferenze, invece, poiché non previste dal Porcellum, la Corte ha spiegato che «eventuali apparenti inconvenienti, che comunque non incidono sull’operatività del sistema elettorale, possono essere risolti mediante l’impiego degli ordinari criteri d’interpretazione e mediante interventi di normativa secondaria». Il Parlamento o il governo – tramite decreto – dovrebbero insomma comunque intervenire con norme specifiche per aggiustare la legge elettorale, su questa ed eventuali altre incongruenze.

foto: Roberto Monaldo/LaPresse