Il sangue giovane mantiene giovani?

Una serie di promettenti studi scientifici suggerisce che l'invecchiamento si possa rallentare o addirittura invertire

In una serie di studi scientifici pubblicati nel fine settimana su Nature e Science, due gruppi di ricercatori spiegano di avere rallentato e in alcuni casi invertito i processi di invecchiamento in alcuni topi anziani, trattandoli con sangue proveniente da esemplari più giovani della stessa specie. Gli animali utilizzati negli esperimenti hanno dimostrato un ringiovanimento dei muscoli e delle loro cellule nervose, un effetto già notato in passato senza comprenderne però pienamente i meccanismi. La scoperta potrebbe portare in futuro a nuovi trattamenti per ridurre gli effetti di patologie gravi come l’Alzheimer e i disturbi cardiaci.

Come spiega Carl Zimmer sul New York Times, facendo un ottimo riassunto delle puntate precedenti, i primi esperimenti sugli effetti del sangue giovane in soggetti anziani furono eseguiti intorno agli anni Cinquanta. Alla Cornell University, New York (Stati Uniti), Clive M. McCay e colleghi crearono una sorta di gemelli siamesi artificiali, cucendo insieme un topo anziano e uno giovane (la pratica è nota come “parabiosi”), in modo da mettere in comunicazione i loro rispettivi sistemi circolatori. Dalle autopsie sugli esemplari sottoposti all’esperimento emerse che i tessuti delle cartilagini dei topi anziani avevano caratteristiche simili a quelli dei più giovani. La trasformazione era avvenuta, ma all’epoca non c’erano conoscenze molto estese su come gli organismi si rinnovano per rallentare l’invecchiamento.

Solo negli anni seguenti furono comprese con maggiore precisione le caratteristiche delle cellule staminali, fondamentali per mantenere vitali i tessuti negli organismi. Semplificando, quando si verifica un danno, queste cellule si comportano come un jolly nei mazzi di carte: possono assumere diverse caratteristiche e differenziarsi a seconda del tessuto che devono sostituire. Ma anche le staminali devono fare i conti con l’invecchiamento complessivo dell’organismo di cui fanno parte, e più passano gli anni più perdono vitalità.

Grazie a ricerche in centinaia di laboratori in giro per il mondo, con decine di pubblicazioni su riviste scientifiche, una quindicina di anni fa gli scienziati si sono resi conto che seppure meno vitali, le staminali continuano a esistere in grandi quantità negli organismi. Con l’invecchiamento si riducono però i segnali per risvegliarle e questo le rende meno attive nel rimpiazzare i tessuti che si danneggiano.

I ricercatori negli ultimi anni si sono quindi dati da fare per scoprire quali composti chimici fanno da interruttore per attivare le staminali. Per farlo, un gruppo di ricercatori della Stanford University, California (Stati Uniti), nei primi anni del Duemila ripeterono l’esperimento di McCay, tenendo uniti a coppie tramite la parabiosi topi giovani e anziani per cinque settimane. Analizzandoli, scoprirono che i muscoli degli animali più vecchi si erano rigenerati alla stessa velocità dei soggetti più giovani, e che qualcosa di simile era avvenuto anche per le cellule del fegato. In compenso, i topi giovani erano invecchiati prematuramente e la vitalità delle cellule staminali si era sensibilmente ridotta.

Partendo dai risultati della ricerca della Stanford University cui aveva partecipato, Amy J. Wagers (ora ad Harvard) ha proseguito lo studio sul sangue dei topi giovani e anziani, dimostrando l’anno scorso che in questi ultimi la funzionalità cardiaca migliora se ricevono sangue da esemplari meno vecchi di loro. Con i suoi colleghi, Wagers notò che la proteina GDF11 era presente in grandi quantità nei topi giovani, ma non in quelli anziani. Isolato il composto chimico, il gruppo di ricerca provò a iniettarlo direttamente nei topi più vecchi senza eseguire la parabiosi, notando che questo era sufficiente per innescare il ringiovanimento dei tessuti del cuore.

E qui arriviamo ai giorni nostri. Sull’ultimo numero di Science, i ricercatori guidati da Wagers spiegano di avere esteso la loro sperimentazione per verificare la capacità della proteina GDF11 di ringiovanire anche i muscoli collegati all’apparato scheletrico, quelli che servono per muoversi, per intenderci. Hanno scoperto che la proteina stimola la formazione di nuovo tessuto muscolare, aumentando la forza e la resistenza dei topi anziani.

In un altro studio, pubblicato su Nature Medicine, un gruppo di ricercatori guidato da Saul Villeda della University of California, San Francisco (Stati Uniti), ha illustrato gli effetti del sangue giovane sul cervello di soggetti anziani. Villeda nel 2011 aveva già pubblicato una ricerca in cui si spiegavano gli effetti positivi sui neuroni ottenuti attraverso la parabiosi. Il nuovo studio aggiunge ulteriori dettagli, spiegando che grazie al sangue giovane si sono attivate nuove connessioni a livello dei neuroni nella zona dell’ippocampo, la regione del cervello che tra le altre cose gestisce la memoria a lungo termine e la capacità di orientarsi nello spazio. I miglioramenti sono stati riscontrati anche nel caso di trasfusioni senza praticare la parabiosi.

Un terzo studio in tema è stato pubblicato su Science e spiega che nei topi sottoposti a parabiosi è stata riscontrata una crescita dei vasi sanguigni del cervello. Per esempio, in un esperimento è stata notata la migliorata capacità di riconoscere gli odori nei topi più anziani. I ricercatori hanno provato a replicare l’effetto iniettando la proteina GDF11 senza praticare la parabiosi, e hanno ottenuto risultati simili, anche se meno evidenti.

È bene ricordare che, seppure promettenti, i risultati registrati fino a ora sono stati ottenuti solamente su cavie di laboratorio e non negli esseri umani. Il prossimo passo, spiegano i ricercatori, è capire se l’equivalente nell’uomo della proteina GDF11 possa davvero funzionare come interruttore per innescare un ringiovanimento dei tessuti. I primi test clinici con gruppi selezionati di pazienti dovrebbero essere avviati entro i prossimi tre anni, ma sarà necessario molto tempo prima di avere a disposizione qualche trattamento.

L’obiettivo principale resta ottenere soluzioni per trattare alcune malattie a carico del sistema nervoso centrale, del cuore e di altri organi: sistemi per vivere meglio, non necessariamente più a lungo. Come ricordano i ricercatori, si tratta di un campo ancora poco esplorato e che richiede grandi cautele: riattivare o accelerare alcuni meccanismi cellulari può portare a reazioni incontrollate, che potrebbero causare un più alto rischio di sviluppare forme tumorali.