• Giovedì 10 luglio 2014

Saviano su Gomorra in tv, e tutto il resto

Una giornata tedesca a parlare del rinnovato successo delle sue cose, del rinnovato tormento della sua vita, dell'America e di altro ancora

di Francesco Costa – @francescocosta

Italian writer Roberto Saviano gives an interview on March 17, 2010 in Rome. Saviano, 29, whose book "Gomorrah" has been translated into 42 languages, has lived under police protection for two years. The screen version of "Gomorrah," directed by Matteo Garrone, won second prize at the 2008 Cannes film festival and was in the running for an Oscar. His book, exposes the workings of the powerful Naples mafia, the Camorra. AFP PHOTO / CHRISTOPHE SIMON (Photo credit should read CHRISTOPHE SIMON/AFP/Getty Images)
Italian writer Roberto Saviano gives an interview on March 17, 2010 in Rome. Saviano, 29, whose book "Gomorrah" has been translated into 42 languages, has lived under police protection for two years. The screen version of "Gomorrah," directed by Matteo Garrone, won second prize at the 2008 Cannes film festival and was in the running for an Oscar. His book, exposes the workings of the powerful Naples mafia, the Camorra. AFP PHOTO / CHRISTOPHE SIMON (Photo credit should read CHRISTOPHE SIMON/AFP/Getty Images)

Roberto Saviano a un certo punto mi dice: «A me è servito questo sostegno, perché se no sei solo».

Stiamo parlando insieme di Gomorra, la serie tv tratta dal suo famoso libro del 2006, e della sua più importante e delicata scelta di sceneggiatura; ma è una frase che potrebbe riferirsi a molte delle altre cose che Saviano racconta. Siamo a Monaco, in Germania: lui è arrivato sabato 28 giugno per presentare la serie di Gomorra al “Filmfest München”. L’albergo che ospita il grosso degli eventi collegati al festival – e ospita anche lo stesso Saviano e le sue molte interviste – è l’imponente Bayerischer Hof, su Promenadeplatz: è stato costruito nel 1841 e a un certo punto nel Novecento è stato il più grande hotel di tutta l’Europa. Chi ci arriva oggi nota soprattutto un bizzarro altarino ai piedi di una statua di fronte all’albergo: è stato allestito in onore di Michael Jackson, che dormiva qui quando passava in città.

La serie tv di Gomorra ha avuto un successo italiano gigantesco. È stata la serie tv più vista della storia di Sky ed è stata già venduta in 60 paesi, tra cui gli Stati Uniti, dove l’ha comprata la Weinstein Company: quelli dei film di Tarantino (è stata prodotta da Sky con le società di produzione Cattleya e Fandango, e la collaborazione di LA7 e Beta Film). L’opinione assai diffusa tra i critici televisivi è che sia la miglior serie tv italiana di sempre. La rivista statunitense Variety l’ha recensita e ha scritto che è «la risposta italiana a The Wire», mettendo così l’asticella nel punto più alto possibile. «Io avevo l’ossessione di fare la serie di Gomorra», dice Saviano. «Un giorno vado da Riccardo Tozzi, il presidente di Cattleya, gli presento un progetto e gli dico: in questa serie il bene non c’è. Parliamo, gli lascio queste otto pagine, poi gli chiedo: mi dici quando avrò una risposta? Così almeno ho un tempo per proporla ad altri, magari a produttori esteri, ci tengo molto. Lui mi dice: no no, ti rispondo adesso. La facciamo».

Dentro Gomorra ci sono un sacco di cose – personaggi sfaccettati e imprevedibili, una fotografia curatissima, Scampia trasformata in un vero personaggio della serie – ma come hanno notato in molti non c’è la lotta tra il bene e il male. Non c’è nessun poliziotto eroe, non c’è il giornalista che fuma un sacco di sigarette, non si vede nemmeno per una scena l’immancabile magistrato all’apparenza burbero ma in fondo generoso e buono. «Volevamo provare a raccontare il mondo della polizia visto con gli occhi loro, con gli occhi della camorra. Dove polizia, società civile, città, sono solo intralci, campi di conquista. Non volevo che si raccontasse il commissario, il giudice coraggioso, volevo raccontare come il potere ragiona e sta al mondo. Questa è la prospettiva». Alcuni hanno criticato Gomorra dicendo che la serie, costruita così, non è abbastanza edificante, o che comunque è incompleta: che non contiene nessuna speranza, che ignora l’esistenza di cittadini che non accettano lo status quo, e di altri pezzi del contesto, che contribuisce alla diffusione di un’immagine negativa e parziale di Napoli e del Sud in generale. Roberto Saviano – a cui ormai capita di rispondere a questa domanda con una certa frequenza – rivendica che tutte le scene, anche le più violente, sono ispirate a fatti realmente accaduti, e che non voleva Gomorra fosse una di quelle serie «costruite come se qualcuno le avesse masticate prima di darle in pasto ai telespettatori per evitare che possano strozzarsi».

Saviano fa autocritica sulla necessità di liberarsi dall’ossessione degli ascolti: «Sai perché il meccanismo dello share ci sta fregando? Perché ci ha salvati da Berlusconi, e gliene siamo stati grati. Perché nessuno poteva chiudere quella trasmissione contro di lui? Perché la guardavano, faceva share e questo la proteggeva. Io stesso dicevo continuamente: lo share, lo share, abbiamo fatto il record… Invece è una fregatura. Perché significa non sperimentare mai. È un’estorsione continua che costringe i programmi a essere sempre uguali. L’Auditel deve scomparire o trasformarsi, e avere un conteggio mensile come nella parte maggiore dei paesi del mondo». Ma soprattutto Saviano rivendica la scelta dal punto di vista della scrittura; e qui parla di un sostegno che non l’ha lasciato solo. «La battaglia vera è togliere il bene. Costringere lo spettatore. Su questa storia c’è stato il sì vero di Andrea Scrosati, vice presidente dei programmi di Sky: e devi pensare che è stata una scelta tostissima. Hanno provato fino alla fine a farci cambiare idea. Chi veniva da fuori a darci suggerimenti, anche in ottima fede, ci diceva: facciamo una figura di Roberto giornalista, facciamo un giudice… Andrea a un certo punto ha detto: no, facciamola così. Non è che togliamo il bene, semplicemente mostriamo un’angolatura. A me è servito questo sostegno, perché se no sei solo e verrai bloccato».

Lo showrunner e regista di Gomorra è Stefano Sollima, già autore dell’acclamata Romanzo Criminale; ci sono episodi diretti da Francesca Comencini e Claudio Cupellini. Nei credits della serie Saviano è descritto come ideatore e coautore del soggetto. «Io sono quello che porta i materiali reali: scrivo la mia parte e gliela do. Ho un ruolo narrativo ma non riesco a costruire una fantasia su qualcosa che non sia accaduto: poi magari si tratta di una cosa accaduta a Catanzaro e non a Scampia, ma dev’essere accaduta. Tutto il mondo della narrativa noir che racconta i narco, per esempio, mi sembra sempre tre scalini sotto un bel pezzo che racconta i veri Los Zetas. La battaglia poi è trasformare il mio materiale in una sceneggiatura, ma con gli sceneggiatori mi trovo benissimo. Mi piace scrivere soggetti, mi piace scrivere sceneggiature. Colma la distanza tra realtà e fiction. Mi spiego meglio: se io scrivo un raccontino sulla famiglia Savastano, la famiglia protagonista della serie Gomorra, non so se viene fuori una cosa credibile. Non va, ti devo raccontare i Di Lauro, i Licciardi, i Prestieri, quelli veri, e allora dici: ecco, ora capisco molte cose. Se però tu la famiglia Savastano la vedi in una serie tv, con tutti quei dettagli, con le loro facce, con la capacità degli attori, allora capisci di cosa stiamo parlando. La stessa storia che resa sulla pagina è appena credibile, televisivamente o cinematograficamente è pazzesca, è potente. Ragionare su questo per me è stato fondamentale».

Secondo Saviano è una questione di dettagli, e questa è una delle cose che ha imparato dalle serie tv americane. «Mi sono formato soprattutto guardando I Soprano e Breaking Bad. Ci sono le storie, gli innamoramenti, gli omicidi, ok: ma i dettagli sono protagonisti. Nei Robinson, che era la serie tv più vista al mondo prima delle nuove produzioni, non c’erano i dettagli. Anche quando c’era un problema di droga, non ti raccontava cosa succedeva davvero: arrivava in casa la notizia e si affrontava. Invece, per esempio, quando Tony Soprano riceve una telefonata, e sa che dopo cinque minuti in cui si parla di fatti privati la polizia per legge deve smettere di ascoltare, e quindi le mogli hanno il cronometro e dopo cinque minuti passano il telefono ai mariti – ecco, quello è rendere protagonista un dettaglio. È uguale per Breaking Bad. Come scrittura invece, può sembrare assurdo, ma mi sono formato sul mondo di Mad Men: conta molto il dialogo. In una serie di mafia non era scontato. Poi c’è tutto il lavoro fatto dagli attori sulla trasformazione umana. Un meccanismo importante perché tu stai dicendo allo spettatore: non sono bestie unidimensionali, hanno la complessità che hai anche tu che stai guardando. Tutto sommato queste scelte hanno pagato. Anche il mondo degli addetti ai lavori, il mondo “colto” che in genere mi è ostile, in questo caso ha detto che il prodotto era molto fico e nuovo».

Nuovo, soprattutto: Saviano lo ripete spesso. E pensa che per questo la prossima stagione di Gomorra, anche fosse bella e appassionante come la prima, potrebbe non ricevere la stessa accoglienza. «Il fatto che una cosa sia nuova è fondamentale per i giudizi che dà un paese stanco. Se tu fai un bel libro, quello che ti dicono è: bravo, te la sei cavata, bravo. Con aria di sufficienza». È inevitabile qui pensare al rapporto tra Gomorra – il libro formidabile e “nuovo” che ha trasformato l’allora “nuovo” Roberto Saviano in quello che è adesso, e che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo – e il secondo romanzo di Roberto Saviano.

Zero Zero Zero è uscito nel 2013 per Feltrinelli ed è stato il libro italiano più venduto dell’anno: mezzo milione di copie, dieci volte di più di quanto la gran parte degli scrittori italiani osi sognare di vendere, più di Camilleri e Fabio Volo. «È un miracolo. Vendere così tanto con un libro complesso, non aver ceduto a facili compromessi. Eppure tutto viene dato come scontato. Una scrollata di spalle. Non scrivo gialli o libretti, in quel caso arrivare a un grande pubblico non è così complesso. La mia sfida è sempre la stessa: prendere una visione complessa e portarla a più persone possibile». Il libro è stato primo su Amazon in Italia per moltissimo tempo e un pezzo del suo successo si deve anche al grande lavoro di promozione e diffusione fatto dallo stesso Saviano. «Per me promuovere i miei libri è parte del progetto di scrittura. Sono andato a proporre il libro praticamente casa per casa. Io dico sempre scherzando che andrei a citofonare alla gente: sono Roberto Saviano, lo scrittore, volete vedere il libro mio? Io lo farei, per far leggere le mie cose. Condividere è il motivo che mi porta a scrivere». Tra le altre cose, Zero Zero Zero è arrivato primo in classifica in Messico. «Non me l’aspettavo. Mi onora molto aver avuto questo ascolto in Messico, con un libro che per molti capitoli parla proprio di loro. Se guardi le interviste che ci sono online, vedi i messicani che mi chiedono di interpretare il regno di El Chapo. Lo chiedono a un napoletano! Ma questa è la forza della tradizione italiana che ha studiato e raccontato le mafie».

Il confronto tra l’Italia e il resto del mondo ritorna spesso nella conversazione, che si parli di Gomorra o di tutto il resto: un po’ perché è un termine di paragone inevitabile, nel bene o nel male, e un po’ forse anche per una serie di situazioni contingenti. Per esempio: siamo in Germania. Roberto Saviano non è andato a presentare Gomorra in Italia e nemmeno altrove, ma in Germania sì. «Io vengo apposta in Germania. È un gran paese, è un meraviglioso posto con cui potersi confrontare, ma sono convinti che la mafia non sia un problema loro. In Germania non esistono né il reato di associazione mafiosa né quello di riciclaggio. Se io faccio il cameriere in questo ristorante, e l’anno dopo mi compro l’intero albergo, no problem. Nessuno viene a chiederti niente, basta che paghi le tasse: infatti i mafiosi, quando vengono arrestati, vengono arrestati per evasione fiscale. C’è una ragione storica, secondo me: la STASI e la Gestapo. Non è che siccome c’è la mafia, la polizia qui inizia a usare intercettazioni o introduce reati associativi. Nella parte di Zero Zero Zero che parla della Germania io ho dovuto censurare tutto: un capitolo è pieno di nomi inventati perché la polizia tedesca mi ha impedito di pubblicare quelli veri. Non puoi pubblicare nomi di persone che hanno fatto reati in passato. C’è il diritto all’oblio. È il solito discorso, a quanta libertà sei disposto a rinunciare per avere sicurezza e legalità. La Germania secondo me potrebbe spingersi un po’ più in là, potrebbe decidere che certi strumenti siano usati solo per i reati di terrorismo e mafia. Solo che la comunità non si fida, preferisce sapere un mafioso libero di fare i suoi affari piuttosto che una polizia libera di poter intercettare e indagare chi vuole al minimo e pretestuoso indizio».

C’è un’altra ragione per cui finiamo a discutere dell’Italia in relazione al mondo, oltre al fatto che ci troviamo in Germania: Saviano non vive più in Italia.

Il 15 ottobre del 2008 su Repubblica uscì una conversazione di Giuseppe D’Avanzo con Roberto Saviano, che a un certo punto diceva: «Fanculo il successo. Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto ventotto anni! E voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere perché è quella la mia passione e la mia resistenza e io, per scrivere, ho bisogno di affondare le mani nella realtà, strofinarmela addosso, sentirne l’odore e il sudore e non vivere, come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri – oggi qui, domani lontano duecento chilometri – spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita. Me le ripeto una a una, silenziosamente, tra me». Non dovete necessariamente essere d’accordo con tutte le cose che dice o che pensa Roberto Saviano per immedesimarvi in un nemmeno trentenne costretto da un giorno all’altro a vivere una vita disgraziata – «come un recluso, un lebbroso, nascosto alla vita, al mondo, agli uomini» – e non poter decidere altrimenti, con un sacco di gente che ti riduce pure a un fortunato che si è costruito un personaggio. Nel paese in cui a una domanda intelligente – «Che cosa non rifaresti?» – tutti danno la più ottusa risposta del mondo – «Rifarei tutto!» – Saviano ha l’umiltà di dire che non rifarebbe proprio tutto. «Non c’è nessun bene superiore, nessuna questione di principio, che possa giustificare la rinuncia alla propria libertà e il rovinare la tua vita e quella delle persone a cui vuoi bene. Ci sono stati momenti in cui mi sono sentito abbandonato. Altri in cui mi sono sentito un fesso per aver fatto questo, per troppa ambizione, non so. Oggi nello scrivere Gomorra sarei un po’ più prudente, mi prenderei qualche cautela in più. Mi ero tuffato in un mare di fuoco e merda: oggi mi costruirei prima una zattera».

Nonostante lo sfogo sui giornali risalga al 2008, e in mezzo ci siano stati viaggi e periodi di permanenza all’estero anche lunghi, Roberto Saviano si è trasferito stabilmente negli Stati Uniti da appena sei mesi. «Il problema è che è una vita nascosta, una vita presidiata, e non va bene. Ti mastica tutto quello che hai dentro senza ingoiare mai». Saviano vive sotto scorta dall’ottobre del 2006: sei mesi prima era uscito il libro Gomorra, quindici giorni prima durante una manifestazione a Casal di Principe aveva urlato ai boss Antonio Iovine e Michele Zagaria: «Voi non siete di questa terra!». Gli erano arrivate minacce e intimidazioni, dirette e indirette, per le quali oggi due boss sono a processo: la procura ha chiesto il massimo della pena. Negli anni sono emersi racconti e testimonianze sull’esistenza di piani e intenzioni di ucciderlo: di farlo saltare in aria in autostrada, per esempio. Quindi ancora oggi, dovunque vada, Roberto Saviano viene seguito da una scorta: mentre parliamo a pranzo due agenti della polizia tedesca tengono d’occhio la situazione. Domani lo accompagneranno fino alla scaletta dell’aereo; quando ritornerà negli Stati Uniti, troverà sulla scaletta dell’aereo due agenti statunitensi. Roberto Saviano in America ha un altro nome. Per gli studenti della New York University, per cui ha tenuto un corso, si chiamava David Dannon: mi mostra divertito il tesserino con la sua faccia e quel nome, «un nome che si dimentica». Per i suoi vicini di casa ha un altro nome ancora. I suoi studenti dell’università di Princeton – una delle capitali mondiali degli studi economici, dove nell’ultimo semestre ha tenuto un corso di Economia criminale – lo sanno chi è; ma lui per strada ha imparato a non girarsi, che lo chiamino David o che lo chiamino Roberto.

«Ho finito gli esami un mese fa. Il posto è incredibile: arrivi, ci sono colline verdi e palazzotti neoclassici, tutto comunica serenità. Puoi avere un massimo di 15 studenti, per le lezioni che svolgevo io. Ti chiamano per nome, niente “professor”. Devi rispondere alle email entro tre giorni, se no lo segnalano al preside. Hai davanti il meglio tra gli studenti del mondo. Io arrivo presto la mattina: quando vado in biblioteca trovo i ragazzi che sono rimasti a dormire la notte, ognuno col suo plaid. È bellissimo. Ci sono due cose brutte, o meglio, diverse. La prima: appena arrivi capisci che questo tipo di università non seleziona i volenterosi e gli studiosi, quella roba lì la fanno all’università statale. Selezionano il talento. Se tu studi, e raggiungi con impegno e difficoltà un obiettivo, non sei il numero uno. Devi essere un talento naturale, che eccelle studiando. La seconda è l’investimento sulla competizione. Da professore puoi dare solo poche A, per esempio. Devi creare competizione tra gli studenti per spingerli al massimo».

Gli studenti di Saviano a Princeton pensano che seguendo un corso di Economia criminale possano migliorare la loro conoscenza del mondo. La maggior parte di loro vuole fare carriera diplomatica, soprattutto nel Mediterraneo, ma c’è anche chi ha deciso di scegliere il suo corso tra quelli extra per conoscere qualcosa in più del proprio paese. «Ho avuto studenti di tutto il mondo. Una ragazza brasiliana che studia fisica. Brasiliani, messicani, montenegrini, russi: vengono per capire». L’università si tiene in piedi grazie alle laute rette versate dai suoi studenti e grazie alle donazioni dei privati; inoltre molti dei corsi sono finanziati direttamente da imprese del settore. Questo modello – che in Italia ha trovato grande ostilità anche nei suoi tentativi di introduzione più graduali, soprattutto a sinistra – secondo Saviano funziona. «È il mio sogno. La ricerca va avanti così. Contestare questa strada, anche in Italia, è una follia. Si crede che così le aziende finiscano per sponsorizzare questo o quel docente, ma non è affatto così. Si pensa che ci saranno cattedre fatte solo per figli di imprenditori, di amanti, insomma costruite su misura, ma non è così. Al contrario, oggi la maggior parte dei concorsi all’università è fatta su misura per far diventare ricercatori o professori persone già designate da questo o quell’altro gruppo. Negli Stati Uniti non è così. Quando un’azienda fa un finanziamento e poi però avanza richieste sulle docenze, fermano il finanziamento. Questa strada funziona, io lo vedo. Il mio sogno è costruire una cattedra di Economia criminale».

Ciò non toglie che Princeton sia, oltre che una delle più serie e prestigiose università al mondo, una delle più costose e quella con gli studenti più ricchi. La Cina manda ogni anno un gruppo di ragazzi a sue spese, purché alla fine degli studi tornino in patria; l’Italia non fa niente del genere e gli italiani di Princeton, mi dice Saviano, si sentono abbandonati: figuriamoci quelli che a Princeton non ci arrivano. Mentre ritorna la questione della solitudine e del sostegno, mi chiedo se anche a Roberto Saviano – o forse soprattutto a lui – succeda una cosa comune a moltissimi italiani all’estero, specie in ambito accademico e universitario: finire a passare le serate a parlare di Silvio Berlusconi e degli ultimi vent’anni di storia d’Italia, e rispondere alle domande curiose degli stranieri.

«All’estero ti chiedono sempre le stesse cose su Berlusconi. Ma non è che c’è odio, eh: c’è simpatia. È visto come un vero italiano. È più curiosità: “ma è vero che lui…”. Quando sento che all’estero l’argomento inizia a essere il solito, io viro su Pompei ed Ercolano: e restano tutti così, a bocca aperta. Ma in generale c’è anche poca conoscenza dell’Italia, noi ci immaginiamo troppo al centro e non lo siamo. Il vero dolore di chi sta emigrando è questo. Se ci fai caso il governo Renzi non ha mai, mai nominato la parola emigrazione, parlando degli italiani, quelli che se ne vanno, mai. Sono trecentomila all’anno, secondo alcune stime: altri parlano di mezzo milione». Tutti vogliono andare in America, dice Saviano, ma chi parte si ritrova poi in una situazione particolarmente scomoda: straniero nel posto in cui arriva, guardato storto nel posto da cui viene. Il risultato è che pochissimi tornano in Italia a investire un pezzo di quello che hanno imparato e guadagnato altrove: e gli italiani si creano nuove storie, nuovi successi e nuove famiglie lontano dall’Italia. «Ci ho pensato a Zuccotti Park, per fare un esempio facile». Roberto Saviano è stato l’unico italiano invitato a Zuccotti Park dal movimento di protesta Occupy Wall Street, che nel 2011 occupò una piazza di New York per tre mesi. «Lui, Zuccotti, esiste: ha dato dei soldi perché la piazza avesse il suo nome. Io mi sono sempre chiesto: perché non ha fatto niente in Italia? Perché gli italoamericani di successo non hanno mai investito davvero in Italia? La risposta non riguarda solo le mafie. Non ci sono agevolazioni fiscali, non c’è una strategia, non si è mai voluto che davvero gli italiani, i nipoti, i figli degli italiani, potessero tornare a investire in Italia. Il Commonwealth italiano, che è stato il sogno di molti studiosi, poteva essere il primo promosso da un paese senza corazzate, senza condizionamenti, senza estorsioni. Allearsi, agevolare finanziamenti, costruire una rete. Invece a stento sopravvivono gli istituti di cultura e qualche associazione. Come sempre, tutto sprecato».

La storia dei soldi dei privati ritorna anche quando la discussione si allontana dal tema del funzionamento delle università. Su Pompei, appunto. «A volte mi chiedono: perché Pompei non la vendete? Usano proprio quest’espressione, per dire di affittarla. Tutti vorrebbero presentare un film o il nuovo iPhone nell’anfiteatro di Pompei. Darebbero milioni all’anno solo per un giorno, per presentare quella cosa. Una parte di me dice: che cos’è che vuoi vendere, scusa? Ma ce n’è un’altra che dice: farebbero una cosa bellissima. Peraltro ottenendo risorse, assicurando tutto: mentre adesso se una pietra cade, cade e basta. Sento già le solite voci: “così commercializzi Pompei!”. Ma quella è una zona già “commercializzata”: molto è in mano ai clan, che fanno tutto. Ristoranti, parcheggi, subappalti, tutto, da sempre. Il clan Cesarano ha Pompei. C’è una parte di Stato che lì resiste, ma tanto le hanno tolto tutte le risorse».

Poi c’è la questione dei soldi dei privati col giornalismo, anche.

Alle prese con la più grande trasformazione e la peggior crisi che questo settore abbia conosciuto – che riguardano sia i modelli di business che la qualità della professione – diverse testate hanno sperimentato soluzioni innovative per attrarre risorse. Una delle più discusse è il native advertising: la pubblicazione di qualcosa di simile ai vecchi pubbliredazionali, in teoria un po’ più curati (che già si fa molto sulla carta, ma in modi poco trasparenti). E c’è il crowdfunding: il finanziamento di singole inchieste attraverso micro-donazioni dei lettori. Esistono altri esperimenti del genere e non è un caso se hanno nomi in inglese, visto che le sperimentazioni più avanzate e frequenti sono in corso nel mondo anglosassone.

«Prendi Vice in America», dice Saviano, «che si fa sponsorizzare i suoi reportage e non pensa che questo sia imbarazzante. L’hanno risolta facilmente: se tu mi dai tanti soldi e tanta libertà, allora sei di fatto il mio editore. A meno che tu non sia un gruppo neonazista o fondamentalista, tutto il resto o quasi lo prendi. Non è detto che un grande gruppo ti finanzi solo perché vuole pubblicità; un grande gruppo può finanziare un’inchiesta su un certo paese perché ha interesse a raccontare un mondo, magari per promuovere la sua presenza lì. I gruppi occidentali che stanno finanziando molti reportage sull’Africa, per esempio, lo fanno perché vogliono contrastare l’influenza della Cina da quelle parti: e ne vengono fuori dei servizi meravigliosi. Poi certo, devi valutare caso per caso. Ma a me non dispiacerebbe, per esempio, essere finanziato da un grande gruppo che mi porti a raccontare tutta la parte di Africa equatoriale che adesso è in mano ai narcos: Togo, Benin, Guinea Bissau. Sono narcostati. Adesso si raccontano pochissimo, al massimo mandi un inviato per una settimana; ma se vuoi capire qualcosa tu là devi starci sei mesi». E nessun successo di lettori oggi è in grado di pagarli, quei sei mesi.

Roberto Saviano è uno scrittore e un giornalista. I suoi romanzi sono delle inchieste. La maggior parte delle cose che scrive finisce sui giornali: in Italia su Repubblica e sull’Espresso, all’estero tra gli altri sul New York Times, sul País, sullo Spiegel, sul Times. Scrive soprattutto di criminalità organizzata, anzi, Roberto Saviano spiega la criminalità organizzata, con un’efficacia che pochissimi hanno avuto prima di lui. Legge libri, studia atti giudiziari, ascolta testimonianze e racconti, e nonostante la vita da semi-recluso coltiva rapporti con fonti che gli permettono di capire cosa succede nel mondo di cui scrive. Oltre a parlarci, nel corso di una giornata l’ho osservato mentre dava interviste alla stampa straniera e mentre parlava con gli spettatori tedeschi di Gomorra. Gli ho sentito rispondere almeno cinque volte alla stessa domanda sul valore della scomunica dei mafiosi da parte di Papa Francesco; altri gli hanno chiesto di descrivere gli affari della criminalità organizzata in Germania; altri ancora volevano sapere di più della camorra e dei pentiti. Col passare delle ore le risposte alla stessa domanda si sono fatte inevitabilmente un po’ più sfilacciate, complici la stanchezza e il fuso orario, ma Saviano riesce comunque con grande facilità a rendere chiare le sfumature, a raccontare episodi, dettagli e contesti. Anche questa abilità narrativa, divulgativa, conosce però dei limiti.

«Io non riuscirò mai a raccontare davvero al paese che cosa significa il sacrificio mafioso. Perché Raffaele Cutolo non si pente? Ha fatto cinquant’anni di galera. Gli basterebbe mezza parola, non è che deve dire tutto. Perché non lo fa? Ci sono tante risposte possibili. Primo: è abituato al carcere. È tosta stare fuori, se sei abituato al carcere. Secondo: c’è un senso dell’onore, molto forte. Tre: perché anche in carcere, dopo tutti questi anni, Raffaele Cutolo non si è arreso. A un certo punto mi ha denunciato perché io raccontai l’unica cosa che lui non vuole che si racconti, cioè che un commando della NCO, la sua organizzazione, secondo quanto racconta il pentito Galasso ha ammazzato una bambina. I suoi dovevano ammazzare un giudice nemico dei cutoliani ma i proiettili uccisero la figlia, Simonetta Lamberti. Lui mi ha denunciato, anche se poi tutto è stato archiviato. Perché è importante? Perché significa che lui è ancora attento a quello che viene detto. Perché Schiavone non si pente? Perché non si pente Totò Riina? Non perché temono che poi ammazzino i loro figli: lo Stato, se si pente un pezzo grosso, prende tutti e li porta via. Quando si pentì Antonio Ruocco portarono 90 persone in Val d’Aosta, ed era una figura media. Loro non si pentono perché ragionano per generazioni. Sandokan è in galera. Mio figlio, dice, farà una brutta fine. Lo sa. Ma mio nipote avrà potere e ricominceremo. Tu dimmi chi sono oggi gli uomini che riescono a ragionare per generazioni, che pensano al proprio fallimento come necessario per un miglioramento di chi discenderà dal proprio sangue».

Antonio Iovine però si è pentito. Boss dei Casalesi, arrestato nel 2010 dopo 14 anni di latitanza, oggi è sotto processo per le minacce rivolte proprio a Roberto Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione; ha raccontato di come gli articoli di Saviano e Capacchione disturbassero i suoi tentativi di modificare l’esito di un processo corrompendo i giudici, e dei pericoli concreti che per questo correvano. Perché Iovine si è pentito? «Iovine si pente innanzitutto perché è fuori dai giochi. Secondo: con il suo socio Zagaria le cose non stavano andando particolarmente bene. Terzo: guarda i profili Facebook dei suoi figli. Sono figli che hanno la loro vita e soprattutto la vogliono diversa, non la vogliono legata alla camorra».

Saviano attende con una certa partecipazione l’esito di questo processo. A Monaco, parlando alla stampa, ha spiegato che un’eventuale condanna di Iovine per le minacce nei suoi confronti potrebbe essere per lui «la luce in fondo al tunnel», l’inizio di un percorso che lo porti un giorno non troppo lontano a guadagnare la possibilità di una vita più normale di questa. Eppure non tutti i meccanismi legati ai “collaboratori di giustizia” lo convincono. «I collaboratori di giustizia sono fondamentali ma spesso l’uso che si fa dei pentiti è pericoloso. Ti sembra giusto che il racconto di un pentito emerga sui giornali prima della verifica? Per me spesso è difficile credere alle cose che dicono. Magari si ricordano male, oppure vogliono vendicarsi di qualcuno. Magari dicono cose sbagliate in buona fede, credendo che siano vere, perché gliele hanno dette altri. Se dovessimo valutare la nostra vita sulla base di quello che dicono di me, uscirebbe di tutto». E qui Saviano ritorna su un tema che gli sta molto a cuore: la “macchina del fango”.

L’espressione “macchina del fango”, nelle sue attuali accezione e diffusione, ha origini piuttosto recenti: Giuseppe D’Avanzo la utilizzò nel 2010 in un famoso articolo di Repubblica che raccontava le calunnie contro i politici del centrosinistra ai tempi del caso Telekom Serbia. Roberto Saviano allargò la questione nella prima puntata di Vieni via con me, il programma televisivo – altro enorme successo – che condusse nello stesso anno con Fabio Fazio, e poi di nuovo un anno dopo a Perugia, durante il Festival Internazionale del Giornalismo. Era il 2011, Saviano disse che la “macchina del fango” è «una macchina fatta di dossier, di giornalisti conniventi, di politici faccendieri che cercano attraverso media e ricatti di delegittimare gli avversari». Parlandone a Monaco, aggiunge un’altra cosa: che Internet ha reso tutto ancora più facile. «Se tu facevi un pezzo cartaceo, magari ti beccavi una querela, magari ti trovavi costretto a fare poi una rettifica, ma il pezzo restava. Se io lo faccio online, lo posso correggere in ogni momento. Posso aver attaccato un politico, una persona qualsiasi; poi due ore dopo cambio il pezzo. È come se gli avessi tolto il torto. Scrivi e sai dentro di te che il tuo errore può essere modificato in ogni momento: quindi anche la tua responsabilità può essere cambiata in ogni momento. C’è qualcosa di mostruoso, in questo, ma non si torna più indietro».

Saviano dice che Internet sta cambiando la morale. Lui stesso lo definisce «il mio delirio» e quando mi spiega questa sua idea non è assertivo, lo fa interrogandosi, con cautela: ma sostiene che la crescita verticale della quantità di informazioni diffuse dalle persone su Internet e l’altrettanto verticale crescita dell’uso del gossip come «arma estorsiva» produrrà nel giro di cinquant’anni un «cambiamento della morale». E porrà fine alla privacy in quanto tale. «Chiunque pensa di dover fare i conti con la privacy ragiona col passato. È finita. Siamo diventati delle belve? Forse sì, anche se dirlo è così scontato. Ma quella roba non esiste più. Tra cinquant’anni tu online troverai tutto. Tra cinquant’anni la ministra o il ministro avranno online le foto delle loro feste. Avranno il primo selfie a letto col primo fidanzatino. Ci sarà tutto e non scandalizzerà. Quando parlo a un quindicenne, mica si sente offeso se Hollande tradisce la sua compagna e la va a trovare in Vespa. A noi, alla parte di mondo ancora educata alla vecchia maniera, viene da dire: “Eh, t’abbiamo beccato in castagna…”, “Se menti con la tua famiglia menti anche col paese”. La morale vecchia è: tu fatti i fatti tuoi, io ti giudico solo per quello che so. Quindi un dettaglio privato, una parola volgare, un’intercettazione, una bugia, una foto, un’abitudine bizzarra, possono ora distruggere una persona. La morale nuova è: io non ti devo giudicare per quello che so, perché so già tutto. Ti so nelle espressioni più orrende, nelle cose più intime. Quindi ti devo giudicare per quello che è importante, per le tue idee, per le tue azioni, quelle che contano. Tutto il resto lo devo considerare umano. Questa nuova morale i ragazzini ce l’hanno, e a dire il vero c’è una grande saggezza in questo nuovo modo di guardare le cose. La logica del passato prevedeva che l’intimità si svolgesse nel privato: non parliamo di crimini, ma della propria intimità. Una foto di sé nudi, o mentre si è sulla ceramica del bagno, può imbarazzare: anche se non si tratta di reati, l’intimità in quanto tale se svelata mina la propria identità pubblica. Oggi è sempre meno così. Se le cose le fai, perché non renderle pubbliche? E una volta pubbliche, perché dovrebbero scandalizzare? Il confine è finito. A me l’assenza di privacy spaventa da morire, è il nuovo totalitarismo, ma così è. Non ci vedo né un decadimento né un miglioramento: semplicemente un cambiamento».

Questo cambiamento riguarda tutti – dopotutto siamo dentro al ventennio della privacy (cit.) – ma è inevitabile, ascoltandolo, pensare innanzitutto a lui, a Roberto Saviano: a chi cerca sistematicamente di diffamarlo sui giornali, a chi gli dice che ha fatto tutto questo per i soldi e il successo, a chi in Italia lo insulta per strada («capita ogni volta»), a chi suggerisce più o meno esplicitamente che la sua scorta sia un lusso, un privilegio immeritato, e non una condanna. «In un paese come l’Italia niente sembra possibile. Si spera che tutti siano arrestati, che tutti cadano in scandali, dal flop dell’industriale al sindaco passando per l’attore, per potersi dire: non sono io incapace, è che chiunque ha un posto di valore è una schifezza, io non sono una schifezza quindi non lavorerò mai. Io sono nato in una terra dove agire, cercare di emergere, è visto con diffidenza. Dove fare è sospetto mentre non fare è sinonimo di onestà. La fama ti mette addosso un mirino. Perché tutti vogliono vedere cadere tutti. Per sentirsi migliori».

foto: CHRISTOPHE SIMON/AFP/Getty Images

Roberto Saviano: «Parlare con tutti è rivoluzionario»