Quando Berlusconi chiamò Dell’Utri

Un capitolo del nuovo libro di Enrico Deaglio racconta l'inizio del loro rapporto e della storia per cui Dell'Utri è stato condannato

di Enrico Deaglio

A trentotto anni Silvio Berlusconi ebbe un incontro che non avrebbe mai dimenticato. Imprenditore edile emergente, anzi molto vistoso, Berlusconi stava edificando a Segrate, alle porte di Linate, una vera e propria città satellite destinata a edilizia residenziale. Un cantiere enorme – costava 500 milioni di lire al giorno di spese e stipendi – un’intensa attività di lobbying, per esempio per ottenere lo spostamento delle linee aeree in decollo e in atterraggio al vicino aeroporto.

Che il giovane fosse affetto da mania di grandezza, lo si vide quando portò a termine un favoloso acquisto immobiliare, Villa San Martino di Arcore, una delle più imponenti e belle tra le storiche dimore della Lombardia, una sorta di reggia con un parco secolare, cascine, scuderie, case coloniche, piscine e aziende agricole. All’interno una grande pinacoteca con dipinti del Quindicesimo e Sedicesimo secolo e un’imponente biblioteca di libri antichi.

L’ultimo proprietario della villa, il marchese Camillo Casati Stampa, era appena stato il protagonista e la vittima finale di un delitto passionale che aveva fatto la fortuna dei rotocalchi. Il marchese, che amava assistere agli amplessi della moglie con amanti occasionali, uccise lei e l’ultimo dei suoi accompagnatori e poi si suicidò con una Browning calibro 12, nel suo palazzo romano di via Puccini. Erede della fortuna dei Casati rimase la figlia, allora minorenne, Anna. Questa venne convinta dal suo legale ed ex protutore, l’avvocato Cesare Previti (uno dei primi soci di Berlusconi nelle sue imprese, e futuro ministro), a vendere un patrimonio valutato circa 3 miliardi di lire per appena 500 milioni, che l’acquirente pagò – sempre in ritardo – a rate.

Certo, nella Milano pettegola e attenta ai bilanci, un tipo così attirava l’attenzione. Chi era? Da dove veniva? Chi gli dava i soldi? Che senso aveva quella dimora regale? Come avrebbe fatto a pagarla e soprattutto a mantenerla? E così il giovane costruttore edile entrò nel mirino degli interessi della mafia a Milano. Anche loro erano interessati a vederci chiaro. In quegli anni, infatti, venne attuata quella temutissima tassa patrimoniale di cui tanto si parlava. La attuarono, contro i ricchi del Nord Italia, agguerriti gruppi della criminalità sarda, calabrese e siciliana, con lo strumento del sequestro di persona. Furono centinaia le vittime, alcune delle quali morirono durante la prigionia, e molte tornarono con danni irreparabili. Erano in genere sequestri lunghi mesi, che implicavano trattative laboriose; ma alla fine i sequestratori si portavano a casa miliardi. Questi soldi, che un economista definirebbe l’accumulazione primaria, furono la base dello sviluppo dell’economia mafiosa moderna. Capitali, in genere scottanti per la loro tracciabilità, che dovevano essere riciclati e reinvestiti. Milano era il principale luogo di commissione del delitto e di reinvestimento dei capitali.

Naturalmente toccò anche a Silvio Berlusconi; l’imprenditore era in una posizione veramente scomoda, perché non aveva di certo mai avuto una gran voglia di raccontare i fatti suoi agli inquirenti, soprattutto quelli riguardanti la propria situazione finanziaria. È lui stesso a ricordare che venne atrocemente minacciato; minacciato suo padre Luigi, minacciato di rapimento e di uccisione il suo primo figlio maschio, Piersilvio. Minacciato lui stesso, tanto che per alcuni mesi tutta la famiglia si trasferì in Spagna. La storia, come la raccontò poi lo stesso Berlusconi, dice che il giovane imprenditore si ricordò di un compagno di università, un siciliano più giovane di lui di cinque anni, che aveva conosciuto ai corsi estivi dell’Opus Dei a Carate Urio (Co), nel delizioso castello dov’è coltivata la memoria del fondatore dell’ordine, Josemaría Escrivá de Balaguer (e voi che credevate che il giovane Silvio passasse le vacanze a cantare sulle navi da crociera….). Chiese a don Bruno Padula, il responsabile dell’Opus, di rintracciare Marcello Dell’Utri e di domandargli se fosse disposto a venire a dargli una mano a Milano. Dell’Utri, giovane laureato in Legge, aveva trovato un impiego in banca e si annoiava terribilmente dietro lo sportello della Sicilcassa nel piccolo paese di Belmonte Mezzagno, a diciotto chilometri da Palermo, in direzione Corleone. Decise in un lampo, tirò giù la serranda e corse a Milano. Berlusconi lo nominò suo segretario particolare e amministratore della società San Martino, proprietaria della villa di Arcore. Ed è allora che Dell’Utri organizza quell’incontro, così memorabile. Nella sede della Edilnord, a Milano, arrivarono un giorno i maggiori capi di Cosa nostra, organizzazione di cui peraltro all’epoca si negava addirittura l’esistenza. Venivano a conoscere il giovane imprenditore milanese di cui tanto si parlava. Tutta la scena è vividamente descritta nelle motivazioni di sentenza di condanna in appello di Marcello Dell’Utri del 2013.

Si sedettero intorno al tavolo e stipularono un contratto. Eccoli: il signor Gaetano Cinà, il signor Mimmo Teresi, il signor Francesco Di Carlo e, il più importante di tutti, il signor Stefano Bontate.

Gaetano Cinà, allora trentenne, era un giovane boss appartenente all’antica famiglia dei Malaspina, ufficialmente titolare solo di una piccola lavanderia. Defilato e discreto, era uno dei più costanti frequentatori della piazza milanese, su cui manteneva una sorta di comando. (Marcello Dell’Utri era “persona sua”.)

Francesco Di Carlo, trentadue anni, era anche lui di lombi mafiosi, dell’altrettanto antica famiglia di Altofonte, trafficante internazionale di eroina con un’attività industriale che spaziava dall’Inghilterra al Venezuela.

Girolamo Teresi, detto Mimmo, cognato di Bontate, era di fatto uno dei suoi segretari, anche per gli affari spicci. Secondo quanto disse poi Tommaso Buscetta, nel 1970 avrebbe provveduto per ordine di Bontate a eliminare dalla scena un giornalista diventato troppo curioso su affari di mafia e politica, Mauro De Mauro, del quotidiano “L’Ora”.

Ma il capo vero, seduto a quel tavolo della ditta Edilnord, era Stefano Bontate, detto “il Principe di Villagrazia”. Secondo Di Carlo, i siciliani furono colpiti dal fatto che l’industriale milanese fosse vestito casual, senza giacca e con il maglione, mentre Berlusconi rimase impressionato dallo stile dei palermitani. E in effetti Bontate aveva fama di essere colto, di buona conversazione, elegante nel vestire. Aveva frequentato il Gonzaga, il liceo bene di Palermo e qualche anno di università. Comandava, a soli trentasei anni, la più numerosa delle famiglie mafiose palermitane, quella del quartiere di Santa Maria del Gesù, forte di duecento soldati. Aveva ricevuto il comando dal padre, don Paolino Bontate, industriale, grande elettore democristiano; Stefano aveva coltivato moltissimo la politica, oltre che compiere il suo apprendistato di omicidi ed estorsioni, sia nella massoneria sia nella Democrazia cristiana. Amico dei potenti siciliani, aveva udienza a Roma da Giulio Andreotti, cui garantiva una messe di voti elettorali e a cui forniva nell’isola una quantità non piccola di servizi. Al vertice di Cosa nostra insieme al famoso Gaetano Badalamenti (l’uomo che aveva costruito l’aeroporto di Punta Raisi) e a Luciano Liggio di Corleone, Stefano Bontate aveva aumentato a dismisura la sua potenza economica con il traffico di eroina verso gli Stati Uniti, che uomini della sua famiglia raffinavano in quantità enormi, e di cui ora aveva il virtuale monopolio.

L’incontro fu molto soddisfacente per tutti i componenti. Si parlò di grande edilizia – i palermitani tendevano a vedere quello che Berlusconi faceva a Milano come una copia di quello che avevano fatto loro a Palermo – e naturalmente si parlò di sicurezza. Si concluse che questa sarebbe stata assicurata da Vittorio Mangano, per cui garantiva Bontate in persona; Mangano avrebbe organizzato il servizio trasferendosi nella villa di Arcore con la sua famiglia, per il compenso di cinquanta milioni annui. Per la protezione accordata, i palermitani si sarebbero accontentati di duecento milioni annui. La prima tranche venne consegnata contestualmente da Berlusconi nelle mani di Cinà. Marcello Dell’Utri sarebbe stato il collegamento tra Berlusconi e Palermo, per qualsiasi problema. Di fatto, il giovane costruttore milanese aveva consegnato la sua vita, la sua villa e i suoi affari a un gruppo di distinti signori di cui sicuramente ignorava i tanti segreti.

(Quasi quarant’anni dopo, nel 2013, quando vennero pubblicate le motivazioni di condanna a Marcello Dell’Utri per mafia – condanna impugnata, che ora pende in Cassazione – i giudici della Corte d’appello di Palermo furono molto precisi e specificarono il tipo di contratto che allora venne stipulato. “Sinallagmatico”, ovvero, tra due parti uguali fra loro, e revocabile solo con il consenso di entrambe.)

D’altronde, i legami e le conoscenze tra gruppi industriali-finanziari di diversissima origine non erano in quegli anni del tutto inconsueti. Nella centralissima via Chiaravalle, Cosa nostra aveva già fatto anche lei una grande operazione immobiliare, acquistando il palazzo del Cinquecento dove avevano sede gli uffici di tale Filippo Alberto Rapisarda, proprietario di una compagnia aerea privata, della società immobiliare Invim, a suo dire la seconda in Italia, e le famose decine di altre società su cui Falcone aveva posto l’attenzione. Una presenza sul territorio era anche l’enorme Ortomercato, così come l’altrettanto enorme Autoparco. Per la vita notturna, le ottime bische in società con Francis Turatello. Ma l’investimento maggiore a Milano i palermitani lo avevano fatto con il conterraneo Michele Sindona, sconosciuto fiscalista di Patti (Me), diventato il più importante finanziere italiano. Il problema era che Sindona aveva fatto crac.

Gli avevano dato i loro soldi, e adesso lui li aveva persi. Bancarotta, cosa da pazzi. Arrestato anche in America, liberato solo su cauzione. Non solo, ma un avvocatino che doveva liquidare i creditori delle sue banche si era messo in testa di fare le cose per bene. Nemmeno Giulio Andreotti, che aveva promesso una soluzione, riusciva a venirne a capo. Stefano Bontate prese in mano direttamente la situazione, si portò Sindona in Sicilia (dopo un finto rapimento) e insieme vagheggiarono addirittura una specie di secessione dell’isola, visto che ormai l’Italia era in mano ai comunisti, quelli che avevano causato la disgrazia loro e del povero banchiere. Anche Francesco Di Carlo si diede da fare, quando l’altro che curava i loro soldi aveva dato di matto e minacciato di dire chissà che cosa. Si chiamava Roberto Calvi, era nientemeno che il presidente del Banco Ambrosiano di Milano. Incaricato di gestire la questione, Francesco Di Carlo si recò a Londra, pronto a strangolarlo con le sue mani.

Chissà se il giovane Silvio Berlusconi si rendeva conto della compagnia con cui si era messo. Forse no. A quei tempi amava far sapere però che aveva le mani in pasta con quelli che non scherzano. Si era addirittura fatto fare un servizio fotografico dove lo si vedeva, basettoni e Borsalino in testa, vicino a Marcello, a studiare planimetrie nell’ufficio dell’Edilnord. Sul tavolo da lavoro, in bella mostra, una pistola. Chissà se il suo segretario Marcello Dell’Utri lo informò quando il Principe di Villagrazia Stefano Bontate venne ucciso, a bordo della sua Giulietta, sui viali intorno a Palermo, proprio il giorno del suo compleanno. Era l’aprile del 1981. Agghiacciante, a ben pensarci. Quello che era salito fino a Milano per garantirgli la vita, quell’uomo così gentile e raffinato, ammazzato come un cane a Palermo. Anche suo cognato, quell’altro signore presente all’incontro, quel Mimmo Teresi. Scomparso, subito dopo l’uccisione di Stefano. Lupara bianca.

E ce n’era un altro di cognato di Bontate, che era morto anche lui, scomparso, ammazzato. Massone importante, si chiamava Giacomo Vitale. Aveva seguito personalmente la vicenda Sindona e si scoprì che era sua la voce del “picciotto” (quella agghiacciante telefonata che si sente alla fine del film Un eroe borghese, che annuncia ad Ambrosoli la sua condanna a morte). Nel 1997 andò a testimoniare in aula un grosso pentito, Tullio Cannella, che fornì un contesto della morte di Vitale. Dalle cronache di quell’udienza:

Il collaboratore di giustizia riferisce le confidenze del cognato di Bontate, Giacomo Vitale, massone, scomparso nel nulla dopo essere stato uno dei protagonisti del falso sequestro Sindona. Secondo Cannella, Vitale lo avrebbe incaricato di recuperare il “tesoro” di Bontate, ucciso nell’81, promettendogli l’astronomica ricompensa di trenta miliardi. “Giacomo Vitale,” afferma Cannella, “mi disse: ‘I soldi di mio cognato Stefano Bontate, svariate centinaia di miliardi, se li sono fottuti Dell’Utri e Berlusconi’.”

Accuse mai provate, ça va sans dire. Per fortuna loro, Berlusconi e Dell’Utri erano vivi. E la Fininvest, la loro creatura, stava diventando una delle imprese più grosse d’Italia.

La Fininvest, Berlusconi l’aveva divisa in ventidue holding. Paraventi, scatole cinesi, prestanome, cassette di sicurezza inviolabili, uno stuolo di avvocati agguerriti. Nessuno sapeva a chi appartenessero quelle holding, ma certo potevano attirare qualche indagine. E in effetti nel 1979 si fece avanti un brillante capitano della guardia di finanza, tale Massimo Maria Berruti, che voleva vederci chiaro. Ma lasciò perdere le indagini e anche il Corpo, perché venne assunto da Berlusconi, che poi, sceso in campo, lo fece anche diventare deputato. Quando – vent’anni dopo – si cercò di nuovo di vederci chiaro, si scoprì che su quei conti esteri era transitata in pochi anni una vertigine di 200 miliardi, spesso in contanti o in assegni circolari.

Nel 1993 la Fininvest, di cui nessuno conosceva la proprietà, era il terzo gruppo industriale italiano, dopo la Fiat degli Agnelli e il conglomerato della Ferruzzi-Gardini. Sotto Berlusconi, al quarto posto, stava il gruppo di Carlo De Benedetti.

Ma nel 1993 la Fininvest era sepolta da una montagna di debiti. La situazione era stata segnalata alla Banca d’Italia. I telefoni del Cavaliere erano stati messi spesso sotto controllo. La polizia lo sospettava di riciclaggio e traffico di droga, e negli anni aveva redatto informative in tal senso. (Una, per esempio, dal comando generale della guardia di finanza, è del 30 maggio 1983: “È stato segnalato che il noto Berlusconi Silvio, interessato all’emittente televisiva privata Canale 5, finanzierebbe un intenso traffico di sostanze stupefacenti dalla Sicilia. […] Il predetto sarebbe al centro di grosse speculazioni edilizie nella Costa Smeralda”.)

Falcone e Borsellino avevano ben presente la filiera che partiva da Palermo e arrivava a Milano, compreso lo stalliere di Arcore. La rete televisiva francese Canal Plus aveva commissionato un’inchiesta sul Cavaliere come uno dei più grandi “padrini d’Europa”. Berlusconi era poi notoriamente associato a Bettino Craxi – suo amico personale –, che aveva addirittura interrotto una visita di stato a Londra per tornare a Roma ed emettere un decreto in favore delle sue televisioni private. E Craxi, il suo protettore politico, era crollato.

Ma Berlusconi era fortunato. Quando scoppiò Tangentopoli e tutte le maggiori imprese sembravano coinvolte, la Fininvest non venne nemmeno sfiorata dalla grande inchiesta. Il pm Di Pietro, che fece la disgrazia di Raul Gardini – l’uomo più liquido d’Italia; si suicidò nel luglio del 1993, sparandosi in un’elegante vestaglia nel suo bel palazzo nel centro di Milano –, di Craxi, dell’Eni, di un pezzo di Fiat, del costruttore Ligresti; il pm che raccolse le deposizioni di mille tra industriali e politici confessanti tangenti, il nome Berlusconi non lo sentì mai. Le inchieste milanesi e quelle palermitane non si incontrarono mai. Quei due giudici siciliani, intanto, giù a Palermo, erano saltati in aria.

Quando Berlusconi fece in televisione il famoso discorso della “discesa in campo”, nel gennaio del 1994, sapeva che stava camminando sul filo del rasoio. E che l’unica possibilità che aveva di salvare la sua azienda, la sua enorme villa, la sua vita, era di fare, in grande, quello che non era riuscito a Michele Sindona. Mettersi a capo di un movimento politico, diventare presidente del Consiglio e, soprattutto, tenere buoni i creditori.

La sfida era grandiosa, ma la vittoria era a portata di mano. Dell’Utri in due mesi gli aveva organizzato il partito, i candidati, la propaganda, i voti. Quanta strada aveva fatto Marcello, da quel giorno di vent’anni prima, in cui gli aveva fatto conoscere quei distinti signori di Palermo.

 

Questo testo è tratto da Indagine sul ventennio (Feltrinelli), il nuovo libro del giornalista e scrittore Enrico Deaglio dedicato ai vent’anni dall’ingresso in politica di Silvio Berlusconi.

(nella foto Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi alla Camera nel 1999, Mauro Scrobogna/Lapresse)