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  • Venerdì 30 maggio 2014

Agostino Di Bartolomei, vent’anni fa

La storia del suicidio di un calciatore molto amato e rispettato e quella di una partita – e che partita – che si giocò esattamente dieci anni prima, in un libro pubblicato da Fandango

Il 30 maggio 1994, vent’anni fa, morì suicida a 39 anni l’ex calciatore Agostino Di Bartolomei. Aveva giocato nella Roma dal 1972 al 1984, vincendo uno Scudetto e diventandone capitano molto rispettato e amato, dai suoi tifosi e non solo. Fu poi ceduto al Milan e finì la carriera tra Cesena e Salernitana. Non si è mai capito se fu o no una coincidenza, ma Di Bartolomei si uccise esattamente 10 anni dopo la finale della Coppa dei Campioni che perse con la Roma, in casa, ai rigori contro il Liverpool.

La sua storia, e quella della famosa finale di Coppa dei Campioni, è raccontata in L’Ultima partita. Vittoria e sconfitta di Agostino Di Bartolomei, un libro di Giovanni Bianconi e Andrea Salerno. Bianconi è giornalista e scrittore, Salerno è giornalista e autore televisivo. L’Ultima partita è pubblicato da Fandango e sul Post potete leggerne qualche pagina.

Roma, 30 maggio 1984. Stadio Olimpico, ore 20.15.
Finale della Coppa dei Campioni di calcio tra la Roma e il Liverpool. I riflettori sono già accesi, ma è ancora giorno quando le due squadre fanno ingresso in campo.
I giallorossi si affidano a Tancredi, Nappi, Bonetti, Righetti, Fãlcao, Nela; Conti, Cerezo, Pruzzo, Di Bartolomei, Graziani.
Gli inglesi rispondono con Grobbelaar, Neal, Kennedy; Lawrenson, Whelan, Hansen; Dalglish, Lee, Rush, Johnston, Souness.
A disposizione dell’allenatore della Roma, Nils Liedholm, ci sono Malgioglio, Oddi, Strukelj, Chierico e Vincenzi. Sulla panchina dei “reds”, a far compagnia al coach Joe Fagan, siedono Bolder, Nicol, Hodgson, Robinson e Gillespie.
Dirige l’incontro il signor Fredriksson, della Federazione svedese.
Gli spettatori sono più di settantamila. L’incasso al botteghino registra il record assoluto per l’Italia: un miliardo e trecentoventisette milioni più gli spiccioli. Il terreno di gioco è in ottime condizioni, la temperatura ideale.
In tribuna d’onore, tra i dirigenti federali e quelli delle due squadre, ha appena preso posto il presidente della Repubblica, Sandro Pertini. La curva dei tifosi romanisti, la curva Sud, espone un grande striscione: “Non passa lo straniero”.
Sul primo canale della Rai, Bruno Pizzul prende la linea e comincia la sua telecronaca: “Signore e signori, buonasera. Il grande mercoledì è dunque arrivato”.

Salerno, 30 maggio 1994. Ore 10.52.
“ANSA – Agostino Di Bartolomei, ex calciatore della Roma e del Milan, si è ucciso stamani sparandosi un colpo di pistola sul terrazzo della sua villa di San Marco di Castellabate, in provincia di Salerno, dove si era trasferito dopo aver concluso la sua attività sportiva. Aveva trentanove anni. (SEGUE).”
Il primo lancio di agenzia arriva nelle redazioni dei giornali due ore dopo che la tragedia ha svegliato di soprassalto Marisa De Santis, quarantasei anni, la moglie di Agostino.

“Mamma, mamma!”, urla il figlio Gianmarco, ventenne, frutto di un matrimonio precedente. È lui che sente il botto, il colpo. È lui, che sta lavorando al computer con un suo amico, ad accorrere e a trovare in una pozza di sangue l’ex campione. In giardino c’è il padre di Marisa, Antonio De Santis, che vede suo nipote mentre tenta di praticare la respirazione bocca a bocca. Luca, dodici anni, il piccolo di casa, figlio di Di Bartolomei, per fortuna è già a scuola.
Quando squilla il telefono dei carabinieri di Agropoli, distante una trentina di chilometri, non c’è più nulla da fare. Nonostante i tentativi di aiuto della moglie e di un medico, Paola La Padula, i danni procurati dal calibro 38 special “Smith & Wesson” sono irreparabili. Puntata al cuore, la pistola è servita allo scopo. Il corpo dell’ex calciatore non viene rimosso fino all’arrivo del magistrato, il sostituto procuratore di Vallo della Lucania Renato Martusciello, che può soltanto disporre la prova per verificare se effettivamente è stato Agostino a sparare.

Franco Di Bartolomei del telefonino non sa che farsene, non ce l’ha. Passeggia per Roma con il fratello. Va in ufficio ma non deve lavorare e cammina in sandali e pantaloncini, la tenuta migliore per affrontare un maggio capitolino particolarmente caldo.
Il giorno prima ha compiuto settantuno anni ed è stato contento quando da Salerno è arrivata la telefonata del figlio: “Papà, auguri, come stai?”. “Bene grazie”, ha risposto. Era domenica sera e dall’altra parte del filo non sembravano esserci dubbi: “Mercoledì vengo a Roma”. “Allora ci vediamo mercoledì.” Anche il nipotino Luca gli ha fatto gli auguri, e la nuora Marisa.
In macchina non ha la radio, ma ora, di ritorno a casa trova la moglie in lacrime. Ci mette un attimo a capire quello che è successo. Ci mette un attimo a prendere sottobraccio la compagna di una vita, a riaccendere il motore, e a partire senza neanche cambiarsi. Non si dà pace, non riesce a credere alla verità di quello che è successo. “Agostino si è suicidato? Non è possibile, perché mai?”
Non bastano quattrocento chilometri per trovare una risposta. E l’incredulità è sempre una buona compagna di viaggio. Un’incredulità che la madre di Agostino, Maria Luisa, getta in faccia ai cronisti che aspettano la famiglia davanti al cancello della villa, a San Marco: “Cercate di rispettare il nostro dolore. Sono arrivata adesso. Voglio capire che cosa è successo. Di sicuro quella del suicidio è una grande bugia. Non aveva nessun motivo, mio figlio, per togliersi la vita. È stata una fatalità, una disgrazia. Il colpo è partito mentre stava cercando di pulire quell’arma. Lui ne aveva una collezione, le maneggiava spesso, questo lo so”.

Il capitano dei carabinieri Fernando Sicuro lo sa anche lui. Sa che Di Bartolomei aveva un regolare porto d’armi, ma sa anche che difficilmente la tesi del suicidio potrà essere confutata. Le tracce, la disposizione del corpo ritrovato supino, la situazione, tutto lascia presagire che l’ipotesi fatta dagli inquirenti appena giunti sul posto non cambierà. L’accidente, la tragica fatalità è solo una pista per alleviare la disperazione di parenti e amici. Di questo è convinto anche il magistrato che fa trasferire la salma del calciatore all’ospedale civile San Luca di Vallo della Lucania per l’autopsia.

Quello che manca a tutti è invece il perché. Perché quella mattina, appena sveglio, l’ex leader giallorosso, si sia alzato con calma verso le sette e mezzo, senza disturbare nessuno, sia andato nello studio dove tiene le armi – una carabina 4,5mm, una pistola 357 Magnum, la “Smith & Wesson” – abbia pulito quest’ultima e poi, sul grande balcone di casa, si sia sparato un colpo al cuore.
“Il Di Bartolomei indossava un paio di pantaloni ginnici, jeansati, di colore celeste e una maglietta da pigiama di colore beige. Ai piedi non portava né scarpe né calze”, viene annotato nel verbale di sopralluogo.
Non c’è un segnale, un biglietto, un movente. Si setaccia la sua vita senza trovare granché. Non basta a giustificare tutto il fallimento di un’agenzia di assicurazioni aperta da Agostino, che aveva accumulato un passivo di alcune decine di milioni. Una cifra importante, ma non tale da intaccare la serenità di Di Bartolomei che, comunque, con il calcio qualche soldo è riuscito a metterlo da parte. “Un’esposizione debitoria alquanto modesta rispetto al suo notevole patrimonio”, dicono gli inquirenti. Né le difficoltà trovate nel metter su una “cittadella dello sport” a Castellabate sembrano così forti da spingere al suicidio.

La moglie non si dà pace e confessa nel pianto: “Ieri sera era così tranquillo… Abbiamo passeggiato a lungo vicino al porto in compagnia di alcuni miei cugini venuti da Roma. Avevamo cenato in famiglia, in quindici, e poi eravamo usciti. Avevamo giocato anche a fresbee con i bambini. Era sereno. La tragedia mi ha colto totalmente di sorpresa”.
E viene colto di sorpresa anche tutto il mondo del calcio.
Nils Liedholm il telegiornale lo guarda spesso. Non è un periodo facile per l’Italia e le notizie clamorose sono almeno due anni che non mancano. Ad aprile, il 28, Silvio Berlusconi ha ricevuto l’incarico di formare il nuovo governo; in pochi mesi quello che era un semplice imprenditore, presidente e proprietario dell’impero televisivo Fininvest e del Milan, ha fondato un partito e vinto le elezioni. Il 29 Sergio Cusani, finanziere socialista, viene condannato a otto anni per lo scandalo della maxi tangente Enimont. Il 2 maggio il pilota brasiliano di Formula 1, Ayrton Senna, se n’è andato dritto in una curva durante il Gran Premio di San Marino. Venti giorni dopo la Procura di Palermo ha chiesto il rinvio a giudizio per associazione a delinquere di stampo mafioso del senatore a vita Giulio Andreotti.
La notizia che arriva da Salerno, però, per l’allenatore svedese è un’altra cosa. Uno dei giocatori che ha visto crescere e che più ha formato, lanciato, accudito, si è ammazzato. Insieme, dopo quarant’anni, avevano riportato lo scudetto nella capitale. Liedholm prende il telefono e chiama Roma, in società, cerca dei tecnici Colucci e Tessari, cerca qualcuno che può saperne di più, che può raccontargli quello che veramente è successo al suo capitano. Ma più che trovare risposte, trova domande. Quelle della stampa italiana, sportiva e non, a caccia di commenti. Il telefono del “barone” è tra quelli che squilla di più.
“Non lo sentivo ormai da un paio di anni, ma i rapporti sono sempre stati splendidi”, confida al cronista della Gazzetta dello Sport. “Mi aveva cercato per chiedermi di andare alle sue scuole calcio ma la cosa non era mai stata possibile.” Anche a lui, soprattutto a lui, sfugge il motivo di quel gesto disperato: “Lo stupore deriva dal fatto che Agostino è sempre stato una persona estremamente equilibrata”.
Liedholm sa che “lui non parlava mai dei suoi problemi; semmai ne parlava solo dopo, quando li aveva affrontati e risolti”. Ma del suo ultimo problema Di Bartolomei non può parlare più con nessuno.

Non capisce proprio lo svedese, non capisce quando si chiede “perché non sia diventato allenatore”. Non lo capisce e non lo capirà mai, e continuerà anche anni dopo a spiegare quel suicidio con l’inspiegabile, con un improvviso e lancinante “momento di follia”.
Sul momento, però, sente che deve fare tutto il possibile per ricordare Di Bartolomei. Così, lui che non ama tanto le parole, prende carta e penna e manda una struggente lettera al Giornale, che termina ricordando episodi lontani, ma da cui trapela anche un pizzico di autocritica: “Gli avevo promesso che sarei andato a trovarlo. Forse suona banale, magari scontato, ma lo dico ugualmente: come vorrei vedere quella scuola in sua compagnia, in compagnia di quell’uomo buono e amabile che, già giovanissimo, ragionava da adulto pieno di esperienza e di buon senso e che al termine di un incontro vinto ampiamente con la Primavera disse ai compagni ‘non dobbiamo mollare mai’”.
Ma il calcio, quello che conta, aveva mollato Agostino. Quella stessa mattina nel centro sportivo di Milanello la Nazionale è radunata per organizzare la spedizione ai Mondiali Usa. Non finirà bene, visto che l’Italia perderà la coppa ai rigori per un tiro di Baggio volato via sopra la traversa dei brasiliani. Già, i rigori; anche loro si intrecciano con la storia di Di Bartolomei, lui che li tirava di forza, con poca rincorsa, una botta e via.

Ad allenare gli azzurri c’è Arrigo Sacchi, ma soprattutto nello staff tecnico ha un posto importante Carlo Ancelotti. Lui Agostino lo conosce bene, da quindici anni, dal 1979. Lui con Agostino ha giocato a lungo e vinto uno scudetto con la Roma. Lui con Agostino ha scherzato spesso, vissuto e condiviso molte cose tra cui qualche mese di militare nella caserma romana della Cecchignola per un improvviso richiamo dell’atleta che allora, quattro anni più grande di lui, era già la bandiera dei giallorossi. Li ha uniti anche una “staffetta”, al Milan, quando lo stesso Sacchi lo preferì a Di Bartolomei, ritenuto troppo lento.
A Milanello ci sono pure Tassotti, Massaro, Franco Baresi e Donadoni che con “Ago” hanno giocato tra i rossoneri. La notizia arriva dal telefono e per tutti “è una sassata”.
Ora si ricorda, Ancelotti, di quelle cene che Di Bartolomei organizzava a casa sua per i giocatori non sposati, “per fare gruppo”; si ricorda dell’ultima volta che si sono sentiti al telefono, qualche mese prima. Che cosa gli aveva chiesto Agostino? Ah sì, voleva capire tutto di un nuovo programma di computer applicato al calcio, gli serviva per i ragazzini della scuola che aveva messo su in quello sperduto paesino del Sud. Carlo, che muove i primi passi da allenatore, sicuramente lo conosce, “Fammi sapere meglio”, “Te lo mando”. Le frasi di circostanza erano quelle tipiche di Agostino, generoso fuori, introverso dentro: non preannunciavano nulla.
Anche il giovane tecnico della Nazionale è uno che non ama parlare molto. Ora però non è un problema di carattere, lui proprio non sa dare una spiegazione a quel colpo di pistola. Ai cronisti dice solo: “Non c’era modo peggiore di perderlo. Ci lascia un compagno, un amico. Il suo è stato un gesto disperato”. Gli rimarrà però sempre un dubbio, a lui che il grande calcio regalerà negli anni il successo da allenatore, fino alla panchina della Juventus: perché un personaggio come Di Bartolomei, con tutto quello che aveva rappresentato e rappresentava per Roma, per la Roma, non era riuscito a restare nell’ambiente? Di una cosa Ancelotti è convinto: “Ago era troppo intelligente per farsi buttare giù solo da una cosa così”, non sarà stato quello l’unico dispiacere, la molla di tutto.

“Adorata Marisa,
mi hanno rifiutato il mutuo, perché la BNL non vuole rilasciare un benestare per far ciò, anche se Anastasi s’è detto disposto a pagare la sua parte.
Mi sento chiuso in un buco, i fondi della Regione sono ancora fermi, per il credito sportivo il Comune non regolarizza le carte.
Il mio grande errore è stato quello di cercare di essere un indipendente da tutto, di non aver saputo dire di no su nulla alla mia famiglia, di aver acquistato quel terreno a Franco-Giovanni invece di cercare di andare a lavorare a Roma.
Non c’è una lira, passata dalle mie mani, che non sia stata usata per la nostra famiglia: palestra, mansarda, terreni; non c’è nessuna ombra nel mio rapporto con, nessun tradimento, ma solo situazioni male interpretate.
Ti adoro, e adoro i nostri splendidi ragazzi, ma non vedo l’uscita dal tunnel.”

È la moglie Marisa a trovare nella tasca di un vestito di Agostino quei pezzetti di carta che una volta ricomposti dagli inquirenti aiutano a chiarire, così pare a chi resta, i motivi di una morte cercata. È una lettera indirizzata a lei, su un foglio di bloc notes a quadrettoni, che chi ha scritto ha subito strappato, forse per un ripensamento o per chissà quali altri motivi. Manca la firma, ma sull’autore non ci sono dubbi: la calligrafia minuta e ordinata è quella del marito.

“Non vedo l’uscita dal tunnel”, “mi sento chiuso in un buco”, “ho acquistato un terreno invece di cercare di andare a lavorare a Roma”. Dunque questo e altro pensava, prima del suicidio, Agostino Di Bartolomei. Anche se era stata fatta a pezzi e non si trovava vicino al corpo, per chi indaga “è una lettera di addio”.
A Trigoria, nella sede della Roma, la notizia non tarda ad arrivare. Franco Sensi dei giallorossi è il presidente. Lui Agostino non lo conosce bene, e lo chiarisce subito a quelli che gli chiedono una testimonianza. Sì, dice che “era un bravissimo figliolo, un grande atleta e un punto di riferimento a livello di immagine per la Roma dello scudetto”. Lo ripete instancabile a ogni cronista, mentre chiede alla Federazione il permesso di far scendere in campo la squadra con il lutto al braccio nella partita prevista per il giorno dopo, una sfida con il Torino per il Memorial Calleri.
Poi aggiunge un altro particolare: “Era un ragazzo orgoglioso, oltre che chiuso: per questo non mi aveva mai chiesto nulla. Ma un giorno, quando la squadra attraversava un momento difficile, mi scrisse una lettera piena di consigli: sullo spogliatoio, sui risvolti psicologici di questa squadra. Ho apprezzato molto. E soprattutto ho imparato. Comunque, avevo capito il suo desiderio di rientrare alla Roma”.
Sono in molti tra quelli che adesso lo piangono, a Trigoria, ad aver imparato da lui. Bruno Conti con “Ago” ha diviso metà della vita, un’intera giovinezza. Fin da piccoli a tirar calci, dalla spiaggia all’Olimpico. Ora è lui che allena i ragazzini giallorossi, ed è sconvolto. Agostino era “il capitano”, quello sempre pronto a difendere la squadra, “a rappresentarci davanti alla società”. L’aveva sentito pochi giorni prima, sereno e tranquillo come sempre, dopo una partita di beneficenza giocata assieme. E si ricorda di quell’abbraccio forte, alle spalle, nel sottopassaggio dell’Olimpico tre anni fa, il giorno che lui, piccolo e geniale funambolo del calcio, aveva deciso che di partite ne aveva disputate abbastanza. L’aveva abbracciato Di Bartolomei, l’aveva tenuto vicino.
Ma Bruno non può non pensare anche alla passione che il suo amico aveva per le pistole. “Una se la portava sempre dietro, anche negli spogliatoi”, racconterà anni dopo. Il perché non lo sapeva, né gliel’aveva mai chiesto. Adesso si ritrova sotto le telecamere per raccontare quello che non avrebbe mai voluto, una grande sconfitta. Il motivo di quella follia gli sfugge e gli sfuggirà sempre: “Io non so che pensare, di chiacchiere ne sono state fatte tante, chi dice il problema economico, chi il rapporto con la famiglia… Troppi hanno la lingua lunga”.
Tancredi, Pruzzo, Nela. Molti hanno un ricordo da spendere e una disperazione da tenere dentro. Il giorno dopo, è deciso, ai funerali andranno tutti.

“Papà, perché?”, “Ago, un colpo al cuore”, “La nostalgia del calcio uccide Di Bartolomei”, “Uno sparo, si uccide Di Bartolomei”.
In edicola, la mattina seguente, tutti i giornali danno spazio alla tragedia di San Marco.
Quell’insolito suicidio di un campione dello sport si mescola alle altre notizie importanti. Enrico Cuccia, presidente onorario di Mediobanca, ha ricevuto un avviso di garanzia e questo basta a mandare in fibrillazione la Borsa e il Palazzo; il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, è preso dalla tempesta dello scandalo dei “fondi neri” del Sisde; un ministro belga si è rifiutato di stringere la mano al suo omologo italiano Pinuccio Tatarella perché considerato un “ex fascista”; viene negato il passaporto a Bettino Craxi, ex presidente del Consiglio e già segretario del Psi. Ruud Gullit, il campione olandese che in passato ha fatto la fortuna del Milan, ha abbandonato il ritiro della sua Nazionale e salterà il Mondiale americano. Per una presunta truffa viene arrestato il presidente del Cagliari, Massimo Cellino.
Per la storiaccia di Salerno non mancano le accuse al mondo del calcio. Alcune di maniera, altre sentite. Come sempre in questi casi i media istruiscono un processo che non avrà né sentenza né colpevoli, ma solo il pianto delle vittime. Gian Paolo Ormezzano, dalle colonne della Stampa commenta: “Di Bartolomei sapeva scrivere, parlava bene, per tanti anni era stato un punto di riferimento nostro nelle inchieste giornalistiche su problematiche che del calcio non riguardassero soltanto la tecnica, la tattica, la preparazione atletica, ma che appunto toccassero anche i problemi della vita privata, del professionismo divorante. E del dopo”. Si interroga l’editorialista, possibile che su questo “dopo” lui si sia incagliato? E insiste: “Speriamo che di Agostino si conosca tutta la verità. Il mondo del calcio – diciamolo cinicamente – sarebbe sollevato sapendo di un suo male fisico, di una sua crisi sentimentale, di un problemaccio economico. Se davvero si trattasse soltanto del dopo, il buco nero comincerebbe a fare paura. Perché più il calcio dà – e mai ha dato come in questi ultimi anni – più il buco nero può diventare o comunque apparire enorme. In ogni caso, quale che sia la verità, si deve convenire che lo sport non insegna a vincere ma neppure a perdere”.
Scrive anche un professore, Ugo Gobbi, docente di scienze politiche all’università La Sapienza di Roma. Descrive il suo strano rapporto, “da tifoso”, con quel suo allievo taciturno in facoltà e che lo faceva sognare il pomeriggio della domenica: “Aveva le sue aspirazioni che andavano oltre la rincorsa del pallone, oltre le punizioni, famose, che sapeva calciare. Perché forse non è noto, ma ‘Diba’ avrebbe voluto prendere una laurea”.
Non è noto, nessuno ha il tempo di approfondire, i campionati si succedono e anche i campioni. È la legge dello sport, dello spettacolo. Ora se ne rende conto Franco Dominici del Corriere dello Sport: “Di Agostino Di Bartolomei si continuerà a parlare per sempre come di un ragazzo che tutti abbiamo frequentato nel nostro mondo, ma che nessuno di noi ha veramente conosciuto”.

Se è difficile capire fino in fondo cosa spinge un uomo a togliersi la vita, per la stampa italiana è chiaro, almeno, che Agostino non stava attraversando un gran momento. Il grande calcio, quello della serie A, della Federazione, non l’aveva voluto, non l’aveva cercato. Com’è chiaro, leggendo le dichiarazioni, che quell’uomo a tutti aveva tentato di chiedere qualcosa. Anche a Sergio Campana, presidente dell’Associazione italiana calciatori, che ricorda: “Mi aveva accennato a un suo progetto. Conosceva infatti l’attività che svolgiamo al Ciocco con i calciatori rimasti senza contratto e mi aveva proposto di svolgere il loro ritiro precampionato nel suo centro sportivo”.
Il giorno precedente la morte, Agostino aveva parlato con Enrico Bendoni, direttore generale della Lazio e amico di vecchia data. Dovevano vedersi, poi, ovviamente non se ne fece più nulla. “Sì, ci eravamo sentiti domenica”, conferma Bendoni, “discutevamo spesso di progetti sul calcio.”
Anche Domenico Morace, direttore del Guerin sportivo, ci aveva parlato recentemente, una settimana prima, e lo racconta: “Sì, mi ha chiamato al telefono. Voleva che gli dessi una mano, voleva restare nel mondo del calcio e non ci riusciva. E questo lo faceva soffrire. Non mi era sembrato particolarmente in crisi, però avevo capito che provava nostalgia e amarezza per un mondo che gli voltava le spalle. Lui che ne era stato un prim’attore, un protagonista, non comprendeva perché il calcio lo stesse respingendo. Ma questo è un ambiente crudele, se non sei aggressivo, e lui era tutto il contrario, pacato, ragionato, timido, se non hai agganci con i nomi di potere, finisce per metterti in disparte.
Finché vinci, ti esalta. Quando perdi o lasci, ti abbandona. Io non so se lui avesse le qualità per fare il manager o l’allenatore, so solo che non si è voluto rispettare e dare attenzione al suo passato”.
Più che rifiuti veri e propri, Agostino aveva raccolto sempre e soltanto dei “vedremo”, “si può fare”, “ci risentiamo”. In fondo San Marco è lontana dai riflettori e come si dice, “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.
Giorgio Tosatti, sul Corriere della Sera, scrive il ricordo più emozionato, l’ultimo omaggio a “Un campione troppo solo”, come titola il suo pezzo. Più che altro, un omaggio personale: “Era un amico, di quelli veri. Si portava dietro una timidezza mai vinta, un pudore che gli rendeva impossibile esprimere i suoi sentimenti, sfogarsi. Troppo orgoglioso per mostrarsi debole, abbarbicato com’era al personaggio cucitosi addosso in campo e nella vita: un capo, l’uomo capace di caricarsi sulle spalle le responsabilità di tutti, squadra, compagni, amici”. E ancora: “La gente gli voleva bene, lo chiamava familiarmente ‘Ago’, ne ammirava la dedizione totale, francescana, al calcio. Era uno di loro, dei tanti ragazzini cresciuti nei campetti di periferia. Il simbolo di ciò che avevano sognato, la bandiera di casa”.

Si sentiva un po’ in credito con la carriera? Tosatti spiega: “Contava di rifarsi come allenatore. Aveva studiato per crescere, capire, insegnare. Si stupiva che la Roma non si ricordasse più di lui; che nessuno gli offrisse un posto; che Coverciano – nonostante gli ottimi voti – non lo inserisse fra gli istruttori; che il calcio – suo vero amore con la famiglia – l’avesse cancellato. Forse non sapeva dividere il sogno dalla realtà; prendi tutto troppo sul serio, gli dicevo: non ne vale la pena. Dopo aver sopportato tanti tradimenti dalla vita, ha ritenuto colma la misura. Ho visto molta gente con gli occhi umidi oggi per Roma, Ago; perché ti volevano ancora bene, anche se tu non lo sapevi”.
Pure a San Marco, il pomeriggio, sono in molti ad avere gli occhi umidi. E quei giornali sono andati tutti venduti.

La perizia eseguita in mattinata sul cadavere sembra togliere gli ultimi dubbi sul suicidio. Per il medico legale, Adamo Maiese, il colpo che ha ucciso Di Bartolomei è stato sparato a bruciapelo; sull’indice dell’uomo sono rimasti anche i segni del grilletto della calibro 38 a sei colpi. Ma per la Chiesa la certezza ufficiale non c’è e così alle cinque del pomeriggio, il parroco don Bruno Lancuba officia i funerali del campione scomparso.
Un manifesto firmato dal sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, tappezza i muri del paese: “Rendiamo omaggio a un grande sportivo che ha dato prova dentro e fuori dal rettangolo di gioco di sapere esprimere valori di grande civiltà e di grande esempio, soprattutto per le generazioni più giovani. Il modo migliore per onorarlo è quello di concludere la stagione agonistica raggiungendo quel traguardo che, proprio con il suo apporto determinante, la Salernitana ha raggiunto nel 1990, la serie B”.
Impossibile separare, anche adesso che non c’è più, quella vita dal calcio. Lo dimostrano i due gagliardetti di Roma e Milan poggiati sulla bara. Lo dimostrano le facce che affollano la piccola chiesa. Attorno ai familiari si stringono i giocatori Conti, Tancredi, Pruzzo, Giannini, Chierico, Spinosi, Maldera, Nela, Superchi, Buriani, il direttore generale della Roma Agnolin, l’ex presidente della Salernitana Giuseppe Soglia, Giorgio Tosatti. Il cantautore Antonello Venditti è venuto il giorno prima.
Non mancano, naturalmente, tutti i ragazzi della scuola calcio che Di Bartolomei aveva fondato. Fuori, sul sagrato, duemila persone attendono in silenzio. Aspettano di rendere omaggio, con un applauso che spezza la tensione, a “quell’uomo buono, quel campione” che erano abituate a vedere per strada.
Tra loro c’è anche Antonio Zinna, uno dei salernitani con i quali l’ex giocatore ha stretto di più. Lui il suo amico campione l’aveva sentito il giorno precedente il suicidio, domenica verso mezzogiorno. Quando aveva risposto al telefono aveva riconosciuto subito Di Bartolomei dal colpo di tosse che faceva sempre a ogni telefonata, prima di cominciare a parlare. “Che stai facendo?”, gli aveva chiesto. “Devo andare al mare, a pescare… a prendere un po’ di cozze.”
Scherzavano spesso sulle capacità marinare di Antonio, i due. Ora è tutto diverso e Zinna lì, disperato, vicino a Buriani. Disperato come quando gli avevano detto quella maledetta mattina: “Anto’, guarda che girano brutte voci su Agostino, dicono che si è sparato…”.
Ringrazia tutti, la moglie Marisa. Ringrazia ma non riesce a nascondere qualche rancore. Con chi ce l’ha? Con quelli che hanno chiuso la porta del mondo del calcio ad Agostino: “Napoli, Fiorentina, per non parlare della Roma.

Quante volte ha chiamato, mai una risposta. Quel mondo a cui aveva dato tutto l’ha vigliaccamente tradito”.
Si sfoga e mette a tacere le maldicenze che girano in paese sui problemi personali del marito: “Fandonie, è stato ucciso dal cinismo del mondo del calcio, la famiglia non c’entra”. Otto mesi dopo, lancerà altre accuse all’ambiente dello sport locale reo di aver ostacolato i progetti di Di Bartolomei; accuse finite nel vuoto, messe da parte. Lo sport c’entra con quella morte? Forse, ma non si sa in che modo.
Del resto, il padre Franco, inconsolabile davanti a tutta quella gente, lo ripeteva sempre a suo figlio, per metterlo in guardia: “Quando si smette, si smette. Adesso sei ‘Ago’, ‘Diba’ di qua, ‘Diba’ di là, ma poi di te non fregherà più niente a nessuno”.
Lo scriverà, un anno dopo, l’uruguayano Eduardo Galeano nel suo libro Splendori e miserie del gioco del calcio: “Negli altri mestieri umani il tramonto arriva con la vecchiaia, ma il giocatore di calcio può essere vecchio anche a trent’anni. I muscoli si stancano presto… O forse anche prima dei trenta, se una pallonata lo stordisce di brutto, o la sfortuna gli strappa un muscolo o un calcio gli procura una frattura di quelle che non hanno rimedio. E un brutto giorno il giocatore scopre che s’è giocato la vita in un colpo solo, e che il denaro è volato via, e la fama pure. La fama, signora fugace, non gli ha lasciato neppure una letterina di consolazione”.
È andata così, in fondo, anche per Agostino Di Bartolomei, campione dimenticato ed esule volontario in un paesino del Cilento. Il 2 giugno sarà il quotidiano della capitale, Il messaggero, a registrare nuovamente il dolore del padre: “Non pietiva, ma cercava comprensione. Ha scritto tante lettere alla Roma per dare consigli. Ma dietro quei consigli si nascondeva il desiderio di essere chiamato, di essere ascoltato in prima persona, lui che aveva troppa dignità per chiedere, per implorare un lavoro. Nelle lettere, hanno detto, non chiedeva nulla. E quando mai Agostino ha chiesto qualcosa?”.
L’intervista su sette colonne è titolata “Povero figlio mio”. Nella stessa pagina, in alto, una piccola notizia: “Totti supergol, la Roma Primavera fa 9-0, lui tre volte segna e tre volte fa segnare”.
Il giorno dei funerali la Roma scende in campo all’Olimpico contro il Torino per la finale del torneo Memorial Calleri. I giocatori hanno il lutto al braccio. Viene osservato un minuto di silenzio. In curva Sud campeggia uno striscione: “Niente parole… solo un posto in fondo al cuore. Ciao Ago”.