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  • Venerdì 4 aprile 2014

Cosa fa il presidente degli Stati Uniti quando c’è un guaio

Raccontato da uno dei giornalisti che ogni giorno seguono gli spostamenti di Obama e che era con lui il 2 aprile dopo la sparatoria a Fort Hood

di David Nakamura - Washington Post

Il presidente Obama è in una steakhouse di Chicago: sta finendo una riunione privata di raccolta fondi e i giornalisti che stanno viaggiando con lui lo aspettano, come succede spesso, nel parcheggio sotterraneo dove si trovano le auto e la scorta del presidente. A un certo punto un membro dello staff apre la porta scorrevole del furgoncino della stampa: «Tutti i giornalisti della Casa Bianca scendano. I piani sono cambiati». Ci fanno risalire nel ristorante, il presidente non si muove, per ora.

A 1600 chilometri di distanza da Chicago, nella base militare di Fort Hood, in Texas, c’è stata una sparatoria, dice la stampa: le informazioni sulla sparatoria – all’inizio un po’ confuse, poi pian piano sempre più preoccupanti – hanno raggiunto Obama nel suo viaggio lontano da Washington. Mentre i giornalisti vengono fatti rientrare nella “sala d’attesa dei giornalisti”, una stanzetta spoglia dove Obama aveva incontrato privatamente una ventina di finanziatori, lo staff della Casa Bianca si organizza al piano superiore, cercando di trasformare un angolo del ristorante in una sala stampa improvvisata. I tavoli vengono portati via, le sedie spinte verso il fondo della sala e una bandiera americana viene appesa su un sobrio tendone nero.

È un momento di crisi nazionale, il presidente deve poter parlare alla stampa il prima possibile.
Josh Earnest, il vice addetto stampa, ci dice in via confidenziale che il presidente parlerà brevemente e a braccio: un messaggio di non più di 90 secondi che non conterrà nuove informazioni sulla mutevole situazione di Fort Hood. Noi chiamiamo in fretta e furia le nostre redazioni per informarle sui fatti. Subito dopo quello che chiamiamo “il mandriano dei giornalisti”, un membro dello staff della Casa Bianca che si occupa di coordinare il gruppo di giornalisti che segue il presidente nei suoi viaggi, ci fa salire velocemente al piano di sopra per seguire il discorso di Obama.

La Casa Bianca può diventare un posto molto “coreografico”, dove anche gli “spontanei” incontri con il presidente e i “fuori programma” – come la sosta di mercoledì a una famosa rosticceria del Michigan – sono attentamente pianificati. Ma è in momenti di crisi che i limiti dell’enorme entourage del presidente emergono più chiaramente, alla mercé delle breaking news che arrivano da ogni angolo del paese o del mondo, come ho potuto vedere con i miei occhi per la prima volta circa due anni fa, quando Obama cancellò un evento in Florida per affrontare la notizia della sparatoria nel cinema di Aurora, in Colorado.

Proprio come in quel giorno di luglio del 2012, mercoledì sono stato assegnato alla Casa Bianca insieme alle decine di altri giornalisti che hanno viaggiato con il presidente sull’Air Force One e nel suo convoglio di auto, e che erano responsabili di aggiornare delle attività del presidente le redazioni che si occupano di Casa Bianca da Washington. Seguire il presidente, a volte, può essere un lavoro molto eccitante, come quando ci hanno fatto volare sopra Chicago su un elicottero Osprey della Marina insieme al corteo aereo presidenziale.

Altre volte invece è un lavoro molto noioso, come quando abbiamo dovuto aspettare in un corridoio che Obama finisse la sua visita alla rosticceria del Michigan.

Raccontare la routine giornaliera del presidente è il primo compito dei giornalisti che viaggiano con lui. Per la verità siamo lì pronti a seguire le emergenze: in quei casi la vicinanza al presidente è importante affinché il pubblico statunitense possa sentire direttamente quello che dice il Comandante in Capo delle forze armate.

Saliamo di corsa le scale, entriamo nel ristorante e ci sistemiamo a semicerchio a circa 3 metri dalla bandiera americana. Un addetto della Casa Bianca, quello responsabile delle trascrizioni dei discorsi, sta in piedi nel posto dove tra poco ci sarà Obama, così che i cameramen possano regolare la loro attrezzatura. Ben Wolfang, un giornalista del Washigton Times che è stato scelto come rappresentante di tutti i giornalisti della carta stampata, scrive la scena sul suo telefonino pronto a inviare il comunicato standard che sarà poi mandato a migliaia di giornalisti di mezzo mondo non appena Obama avrà finito di parlare. Poco dopo il primo breve report, agli stessi giornalisti arriverà una trascrizione completa del discorso di Obama, che dovrò scrivere io cercando di fare il più veloce possibile.

Il presidente ci sta mettendo un po’ ad entrare nella stanza. Ci viene detto che, in realtà, è pronto a parlare con noi ma sta aspettando che un giornalista di CNN trovi un paio di treppiede per le due telecamere, una primaria e una di emergenza, che registreranno il discorso del presidente. Per questo viaggio, come mi verrà spiegato in seguito, le reti televisive avevano deciso di rinunciare al furgone con le antenne satellitari, per risparmiare. Per questo motivo il discorso del presidente non potrà essere trasmesso dal vivo: il video verrà portato all’ufficio di Chicago di CNN e trasmesso da lì.

Jesse Lewin, un ex addetto stampa della Casa Bianca che ora lavora a Chicago per un ufficio di pubbliche relazioni che aiuta l’ufficio stampa del presidente per questo viaggio, si offre di correre a recuperare il treppiede da un gruppo di giornalisti di CNN che non possono superare il cordone di sicurezza che i servizi segreti mantengono sempre intorno al presidente.

Poi un funzionario dà il segnale ed entra il presidente. Obama prende il suo posto vicino alla bandiera americana: non c’è il gobbo elettronico, non ci sono leggio o note di alcun genere. Parla lentamente e con attenzione: «Ho appena parlato con il vice presidente dello Stato maggiore della Difesa per avere le ultime notizie sulla sparatoria di Fort Hood. Naturalmente stiamo seguendo gli sviluppi con estrema attenzione. La situazione è ancora in evoluzione… Ci spezza il cuore che qualcosa del genere sia successo di nuovo».

Il suo messaggio per intero conta 327 parole. Non c’è tempo per le domande, Obama si gira e abbandona la stanza. Noi veniamo accompagnati nella stessa stanza dove eravamo prima e abbiamo pochi minuti per scrivere i nostri pezzi prima di risalire sul furgone e ripartire con il presidente. Stiamo lavorando freneticamente quando il convoglio gira su Lakeshore Drive e si dirige verso la prossima sosta di Obama, un evento di raccolta fondi presso un’abitazione privata.

Su Twitter i giornalisti stanno postando aggiornamenti sul discorso di Obama basati sui nostri report. Da qualche parte trovo anche la trascrizione che ho fatto io, tutta intera, errori di battitura compresi.

Più tardi, mentre torniamo verso Washington a bordo dell’Air Force One, un reporter si chiede, parlando ad alta voce, come mai Obama abbia parlato alla stampa così repentinamente. In decine di eventi al seguito del presidente, dice, non lo ha mai visto apparire in pubblico così poco tempo dopo la diffusione di una notizia così drammatica, quando i fatti sono ancora molto confusi. La discussione prosegue tra i giornalisti: come sarebbe apparso al pubblico Obama se avesse proseguito con gli eventi di raccolta fondi per il suo partito senza aver prima parlato di Fort Hood?

Fort Hood, inoltre, è il posto dove Obama aveva risposto ad una delle prime crisi nazionali della sua presidenza, quando aveva raggiunto la base per parlare a un evento commemorativo dopo la sparatoria nel novembre 2009. Obama sapeva di cosa stava parlando quando, nel suo comunicato di mercoledì, diceva che la nuova sparatoria «riapre la ferita di quanto successo cinque anni fa. Conosciamo queste famiglie. Conosciamo l’incredibile servizio che hanno offerto al nostro paese e i sacrifici che fanno».

Le notizie, per oggi, sono finite, ma c’è ancora lavoro da fare per i giornalisti prima di lasciare Chicago. Ci portano in una sala dove Obama sta parlando a circa 60 sostenitori dei Democratici, e viene fatto solo un accenno alla sparatoria di Fort Hood. Il presidente chiama Rick Pearson, il giornalista del Chicago Tribune che Obama conosce dai tempi in cui era senatore dell’Illinois.

«Ehi, come va? È un piacere vederti. Come vanno le cose a Springfield?» chiede Obama.
«Dirò a tutti che li saluti» risponde Pearson.

Noi torniamo sul furgoncino, dove Lewin arriva e ci offre fette di cheesecake avanzate dal rinfresco.

A Washington, lontano da Fort Hood, il ciclo delle notizie continua frenetico. Ma qui, nelle scure strade di un tranquillo quartiere di Chicago, un gruppo di giornalisti siede in un furgone, aspettando il prossimo movimento del presidente degli Stati Uniti.

© The Washington Post 2014

Foto: Obama parla alla stampa poco dopo la sparatoria di Fort Hood.
2 aprile 2014, Chicago, Illinois. (Jewel Samad/Getty Images)