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  • Martedì 1 luglio 2014

Donne-che-amano-i-libri, per venderglieli

Tutta la comunicazione che convince le donne di essere speciali se "leggono" è un ennesimo esempio di una lunga storia di sfruttamento che si finge liberazione

di Giulia Siviero – @glsiviero

circa 1945: A woman sitting on a deckchair in a park reading a book. (Photo by General Photographic Agency/Getty Images)
circa 1945: A woman sitting on a deckchair in a park reading a book. (Photo by General Photographic Agency/Getty Images)

Lo sfruttamento del femminismo come strategia di marketing non è un fenomeno recente, ma continua a produrre e a inventare nuovi modelli a cui uniformarsi: che creano a loro volta degli stereotipi che influiscono concretamente sulla vita delle donne, ma anche degli uomini. Quello più vicino in ordine di tempo della donna-che-ama-i-libri è forse uno dei più interessanti e paradossali da raccontare.

donne sigaretteIl primo “furto” di un tema femminista – o almeno quello di cui si ha notizia – avvenne a New York nel 1929. Siamo al tempo della cosiddetta “prima ondata femminista” (quella, per capirci, che deriva dall’emancipazionismo suffragista ottocentesco) e l’American tabacco company ingaggiò un celebre pubblicitario, Edward Bernays, perché trovasse un modo di vendere le sigarette alle donne: alla fine degli anni Venti le donne che fumavano erano molto poche, era “sconveniente” lo facessero in pubblico e non era dignitoso lo facessero nemmeno in privato («Le donne che fumano sono una minaccia per il paese», aveva scritto il New York Times nel 1901). Bernays sfruttò allora il crescente desiderio di indipendenza delle donne a proprio vantaggio diffondendo la voce che durante la tradizionale marcia di Pasqua del 1929 un gruppo di suffragette avrebbe inscenato una particolare protesta e chiamò dei fotografi. Durante il corteo, dieci donne scelte da Bernays (tra cui la sua segretaria) tirarono fuori i loro pacchetti e si accesero una sigaretta, ribattezzata per l’occasione “torcia della libertà”. Le immagini, immediatamente associate all’idea di indipendenza femminile, furono riprese dai principali giornali del tempo. Il New York Times uscì ad esempio con questo titolo: “Gruppo di ragazze accende delle sigarette come gesto di libertà”. Da lì in poi partì una specifica campagna pubblicitaria e se nel 1923 le donne compravano solo il 5 per cento delle sigarette vendute, nel 1935 la quota era più che triplicata. Laurie Penny – giornalista britannica che collabora tra l’altro con il Guardian e che è molto attenta alle questioni di genere – ha raccontato la storia di Bernays qualche settimana fa in un articolo tradotto su Internazionale, commentando: «Quella fu probabilmente la prima volta che ci rubarono il femminismo per venderci qualcosa di cui non avevamo bisogno. Ma non sarebbe stata l’ultima».

Gli ideali e le rivendicazioni femministe sono stati da lì in poi usati soprattutto da stilisti e case di moda (anche se il confine tra sfruttamento e celebrazione era piuttosto sfumato): come con il tailleur con i pan­ta­loni di Yves Saint Lau­rent, col cosiddetto “nude look” inventato per richiamare i roghi dei reggiseni, o più di recente, con gli slo­gan femmi­ni­sti stampati sulle magliette dalla sti­li­sta inglese Katharine Hammnett. Ma negli ultimi tempi (da quando cioè il femminismo è diventato mainstream) è diventata una strategia abusata e rivendicata, a sua volta, negli ambiti più diversi e meno sovversivi. Qualche esempio: la recente campagna di un’azienda di cosmetici sulla “vera bellezza” che propone a un gruppo di donne dalla scarsa autostima di mettersi un cerotto capace di aumentarla e di farle sentire più belle.

O quella di uno shampoo che insegna alle donne come possono sentirsi forti e splendenti difendendosi dagli stereotipi:

C’è poi tutto un filone di comunicazione che ha usato la violenza contro le donne: quella di un’azienda di biancheria intima – familiare per il suo modo ammiccante di mostrare le donne – intitolata “Ferma il bastardo” o quella di un’azienda di abbigliamento intitolata “No alla violenza sulle donne”. Tra le femministe e tra il pubblico in generale è giudicato, semplificando, in due differenti modi: è comunque un segno che gli ideali di liberazione della donna sono stati recepiti (dicono alcuni); è semplicemente un meccanismo che replica lo sfruttamento, che risponde a semplici logiche di mercato e che essendo una “moda” implica anche che a breve non lo sarà più (dicono altri). Entrambe le posizioni concordano comunque nel dire che il meccanismo non è un fattore di reale uguaglianza per le donne.

Questi ultimi esempi presi dalla pubblicità (la donna-vittima-di-violenza o la donna-fragile) non fanno che utilizzare rispettivamente argomenti che sono al centro del dibattito pubblico o stereotipi già ben consolidati. Mentre la recente invenzione della donna-che-ama-i-libri è molto più simile a quella della donna-che-fuma. Crea cioè un nuovo modello e anzi lo supera: utilizza, facendolo diventare un nuovo meccanismo di sfruttamento, uno degli elementi fondanti del femminismo, quello della “stanza tutta per sè” di Virginia Woolf, ossia della rivendicazione ad essere ammesse nel mondo della cultura. Lo spiega molto bene in un recente articolo Kaite Welsh, scrittrice, giornalista e attivista femminista: «Perché la lettura, un tempo strumento di liberazione della donna è diventato uno strumento di sfruttamento della donna?».

E cita una frase dello scrittore e regista statunitense John Waters – «Se vai a casa di qualcuno e quel qualcuno non ha dei libri, non ci scopare» – per spiegare come, nel caso delle donne, la lettura o il possesso di libri siano diventati un nuovo parametro per misurare la donna stessa o la sua desiderabilità agli occhi degli uomini, ma anche ai propri: «L”intellettualismo delle donne viene quantificato e gli uomini sono invitati a guardare gli scaffali delle loro librerie come l’equivalente mentale di una gonna corta». In questo modo è l’atto della lettura ad essere trasformato in un feticcio, non il materiale stesso della lettura che risulta a quel punto del tutto irrilevante. Non è l’amore per il contenuto dei libri o per la cultura a essere propagandato, ma per il prodotto e per la sua fruizione.

Welsh fa due esempi: quello tratto da un pezzo dello scrittore americano Charles Warnke intitolato “You should date an illiterate girl” in cui si dice, in modo supponente, che «le donne che non leggono sono insulse e quelle che leggono sono spaventose perché gli uomini non soddisferanno mai le loro aspettative» e quello del poema “Le ragazze che leggono” dello scrittore e attore Mark Grist, rilanciato di recente in un breve video. Quello di Grist è stato definito un “inno femminista”, ma non fa altro che replicare in modo involontario – ma chiarissimo – il meccanismo che Welsh sta descrivendo: «Vedi, alcuni ragazzi preferiscono le natiche, alcuni preferiscono le tette. E non sto dicendo che non mi piacciano nella loro interezza. Ma ciò che è più importante per me, è una ragazza con la passione, lo spirito e i sogni. Voglio una ragazza che legge», dice Grist. Cosa legga, poi, non è tema affrontato da nessuno: ma nella comunicazione contemporanea sulle donne-che-amano-i-libri tendono ad apparire prevalentemente autrici e immagini ottocentesche, romantiche, sognanti: “femminili” come il più banale stereotipo.

Tutto questo discorso è alimentato da una variopinta produzione di discutibili iniziative (letture collettive senza vestiti, ad esempio) o prodotti: magliette con scritto “Leggere è sexy”, tazze e braccialetti con citazioni di Jane Austen, grembiuli o canovacci con frasi di Virginia Woolf («Non credo che la stanza tutta per sé a cui faceva riferimento Virginia Woolf fosse la cucina», commenta tra l’altro Kaite Welsh). Gli uomini non sono il target di questa particolare produzione, e il compiacimento dell’amore per i libri li riguarda poco: difficilmente infatti si troverà una maglietta con stampata la foto di un tizio in abiti discinti mentre legge Moby Dick, precisa Welsh. Che aggiunge: «Sono una donna di 31 anni con una laurea in letteratura inglese e ovviamente leggo. Non ho bisogno di un riconoscimento per qualcosa che ho imparato a fare quando avevo quattro anni».