• Mondo
  • Domenica 6 aprile 2014

Le foto terribili del genocidio in Ruanda

Vent'anni fa l'aereo su cui viaggiava il presidente e dittatore Juvénal Habyarimana, di etnia hutu, fu abbattuto da un razzo: cominciarono 100 giorni di massacri e violenze

Il 6 aprile del 1994, esattamente vent’anni fa, l’aereo che trasportava il presidente e dittatore del Ruanda Juvénal Habyarimana, al potere dal 1973 e di etnia hutu, fu abbattuto da un razzo. L’aereo trasportava anche il presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira. La morte del presidente Habyarimana diede inizio – fu un pretesto, secondo molti, vista la forte intolleranza tra i due gruppi etnici – a una serie di massacri sanguinosi e indiscriminati da parte del governo nei confronti della minoranza dei tutsi, ritenuta responsabile dell’attentato; furono uccisi e perseguitati anche gli hutu considerati “moderati” o tolleranti. Nel giro di 100 giorni, dal 7 aprile alla metà di luglio del 1994, furono uccise almeno un milione di persone, la maggior parte a colpi di machete importati dalla Cina, ci furono decine di migliaia di stupri e di bambini arruolati come soldati.

Col tempo si seppe che il governo ruandese aveva pianificato per tempo il massacro e che era attrezzato di liste precise che indicavano chi uccidere e chi no. D’altra parte da qualche tempo le carte d’identità specificavano chi fosse hutu e chi tutsi, e tra i gruppi etnici c’erano alcune differenze fisiche – per esempio la corporatura e la forma del naso – che rendevano semplice distinguersi.

A luglio le milizie tutsi, guidate da Paul Kagame, deposero il governo degli hutu e misero fine al massacro. Kagame divenne il presidente provvisorio del paese, fu eletto democraticamente nel 2003 e rieletto nel 2010. Il suo secondo e ultimo mandato terminerà nel 2017, un anno fa il suo partito ha vinto le elezioni legislative con il 76 per cento dei voti. L’atteggiamento disinteressato della comunità internazionale e l’inazione dell’ONU sono stati oggetto negli anni di critiche durissime, così come gli atteggiamenti tolleranti o collaborativi di alcuni grandi paesi occidentali verso una delle parti in causa, come la Francia verso gli hutu.

Sulla Stampa di oggi ne scrive Domenico Quirico, occupandosi anche del ruolo delle fotografie nella comprensione dell’entità dei massacri.

(attenzione: la galleria fotografica contiene immagini forti)

Venti anni fa tutto cominciò con un delitto di Stato. Il Falcon del presidente del Ruanda Juvenal Habyarimana, reduce da un vertice di capi di Stato in Tanzania con equipaggio francese e a bordo il presidente del Burundi Ntaryamira, fu colpito da un missile quando era ormai in fase di atterraggio a Kigali. Nessuno si salvò. Passarono poche ore e tutto il Ruanda cominciò a grondare sangue. Negli spasimi di una lunga tragedia etnica i fratelli nemici hutu e tutsi si sbranavano da secoli per un paradiso terrestre. La morte del presidente, un hutu, fu come il segnale atteso della ennesima resa dei conti. Perché tutto era stato preparato con metodo: gli elenchi di chi doveva essere ucciso, i magazzini con le armi comprate grazie a un sollecito prestito di una banca francese (Parigi era la grande alleata degli hutu al potere), gli estremisti huti erano in attesa dell’ordine, pronti, frementi, gonfi di birra e di odio.

Sul Paese scese il tempo di Caino, come una febbre maligna che annullava e travolgeva le coscienze. Un esercito tutsi, armato dall’Uganda e dagli americani, stava avanzando: erano i figli di un altro genocidio che cercavano la rivincita. La FranceAfrique, gli americani: anche stavolta c’erano sullo sfondo potenti burattinai. Le bande dei manovali della morte, che si facevano chiamare «i compagni’», andarono nelle caserme per ricevere machete fucili e bombe a mano. I rayban sul naso, ruttando alcool e ferocia, strinsero Kigali e i villaggi e le città in un laccio di posti di blocco. Sui documenti di identità la definizione etnica, sciagurato retaggio coloniale, era il corrispettivo della stella gialla degli ebrei, divideva chi aveva diritto alla vita dagli Altri, «gli scarafaggi» da schiacciare.

(continua a leggere sul sito della Stampa)