Dieci canzoni di Lenny Kravitz

Da riascoltare oggi che compie 50 anni (cinquanta, sì)

Portrait of Lenny Kravitz (1989)Photo: Frank Micelotta/Getty Images*** SPECIAL RATES APPLY ***
Portrait of Lenny Kravitz (1989)Photo: Frank Micelotta/Getty Images*** SPECIAL RATES APPLY ***

Il 26 maggio Lenny Kravitz compie 50 anni, e in effetti a pensarci, sembra in circolazione da sempre. Per chi non se le ricorda e per chi le vuole riascoltare, qui ci sono le dieci sue canzoni che Luca Sofri, il peraltro direttore del Post, scelse per il libro Playlist, la musica è cambiata.

Lenny Kravitz
(1964, New York City, New York)
Lenny Kravitz è una specie di George Michael nero, non si offenda nessuno. Nel senso che è capace di stare contemporaneamente sul fronte della buona musica, delle canzonette da jukebox, e delle riviste di celebrità. Certo, tra la formidabile partenza rock di Kravitz e i coretti dei Wham ci passa un camion in derapata, ma poi lui si è addolcito. Ora fa bei pezzi che si somigliano.

Let love rule
(Let love rule, 1989)
 Le prime parole con cui lennicrà si buttò sul mondo erano “I’m sittin’ on top of the world”, dandosi per piuttosto certo del fatto suo. Questo invece era il secondo pezzo del disco e andava altrettanto sul sicuro: “Looove…”. Grandissima canzone postfricchettona, dove stanno i Beatles e il funky, perfetta per aprire lo show vero e proprio.

Be
(Let love rule, 1989)
In Europa fu il primo singolo a sentirsi e vedersi in giro (“Let love rule” era stata promossa solo in America). E non è che se ne vedessero spesso, così. Monocorde, teso, drammatico, con un ritornello mimetico e quella voce distorta e doppia, in fondo a un tombino. Negli anni successivi Lenny Kravitz divenne una rockstar planetaria da milioni di dischi, ma pezzi così non ne fece più.

Does anybody out there even care
(Let love rule, 1989)
La vera pacchia del primo disco: strofa accogliente di bambagia e sospirata, e poi – bang! – ritornello rock cantato con l’anima e le chitarre. Ancora roba da John Lennon nel bridge. “Ooouuugh!”. È indimenticabile.

It ain’t over til it’s over
(Mama said, 1991)
La canzonetta più beatamente canzonetta della carriera di Lenny Kravitz, molto trallallèra, il cui titolo riguarda una banale vicenda di cuore ma si può tradurre con il nostro calcistico “partita finisce quando arbitro fischia”.

Stand by my woman
(Mama said, 1991)
Simmetrica, e con altrettanta tradizionale passione, alla “Stand by your man” country di Tammy Wynette. Qui siamo sul soul soul, con un pianoforte Beatles, e la solita grandezza di Kravitz nello staccarsi dalla voce vellutata a quella appassionata, tirata fuori dalla gola infilandoci la mano fino all’avambraccio.

Believe
(Are you gonna go my way, 1993)
Cantato in parte da dentro un tombino, come certe cose di Let love rule, sembra un’incursione di Kravitz dentro il progressive, a partire dall’introduzione. Poi ritorna Beatles in fase psichedelica.

I belong to you
(5, 1998)
Tìng! Tìng! Tìng! Il resto viene da sé.

Stillness of heart
(Lenny, 2001)
Pezzone rock anthemico: “All-that-
I-want is-stillness-of-heart so-I-can-start…”. Tutto chitarra batteria, più assolo di seconda chitarra e chiusura elettropop. Lo dovrebbe-ro usare negli stadi.

California
(Baptism, 2004)
Arrivato al 2004, gli venne un rigurgito d’orgoglio, e si disse “faccio un disco rock, ma rock rock: più del primo. E al diavolo le canzoncine”. Gli venne niente male, una pistolettata. “California” dura solo due minuti e mezzo, perché poi dovette respirare.

The other side
(Baptism, 2004)
“So faaaather can you tell me again…”. Gran pezzaccio soul-psichedelico, con assolo di sax di David Sanborn.