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  • Sabato 12 aprile 2014

Psicopatici al potere

Secondo il libro di Jon Ronson, gli psicopatici hanno tutte le caratteristiche per essere a loro agio in posizioni di potere politico o economico

È uscito per Codice edizioni il libro di Jon Ronson Psicopatici al potere. Viaggio nel cuore oscuro dell’ambizione, tradotto da Ilaria Oddenino e Chiara Stangalino. Ronson, giornalista e scrittore gallese, autore fra l’altro del libro da cui è stato tratto il film L’uomo che fissa le capre, analizza la psicopatia attraverso incontri con psicologi, manager, psicopatici veri o presunti, e descrive il potere manipolatorio e di seduzione di cui si servono gli psicopatici per controllare gli altri e soddisfare il proprio ego, ma solleva anche dubbi sulla possibilità di tracciare una linea fra sanità e follia con metodi scientifici.
In questo estratto Ronson racconta il suo incontro con lo psicologo canadese Robert D. Hare, ideatore della PCL-R, la Psycopathy Checklist, un metodo per diagnosticare la psicopatia attraverso il punteggio ottenuto valutando venti elementi del carattere di una persona.

***

«Se ne stavano lì così, nudi, a parlare dei propri sentimenti» disse Bob Hare, ridendo. «Seduti su dei pouf… psicopatici che facevano terapia ad altri psicopatici!». Scosse la testa di fronte a questo eccesso d’idealismo. «Roba da non credere…».

Era una sera d’agosto, e stavo bevendo un drink con Bob Hare nel bar di un hotel del Pembrokeshire, nel Galles occidentale. Gli occhi rossi e i capelli bianchi un po’ ingialliti gli davano un’aria quasi selvaggia, l’aria di chi ha passato tutta la vita a combattere. La battaglia, nel suo caso, era stata combattuta contro gli psicopatici, l’incarnazione stessa del male. Ero emozionato al pensiero di poterlo finalmente incontrare: mentre i nomi di Elliott Barker e Gary Maier sopravvivono ormai solo più in una letteratura scientifica che parla dei loro folli e idealisti esperimenti, quello di Hare è tuttora influente. I dipartimenti di giustizia e le commissioni per la libertà condizionale di tutto il mondo hanno accolto la sua tesi secondo cui gli psicopatici sono molto semplicemente incurabili, e le energie andrebbero quindi spese per imparare a stanarli usando la PCL-R che egli stesso ha messo a punto nel corso di una vita. Non è l’unico strumento diagnostico in circolazione, ma è di gran lunga il più usato, quello con cui è stata fatta la diagnosi di Tony a Broadmoor, tanto per intenderci, quello che lo ha portato a trascorrere gli ultimi dodici anni dietro le sbarre.

Per Bob Hare il programma di Oak Ridge era l’ennesima prova dell’inaffidabilità degli psicopatici: se si insegna a queste persone cos’è l’empatia, impareranno solo a fingerla meglio per raggiungere i loro scopi più subdoli. Di fatto, chiunque abbia studiato il programma di Oak Ridge è giunto alla stessa conclusione. Chiunque, ma non Gary Maier.
«Sì» mi aveva detto Gary, «è probabile che senza volerlo gli abbiamo fornito una specie di corso di perfezionamento. Quella è sempre stata una nostra preoccupazione. Ma all’interno del programma stavano facendo progressi…».
Poi un giorno, all’improvviso, fu licenziato. «Vedere una figura di riferimento, come ero io per loro, fatta fuori in quel modo deve aver come innescato una miccia» mi disse. «Hanno avuto la sensazione che fosse tutto una stronzata, e da qui la reazione». Gary era convinto che alcuni degli psicopatici fossero arrivati a uccidere per dare una lezione alle autorità: della serie “questo è quello che succede quando licenziate uno come Gary Maier”.
Nel raccontarmi tutto questo aveva assunto un’aria afflitta. Se ne stava sulla difensiva, fermo nelle sue posizioni, quando all’improvviso capii che il rapporto tra terapista e paziente può trasformarsi in un affiatamento reciproco che rischia di diventare malsano.
Avevo scritto a Bob Hare per proporgli un incontro, e lui aveva risposto che avrebbe fatto lezione sulla PCL-R a un gruppo di psichiatri, esperti di brain imaging, assistenti sociali, psicologi, agenti penitenziari e criminal profilers in erba in un corso di tre giorni, e che se fossi stato disposto a pagare le seicento sterline di tassa d’iscrizione mi sarei potuto unire a loro.
La cifra non includeva una copia della PCL-R; quella mi sarebbe costata altre trecentosessanta sterline circa. Riuscii a contrattare fino a quattrocento (sconto stampa), e fui pronto a partire.
Era il lunedì sera prima del primo giorno, e i partecipanti avevano cominciato a radunarsi. Alcuni, evidentemente emozionati all’idea di trovarsi nella stessa stanza in cui c’era Robert D. Hare, lo avvicinavano per chiedergli un autografo. Altri osservavano da lontano, con una punta di scetticismo. Un’assistente sociale mi aveva raccontato poco prima di esser stata mandata lì dai suoi datori di lavoro, ma l’idea non la entusiasmava; era convinta che non fosse giusto condannare una persona a portarsi dietro un’orribile diagnosi di psicopatia per il resto della vita («è un’etichetta davvero ingombrante») solo per non aver risposto bene alla checklist di Hare. Almeno una volta era più semplice: se eri un criminale violento, abituale, incapace di controllare i tuoi impulsi, allora eri uno psicopatico. Ma il metodo di Hare, incentrato sull’interpretazione delle espressioni verbali e non verbali, era molto più subdolo.

Raccontai a Bob dello scetticismo di questa persona, e gli dissi che in parte lo condividevo, forse perché negli ultimi tempi avevo passato molto tempo con gente di Scientology. Mi fulminò con lo sguardo: «Vedremo come ti sentirai alla fine della settimana».
«Ad ogni modo» gli chiesi, «com’è cominciato tutto?».
Mi fissò. Potevo leggergli nel pensiero: “Sono stanco morto, e adesso questo mi chiede di raccontargli la mia storia… Siamo sicuri che se lo meriti?”.
Fece un sospiro, e iniziò a raccontare. A metà degli anni sessanta, proprio mentre Elliott Barker stava iniziando a lavorare alla sua capsula in Ontario, Bob Hare era a Vancouver, dove lavorava come psicologo al British Columbia Penitentiary, un carcere di massima sicurezza. Oggi è un bar ristorante a tema – il tema è la prigione, ovviamente… – in cui i camerieri indossano uniformi a righe e i piatti portano il nome di detenuti famosi; allora però era un posto davvero terribile, duro e brutale. Come Elliott, Bob credeva che i presunti pazzi in cura da lui celassero la follia dietro una maschera di normalità. Ma Bob era meno idealista: a lui interessava la diagnosi, non la cura. Troppe volte era stato ingannato.
Il suo primo giorno di lavoro in prigione, per esempio, il direttore gli disse che avrebbe avuto bisogno di una divisa, così lo mandò a farsi prendere le misure dal detenuto che lavorava come sarto. Bob ci andò, e fu piacevolmente colpito dalla cura con cui l’uomo operava. Voleva assicurarsi che tutto fosse eseguito alla perfezione: il taglio, la parte interna della gamba e via dicendo.
Bob trovava la scena commovente: persino in quel posto orribile c’era qualcuno che svolgeva il proprio lavoro con orgoglio e meticolosità. Quando la divisa arrivò, però, Bob scoprì che una gamba gli saliva su fino al polpaccio mentre l’altra si trascinava sul pavimento, e alle maniche della giacca non era stato riservato destino migliore. Non poteva essere stato un errore: il sarto voleva farlo sembrare un pagliaccio.
Gli psicopatici non perdevano mai l’occasione di rendergli la vita spiacevole: uno gli tagliò persino i cavi dei freni mentre la sua macchina era in riparazione nell’officina della prigione. Bob avrebbe potuto rimanere ucciso. Così iniziò a elaborare dei test per determinare se gli psicopatici potessero in qualche modo essere smascherati.
Aveva bisogno di volontari, psicopatici e non, per cui iniziò a spargere la voce in prigione. Le adesioni non tardarono ad arrivare: i detenuti avrebbero fatto qualunque cosa pur di spezzare la routine del carcere. Li collegò uno per uno a vari macchinari per l’encefalogramma e per la misurazione di sudore e pressione sanguigna, nonché a un generatore di corrente elettrica. Poi spiegò che avrebbe fatto un conto alla rovescia da dieci a uno, e che all’uno avrebbero ricevuto un dolorosissimo elettroshock.
La differenza nelle reazioni lasciò Bob stupefatto. I volontari non psicopatici (avevano di solito commesso crimini passionali o compiuti comunque per disperazione) si facevano coraggio e si preparavano con una certa rassegnazione a ricevere la scarica, come se un doloroso elettroshock fosse la punizione che meritavano. Mentre il conto alla rovescia proseguiva, i monitor rivelavano un aumento significativo della sudorazione. In poche parole erano spaventati.
«E cosa succedeva quando arrivavi all’uno?» chiesi a Bob.
«Gli davo la scarica elettrica. Era un elettroshock veramente doloroso».
«E gli psicopatici?».
«Neanche una goccia di sudore» disse Bob. «Niente di niente». Lo guardai. «O meglio…» aggiunse poi «nel momento esatto in cui avveniva il fatto…».
«Cosa? L’elettroshock?».
«Sì. Quando davo la scarica gli psicopatici una sorta di reazione in realtà ce l’avevano…».
«Tipo? Un grido?».
«Sì, tipo un grido, direi». I test sembravano indicare che l’amigdala, la parte del cervello che avrebbe dovuto prevedere il pericolo imminente e inviare i segnali di paura necessari al sistema nervoso centrale, non stava funzionando come avrebbe dovuto.
Fu una scoperta notevole per Bob, il primo indizio che i cervelli degli individui affetti da psicopatia erano diversi da quelli delle persone normali. Ma ripetere il test fu ancora più stupefacente: gli psicopatici sapevano esattamente quanto dolore avrebbero provato una volta arrivati all’uno, eppure niente, non una goccia di sudore. Bob imparò qualcosa che a Elliott Barker sfuggì per anni: gli psicopatici erano portati a colpire di nuovo.
«Non avevano nessun ricordo del dolore dell’elettroshock, neanche quando risaliva a pochi istanti prima» disse Bob. «Quindi che senso ha usare il carcere come minaccia se tanto non rispettano i vincoli della libertà condizionale? Per loro è una minaccia priva di significato».
Fece un altro esperimento, lo startle reflex test, in cui psicopatici e non venivano invitati a guardare immagini raccapriccianti, come fotografie di scene di crimini con volti sfigurati. Poi, quando meno se lo aspettavano, Bob gli sparava nell’orecchio un suono fortissimo: i non psicopatici, colti di sorpresa, trasalivano, mentre gli psicopatici restavano relativamente calmi.

Bob sapeva che di solito ci spaventiamo molto di più se già in principio non siamo rilassati. Se stiamo guardando un film dell’orrore e qualcuno fa un rumore inaspettato saltiamo letteralmente sulla sedia; ma se siamo concentrati su qualcosa come le parole crociate, e qualcuno ci salta alle spalle, lo spavento è meno pronunciato. Da questo Bob aveva capito che quando gli psicopatici guardano immagini raccapriccianti di volti sfigurati non sono inorriditi: sono come assorti. I suoi esperimenti sembravano dimostrare che gli psicopatici considerano un volto sfigurato nello stesso modo in cui noi giornalisti consideriamo un pacco misterioso che riceviamo per posta, o un paziente di Broadmoor che potrebbe o meno aver finto di essere matto: un intrigante enigma da risolvere.
Elettrizzato da queste scoperte, Bob mandò i risultati a “Science”. «Il direttore li rispedì al mittente» disse. «In compenso mi scrisse una lettera che non dimenticherò mai. Diceva più o meno così: “Francamente, alcune delle sequenze dell’elettroencefalogramma riportate nel suo articolo ci sono sembrate molto bizzarre. Non possono essere di persone reali”».
Si fermò un attimo e iniziò a ridacchiare.
«Non possono essere di persone reali…» ripeté.
Secondo me “Science” ha accolto l’articolo di Bob con quello scetticismo perché temeva che fosse l’ennesimo ricercatore anticonformista a operare a briglie sciolte in un ospedale psichiatrico canadese alla fine degli anni sessanta. All’epoca quei posti erano il far west per gli studi sulla psicopatia: un sacco di grandi idee e di fatto nessuna regolamentazione. Era inevitabile che qualche gruppo per i diritti civili si sarebbe fatto sentire. E infatti (malauguratamente per Bob) gli elettroshock furono dichiarati fuorilegge all’inizio degli anni settanta.
«Persino quelli più blandi…» mi disse. Sembrava infastidito dalla legge ancora adesso, ad anni di distanza. «Potevamo ancora spaventarli con rumori forti, ma nulla che si avvicinasse anche solo lontanamente a quello che facevamo prima».
Bob fu costretto a cambiare strategia. Come poteva stanare gli psicopatici in modo meno invasivo? Avevano comportamenti ricorrenti? Usavano senza volerlo alcune espressioni rivelatrici, impercettibili per un civile? Divorò The Mask of Sanity di Harvey Cleckley, un testo chiave per gli studi sulla psicopatologia pubblicato nel lontano 1941. Cleckley era uno psichiatra attivo in Georgia le cui analisi sul comportamento degli psicopatici, su come dissimulino le loro psicosi dietro una facciata d’intrigante normalità, erano arrivate ad avere una certa influenza nel campo. Bob si mise a osservare pazientemente i suoi psicopatici, a caccia d’indizi.

Nel 1975 organizzò una conferenza. «Invitai quelle che ritenevo essere le autorità mondiali nel campo degli studi sulla psicopatia» disse. «Alla fine eravamo ottantacinque. Occupammo letteralmente un hotel in una località sciistica vicino a St-Moritz, chiamata Les Arcs».
L’esordio fu un disastro. Uno psichiatra, alzatosi in piedi, illustrò al gruppo la propria teoria secondo cui lo stesso Bob era in realtà uno psicopatico. Un brivido attraversò la sala conferenze.
Bob rispose prontamente: «Scusi, ma cosa glielo fa pensare?».
«Lei è chiaramente impulsivo» rispose lo psichiatra. «Non è in grado di pianificare. Mi ha invitato a partecipare come speaker a questa conferenza soltanto un mese fa».
«L’ho invitata un mese fa perché la persona che volevo non poteva venire».
«Ah, ok… allora lei è freddo e spietato» aveva concluso lo psichiatra.
«Secondo te lo pensava davvero?» chiesi a Bob.
«Direi di sì. Era una persona davvero spiacevole».

L’obiettivo del convegno di Les Arcs era mettere insieme le osservazioni degli esperti sulle particolarità comportamentali degli psicopatici, i tic verbali e non verbali. Esistevano aspetti ricorrenti? Usavano senza volerlo espressioni rivelatrici?
Le loro conclusioni divennero la base per quella che è oggi la famosa Hare PCL-R Checklist in venti punti.
Eccola qui:

Item 1 Loquace/Fascino superficiale
Item 2 Egocentrico e grandioso
Item 3 Bisogno di stimoli/Propensione alla noia
Item 4 Menzogna patologica
Item 5 Falso/Manipolativo
Item 6 Assenza di rimorso o senso di colpa
Item 7 Affettività superficiale
Item 8 Insensibilità/Mancanza di empatia
Item 9 Stile di vita parassitario
Item 10 Deficit del controllo comportamentale
Item 11 Promiscuità nel comportamento sessuale
Item 12 Problematiche comportamentali precoci
Item 13 Mancanza di obiettivi realistici a lungo termine
Item 14 Impulsività
Item 15 Irresponsabilità
Item 16 Incapacità di accettare la responsabilità delle proprie azioni
Item 17 Molti rapporti coniugali a breve termine
Item 18 Delinquenza minorile
Item 19 Revoca della libertà condizionale
Item 20 Versatilità criminale

Il mattino del giorno successivo avremmo imparato come utilizzarla.