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  • Martedì 22 luglio 2014

È diventato impossibile avere successo come presidente USA?

Quasi impossibile, spiega il Washington Post: per alcune ragioni chiare, e lo dimostrano le simili difficoltà degli ultimi tre

di Chris Cillizza – Washington Post

US President Barack Obama speaks during a town hall meeting focusing on the importance of the My Brothers Keeper Initiative at the Walker Jones Education Campus in Washington, DC, on July 21, 2014. AFP PHOTO/Jewel Samad (Photo credit should read JEWEL SAMAD/AFP/Getty Images)
US President Barack Obama speaks during a town hall meeting focusing on the importance of the My Brothers Keeper Initiative at the Walker Jones Education Campus in Washington, DC, on July 21, 2014. AFP PHOTO/Jewel Samad (Photo credit should read JEWEL SAMAD/AFP/Getty Images)

Il presidente degli Stati Uniti è il ruolo più potente del mondo: nel quale quasi certamente fallirà chiunque.
Perché? Per molte ragioni diverse, tra cui per esempio:

-il declino del valore degli autorevoli discorsi presidenziali come meccanismo di persuasione;
-la profonda contrapposizione partigiana presente al Congresso e, più in generale, in tutto il paese;
-la crisi dei media mainstream e la nascita e crescita dei social media.

Prendete in considerazione gli ultimi tre presidenti – due Democratici e un Repubblicano – che,  su scale diverse, hanno tutti dovuto fare i conti con questi tre fattori (immaginate come sarebbe stata la presidenza di Bill Clinton se ci fosse stato Twitter). Come ha scritto Ron Brownstein in un ottimo articolo pubblicato dal National Journal:

C’è un punto di vista particolarmente importante per cui tutte le presidenze hanno avuto degli sviluppi simili. Ognuna inizialmente ha visto il proprio ruolo come un mezzo per superare le crescenti divisioni presenti nel paese. Clinton promise di superare ”le stupide dinamiche dei due partiti” con la sua agenda “Neo Democratica”. Bush si presentò come un “conservatore compassionevole” che avrebbe governato “per unire, non per dividere”. Obama cominciò a farsi conoscere con il suo discorso alla convention dei Democratici nel 2004, evocando le aspirazioni di tutti gli americani e si insediò radunando sentimenti di convergenza e riconciliazione.

Ma a un certo punto del suo secondo mandato, ogni presidente ha dovuto fare in conti con il fatto che il paese era ancora più diviso di quando era stato eletto. Nel 1996 e 1997, Clinton riuscì a ottenere alcuni dei più importanti accordi bipartisan (in particolare quelli sulla riforma del welfare e sul bilancio del Governo) dagli anni Settanta. Ma già nel 1998 i Repubblicani si stavano organizzando inesorabili per il voto sul suo impeachment.

Bush poté godere di un periodo di successo bipartisan durante il suo primo mandato, in particolar modo sulla riforma del sistema scolastico. Ma a metà del suo secondo mandato stava lottando coi Democratici sulla guerra in Iraq e sulla riforma della previdenza sociale e con i Repubblicani della Camera sulla riforma dell’immigrazione. Obama ha dovuto affrontare una continua opposizione Repubblicana dalla sua prima settimana come presidente e come dimostra la sua svolta verso un’azione di governo basata sulle decisioni unilaterali della presidenza, pare aver gettato la spugna nel cercare un terreno comune con il partito Repubblicano.

L’arco di sviluppo della presidenza Clinton è un po’ diverso da quello degli altri due, soprattutto a causa del tentativo di impeachment dei Repubblicani, un momento che la segnò profondamente. Le somiglianze tra le presidenze di Bush e Obama sono notevoli e mostrano che i trend che Clinton dovette affrontare verso la fine della sua presidenza – contrapposizioni di parte e perdita di autorevolezza – hanno accelerato notevolmente negli ultimi 14 anni. Il risultato, in entrambi i casi è stato lo stesso: un presidente che la maggioranza dei cittadini non appoggia più e un paese ancora più diviso ideologicamente, su praticamente qualsiasi questione.

Prendete le ultime 96 ore della presidenza Obama come sintetico esempio della crescente impossibilità di essere presidente.
Giovedì, subito dopo l’abbattimento del volo MH17 della Malaysia Airlines, Obama ha pubblicato un cauto messaggio di condoglianze per le vittime della tragedia, promettendo che sarebbe andato a fondo della questione. I conservatori, immediatamente, hanno cominciato a criticare il messaggio definendolo debole, se confrontato con il modo in cui Reagan aveva reagito a una situazione simile nel 1983. Cercando di rovesciare questo modo di raccontare le cose, Obama ha letto un nuovo messaggio venerdì 18 e ha risposto ad alcune domande della stampa. Questa volta Obama è stato molto più duro e aggressivo riguardo un possibile coinvolgimento della Russia nell’abbattimento del volo MH17. Ma nel fine settimana la maggior parte dei giornali ha commentato le cose dette dal Segretario di Stato John Kerry, che non si era accorto di avere ancora il microfono acceso, a margine di un’intervista per Fox News. Lunedì Obama era nuovamente in televisione con una posizione ancora più aggressiva nei confronti della Russia: «Cosa hanno da nascondere?» ha chiesto a proposito dei separatisti filo-russi che stavano bloccando l’accesso alle zone dove era precipitato l’aereo. Allo stesso tempo cercava di presentare le nuove regole contro la discriminazione di genere sul posto di lavoro e partecipava a riunioni pubbliche mirate a convincere il Congresso a sostenere la sua azione per risolvere il problema dei bambini immigrati senza documenti. Ah, e stava anche cercando di mantenere un certo equilibrio tra il diritto di Israele a difendersi da Hamas e il parlare delle vittime civili palestinesi delle operazioni militari a Gaza. E, pensa un po’, lui e il suo staff dovranno continuare a difendersi dagli attacchi dei Repubblicani che lo criticano per il tour di raccolta fondi per il quale partirà domani, considerato inappropriato in un momento di crisi domestica e internazionale come questo.

Scrivere tutte queste cose in un paragrafo è già piuttosto faticoso, immaginate farle. Però questo mostra la necessità di essere onnipresente, di esprimere una posizione su qualsiasi cosa accada e la difficoltà di “far passare” il messaggio che vorresti e di convincere chi è già ideologicamente predisposto a criticarti.

Tutto questo non vale come alibi per Obama. Ha faticato a risolvere problemi che si è creato lui stesso, particolarmente nel suo secondo mandato, come lo scandalo dell’IRS o quello della cura dei Veterani. I suoi rapporti con il Congresso, inclusi quelli con i Democratici, non sono mai stati facili e, come risultato, la sua capacità di chiedere il beneficio del dubbio è nulla. La sua sottovalutazione di quanto polarizzati siano diventati il paese e il Congresso era largamente evitabile; membri anziani del suo staff più stretto, la maggior parte dei quali faceva parte del suo staff in campagna elettorale, erano tutti a conoscenza della realtà. Anche la sua fiducia nella sua capacità di persuasione – nei confronti del paese e del Congresso – era eccessiva.

Tuttavia è difficile immaginare che Obama, anche se non avesse commesso questi errori di governo e di politica, avrebbe potuto essere considerato un presidente di successo. La sua presidenza è iniziata in un periodo di polarizzazione faziosa mai vista prima, sia nel paese che al Congresso, ma anche in un momento in cui la capacità di un presidente di influenzare e convincere il paese delle sue idee era ai minimi di sempre.

Recentemente stavo parlando con un sondaggista Democratico della presidenza Obama, del suo basso tasso di consenso e delle conseguenze che questo avrà in autunno, alle prossime elezioni di metà mandato. Gli ho chiesto cosa potrebbe fare Obama per migliorare i suoi numeri e cosa potrebbe essere considerato un buon risultato per lui. Il sondaggista ha risposto che il mondo della politica dovrebbe cambiare la sua definizione di cosa sia un presidente di successo. Secondo lui se Obama dovesse riuscire a risalire al 50 per cento di approvazione prima di Novembre sarebbe un successo incredibile. Il massimo che potrebbe raggiungere in via di principio, secondo il sondaggista, non supera il 52/53 per cento.

È quindi diventato impossibile essere un presidente di successo? Impossibile no, ma il fallimento è molto, molto più probabile. Fatevelo dire da Barack Obama. O da George W. Bush.

© 2014 The Washington Post

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