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  • Martedì 25 marzo 2014

Breve storia dell’Ucraina, aggiornata fino a un momento fa

Il suo nome significa "sul confine", ma si trova al centro dell'Europa ed è nella sua capitale Kiev che nacque la Russia

di Francesco M. Cataluccio

Un bambino in cima al monumento che simboleggia l'amicizia tra il popolo russo e quello ucraino a Kiev, nel 1994
(SERGEI SUPINSKY/AFP/Getty Images)
Un bambino in cima al monumento che simboleggia l'amicizia tra il popolo russo e quello ucraino a Kiev, nel 1994 (SERGEI SUPINSKY/AFP/Getty Images)

Spesso le parole contengono, appena celato, il vero significato delle cose, e anche il loro destino. “Ucraina” significa “sul confine” (u krajna). Uno spazio di frontiera, sempre conteso e conquistato dai potenti vicini: Russia, a est, e Polonia, a ovest (e anche, quando c’era, l’Impero Austro-ungarico). Ancora oggi, un piccolo monumento vicino al confine con la Slovacchia ha un’epigrafe in latino che la Società Geografica di Vienna fece apporre nel 1911: «Grazie a un sistema di meridiani e paralleli, in questo punto è stato fissato il centro dell’Europa».

L’Ucraina è quindi una vasta frontiera proprio al centro del nostro continente. Un grande territorio (il paese più esteso d’Europa, dopo la Russia: 603.700 chilometri quadrati; il quinto per numero di abitanti: 48 milioni) per lo più pianeggiante, se si escludono le verdi montagne dei Carpazi a sud, e quindi senza grandi difese naturali: distese di fertili campi; steppe che arrivano fino al mare; colline ondulate; immensi boschi; molti laghi e gonfi fiumi; un sottosuolo ricco soprattutto di carbone (cfr. il miglior libro di introduzione all’Ucraina di oggi: M. Pasquale, Ucraina. Terra di confine. Viaggi nell’Europa sconosciuta, il Sirente, Fagnano Alto 2012, qui un video dell’autore).

Un paese pieno di paradossi. Non soltanto perché lì sta (molto più a est di quanto comunemente si creda) il centro del nostro continente, ma perché lì nacque la Russia. Quando, nell’882 dC, il principe scandinavo Oleg conquistò Kiev (Kyiv), uccise i signori della città (appartenenti alla tribù slava dei Poliani) e dichiarò: «Questa città sarà la madre di tutte le città dei Rus’». I Rus’ erano il potente clan vichingo della città. In poco tempo, quella città commerciale, attraversata dal grande fiume Dnepr (che i romani chiamavano Danaper) divenne il centro di un grande e potente impero che andava dal Mar Baltico al Mar Nero.

Negli inizi di una nazione stanno iscritti, come il nome, i suoi caratteri e le sue contraddizioni (che saranno portatrici, fino al nostro presente, di conflitti e incertezze). Il fatto saliente, che mutò la storia della Rus’ di Kiev, fu quando, nel 988, il principe Vladimir convertì tutto il suo popolo, che era pagano, alla religione cristiano ortodossa. I principi di Kiev presero molto sul serio la religione bizantina come strumento di potere: furono eretti rapidamente un gran numero di chiese ed edifici sacri, tanto che il vescovo sassone Ditmaro di Merseburgo, visitando Kiev, nel 1018, testimoniò che, in città, il loro numero superava le trecento unità. La testimonianza ancora visibile di quella manifestazione architettonica della fede è il bellissimo Pečerska Lavra, conosciuto anche come Monastero delle grotte di Kiev: un antico monastero, fondato nel 1051 dai monaci Antonio e Teodosio, diventato un luogo di culto sempre più importante nel medioevo e che ospita oggi la residenza del Metropolita di Kiev. La storia di quel mondo ucraino antico, già sovraccarico di violenze, è narrata nell’epopea del Cantare di Igor’ (XII sec.), il primo testo letterario russo, dove si narrano le imprese del principe Igor’ Svjatoslaviç (1151–1202).

Sul fiorente regno della Rus’ si abbattè, nel 1240, l’orda dei conquistatori mongoli guidati da Baty Khan. Kiev fu rasa al suolo e i suoi abitanti sterminati. In seguito, il territorio della Rus’ fu diviso in tre principati: Galizia, Volynia e Moscovia (che in seguito divennero: Polonia, Lituania e Russia).
Gli ebrei giocarono, loro malgrado, un ruolo assai importante in Ucraina. Le prime testimonianze della loro presenza nella regione di Kiev risalgono al 1018. Nella lotta sanguinosa tra contadini ucraini e proprietari terrieri polacchi, gli ebrei furono sempre dalla parte dei polacchi e quindi costantemente oggetto di manifestazioni ostili da parte dei contadini e dei cosacchi. Il re Sigismondo I di Polonia e Lituania (1506-1548) e il suo successore, Sigismondo Augusto (1548-1572), protessero gli ebrei, garantendo loro eguali diritti e la possibilità di insediarsi liberamente in Polonia e in Ucraina. La situazione peggiorò tragicamente in seguito alle rivolte dei servi della gleba ucraini, guidati dall’atamano cosacco Bohdàn Chmel’nitskij (1596-1657), e alla Guerra russo-polacca (1654-1667), detta Guerra di Ucraina, che si concluse con una significativa espansione territoriale russa e segnò l’inizio della grande potenza politica e militare russa nella regione. Il conflitto fu generato dalla ribellione dei cosacchi ucraini contro i polacchi. Il cosacco Chmel’nitskij ottenne, sin dall’inizio, un importante aiuto da Alessio I di Russia, in cambio della sua alleanza, sancita, nel 1654, dal Trattato di Pereyaslav che unì di fatto l’Ucraina alla Russia (per festeggiare degnamente il trecentesimo anniversario del Trattato, nel 1954, l’allora segretario del PCUS, Nikita Sergeevič Chruščëv, regalò all’Ucraina la penisola di Crimea, e oggi i russi se ne pentono molto).

Nel XVIII secolo, sorsero i più importanto movimenti di rinascita mistica e risveglio devozionale, che mutarono la vita quotidiana, la cultura e la filosofia delle comunità ebraiche dell’Ucraina. Israel ben Eliezer, meglio noto come Ba’al Shem Tov (1699-1760), fu il fondatore del Hassidismo (hassidim =“uomini devoti”). I suoi adepti (che si distinguono ancora oggi per i lunghi pastrani neri, gli ampi cappelli di feltro o di pelliccia, le barbe e le basette arricciolate) anteponevano alla conoscenza del Talmud l’amore sincero per Dio e l’idea di una comunione dell’uomo con il divino, pienamente realizzata attraverso la preghiera e la vita gioiosa.
Con l’editto di Caterina II del dicembre 1791 (che rimase in vigore fino al marzo 1917) le autorità russe stabilirono delle “zone di residenza” per gli ebrei, al di fuori delle quali non avevano il diritto di abitare e lavorare in maniera permanente. Le autorità inoltre incoraggiarono i pogròmy (persecuzioni): linciaggi e incendi delle case degli gli ebrei. In nessun’altra zona d’Europa, fino all’avvento del nazismo, l’antisemitismo fu così spietato. Anche per questo, a partire dal 1897, molti iniziarono ad abbracciare la causa sionista e a immaginare il loro futuro in Palestina, fuori dall’ “inferno russo-ucraino”. Altri intrapresero la difficile strada dell’emigrazione verso l’America (come si vede anche nel film animato, prodotto da Spilberg, Fievel sbarca in America, del 1986).

Con il XX secolo la storia dell’Ucraina prese un nuovo indirizzo, in un’alternanza di speranze, rivoluzioni e violenze. La Rivoluzione del 1905 e poi la Rivoluzione Bolscevica del 1917 coinvolsero direttamente il paese e portarono alla nascita della Repubblica socialista ucraina. Già nel 1922 la regione (che era stata uno dei granai d’Europa) fu investita dalla prima terribile carestia, dovuta al collasso dell’ammiistrazione statale e alle continue guerre che l’avevano dilaniata negli ultimi sette anni (Prima guerra mondiale; Rivoluzione; Guerra civile tra rossi e bianchi; Guerra russo-polacca del 1920). Poi, quando il Partito comunista prese il controllo del paese tentò di imporre a una massa di contadini la collettivizzaione delle terre. Interi villaggi contadini si opposero al progetto di collettivizzazione delle campagne, previsto dal Primo piano quinquennale del 1929. Perciò tutti i contadini (piccoli, grandi e medi) che non accettarono di sottomettersi alla collettivizzazione, vennero bollati, con una campagna di denigrazione molto violenta, come “kulaki” (proprietari), e vennero trattati come dei veri e propri nemici: caricati a forza sui treni e deportati lontano, con il risultato di impoverire ancor di più le campagne. La politica di collettivizzazione forzata di Stalin non portò nessun risultato economico, ma morte per fame ed eccidi di massa.

“Holodomor”, deriva dall’espressione ucraina moryty holodom, che significa “infliggere la morte attraverso la fame”, ed è il nome attribuito alla carestia, non generata da cause naturali, che si abbatté sul territorio dell’Ucraina negli anni dal 1929 al 1933 e che causò circa 7 milioni di morti (Cfr. A. Graziosi (a c.), Lettere da Kharkov. La carestia in Ucraina e nel Caucaso del Nord nei rapporti dei diplomatici italiani, 1932-33, Einaudi, Torino 1991; G. Sokoloff (a c.), 1933, L’année noire. Témoignage sur la famine en Ukraine, Albin Michel, Paris 2000 e G. De Rosa e F. Lomastro, La morte della terra. La grande “carestia” in Ucraina nel 1932-33, Viella, Roma 2004). Un disegnatore italiano della “scuola bolognese”, è riuscito a farci vedere, con un graphic novel, questa tragedia inimmaginabile: Igort, Quaderni ucraini. Memorie dai tempi dell’Urss (Mondadori, Milano 2010).

Questo spiega perché quando i tedeschi, nel 1941, invasero l’Ucraina, molte persone li accolsero salutandoli con il pane e il sale, come dei “liberatori” (numerosi furono gli episodi di collaborazionismo: 30.000 ucraini combatterono assieme ai tedeschi, nella famigerata 14esima divisione Halychyna e alcuni dei più crudeli guardiani dei lager nazisti erano ucraini). In realtà l’occupazione tedesca fu, in quella regione, di una ferocia particolarmente spietata, non soltanto contro gli ebrei, ma contro tutta la popolazione civile considerata complice di un movimento di resistenza partigiana sembre più forte ed eroico.

Alla fine della guerra, l’Ucraina contò 8 milioni di morti (di cui: 1,5 milioni ebrei) e 2 milioni di deportati come schiavi (200.000 rimasero in Occidente). Se ad essi si aggiungono i 7 milioni di morti tra deportazioni, fucilazioni e fame, si ha un quadro del costo enorme di vite che furono spezzate durante quindici anni in quella regione. Dopo la guerra mondiale, si protrasse fino al 1950 una strisciante, e violenta, guerra condotta dall’esercito e le forze di sicurezza russe contro le formazioni clandestine dell’UPA, l’ala militare dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini, fondata il 14 ottobre del 1942, guidata dal generale antisemita Roman Shukhevich. Dalla fine della guerra alla morte di Stalin (1953) 500.000 ucraini vennero deporti in prigioni o in campi di lavoro (Gulag).
Il 26 aprile del 1986 una nuova tragedia si abbattè sull’Ucraina: esplose il reattore 4 della centrale atomica di Chernobyl (cfr. F. M. Cataluccio, Chernobyl, Sellerio, Palermo 2011, qui un video con la storia). I morti come risultato diretto dell’incidente  furono diecimila, ma quelli per le conseguenze delle radiazioni sono milioni (anche se la Russia ha sempre contestato i dati forniti da Greenpeace e dalle organizzazioni internazionali). Da questo episodio, che mostrò tutta l’inefficienza del potere sovietico, iniziarono a svilupparsi vari movimenti di opposizione che si raggrupparono, nel 1990, nel Rukh (Movimento Popolare per la Perestrojka) che ebbe un notevole risultato nelle elezioni locali e preparò la strada al distacco dall’URSS.

Il 24 agosto 1991 l’Ucraina proclamò l’indipendenza, passando da “membro della famiglia delle nazioni sovietiche” a stato sovrano e iniziando un lungo, e non privo di intoppi, cammino verso la democrazia. Nel 1996, l’ala riformatrice del Parlamento (Verhovna Rada), impose una nuova Costituzione: nel dicembre del 2004 l’Ucraina divenne una Repubblica parlamentare.
L’Ucraina divenne così, nel bene e nel male, un paese “normale e democratico”. Però, pochi individui, appartenenti per lo più alla vecchia oligarchia del Partito Comunista, si impadronirono delle ricchezze del paese e riuscirono in pochi anni, grazie anche alla dilagante corruzione, ad accumulare enormi fortune economiche. Come molte altre città dell’Est europeo, frustrate e umiliate per lungo tempo, Kiev si è riappropriata negli ultimi anni della vita, intesa nel senso più abbagliante, superficiale ed effimero: esteriorità e trionfo del denaro, col quale pare di poter ottenere qualsiasi cosa. Il risultato è spesso piuttosto volgare, sfacciato, con un sentore di falso. Malinconicamente vitalistico. Il carnevale del sesso facile post sovietico, oltre che un rapido mezzo per far soldi, rappresenta anche un diffuso desiderio di oblio: si dimenticano le tragedie del passato in una sorta di orgia che esclude però la maggioranza della popolazione, che continua a impoverirsi (anche se in misura minore che in passato).

Negli anni assume una dimensione molto considerevole il fenomeno di donne ucraine che vanno a lavorare (come badanti, cameriere, infermiere) nei paesi occidentali. Lasciano a casa il marito e i figli, mantenedoli con una parte del loro salario (200 dollari, al mese, in Ucraina, sono una grossa cifra). Soprattutto nei piccoli paesi si nota uno strano spopolamento: soltanto giovani, anziani e uomini soli che, nella maggior parte dei casi, non lavorano più e affogano nell’alcool il proprio senso di inutilità.

La mafia ucraina controlla quasi tutto il più grande boss mafioso della storia, secondo la rivista Time, non è italiano né italo-americano, bensì ucraino: si chiama Semion Judkovyč Mogilevyč. Nato a Kiev nel 1946, da una famiglia della media borghesia ebraica, si laureò a 22 anni in Economia all’università di Leopoli. Agli inizi degli anni Settanta, non si sa bene come, divenne membro, a Mosca, del gruppo criminale Lyuberetskaya. Quando, negli anni Ottanta, più di 10.000 ebrei ucraini e russi emigrarono in Israele, Mogilevyč dette loro la possibilità di mutare i loro oggetti preziosi in denaro che avrebbero poi trovato nella nuova patria. Nel 1990, ormai milionario, grazie a fruttuosi investimenti in attività come mercato nero, prostituzione e droga, anche lui si trasferì in Israele, con alcuni dei suoi collaboratori.

Sposatosi, nel 1991, con una certa Katalin Papp (dalla quale ha avuto tre figli), si stabilì in Ungheria, ottenendone subito la cittadinanza e andando ad abitare in una lussuosa villa fortificata alla periferia di Budapest. Là divenne proprietario della fabbrica di cannoni e missili antiaerei «ArmyCo-Op». Nel 1994, il gruppo di Mogilevyč ottenne il controllo della Inkombank, una delle maggiori banche private della Russia. La banca fallì nel 1998, ma grazie ad essa egli conquistò una quota significativa della fabbrica di armamenti russa Sukhoi. Braccato dalle polizie di mezza Europa e considerato da molti paesi «persona non gradita», Mogilevyč si trasferì in Canada prendendo il controllo, con altri membri della mafia russa, della Toronto Stock Exchange (TSX). Il 24 gennaio del 2008 fu arrestato a Mosca per sospetta evasione fiscale, ma un anno e mezzo dopo fu liberato. Il Ministro degli esteri russo dichiarò che «le accuse contro di lui non sono di natura particolarmente grave». È considerato invece dall’FBI uno dei criminali più pericolosi in circolazione ed è stato soprannominato, per la sua grande intelligenza, «brainy don» (il don con il cervello). Come ha notato, nel 2002, Jurij Andruchowycz, il più grande poeta e scrittore ucraino di oggi: «Dopo Chernobyl ci è caduta in testa la mafia ucraina con tutto il suo peso negativo, non soltanto sotto forma di omicidi e attentati. La corruzione è lo stato permanente dei rapporti tra le persone, la prostituzione un fenomeno assolutamente normale. Il mercato delle donne è uno dei lavori più redditizi».

Dal gennaio 2005, la vicenda politica ucraina si è radicalizzata e complicata, venendo monopolizzata da due strani personaggi: l’ex funzionario della banca centrale, Viktor Juščenko, filo-occidentale (subì anche un tentativo di avvelenamento con la diossimna, ad opera dei servizi segreti), e il politico filo-russo, con condanne penali, Viktor Janukovyč, leader del Partito delle regioni. Juščenko vinse di stretta misura le elezioni del 26 dicembre, sospinto dalla mobilitazione popolare della cosidetta Rivoluzione Arancione (dal colore delle bandiere e delle coccarde), guidata dalla discussa oligarca Julija Volodymyrivna Tymošenko (1960), divenuta poi leader dell’Unione di Tutti gli Ucraini “Patria” e del Blocco Elettorale Julija Tymošenko. Dal 2005 al 2010, Juščenko fu Presidente della Repubblica, e la Tymošenko, dal 2007 al 2010, fu primo ministro (prima donna a ricoprire questa carica in Ucraina). In quegli anni, l’Ucraina si avvicinò molto all’Occidente, preoccupando sempre di più Mosca.

Alle elezioni presidenziali del 2010, la Russia appoggiò con tutti i mezzi Janukovyč, che vinse, al ballottaggio, contro la Tymošenko (Juščenko venne sconfitto al primo turno, ricevendo solo 5,45% dei voti). Con Janukovyč il potere si è fatto più autoritario (la sua ex avversaria è stata processata e imprigionata) e l’Ucraina si è avvicinata maggiormente alla Russia. Senza però abbandonare l’aspirazione a entrare in Europa. Ma le solite, estenuanti, indecisioni e prudenze europee (già viste all’opera nei confronti della Turchia) hanno portato, alla fine, il Presidente a rifiutare di firmare un accordo di associazione dell’Ucraina all’Europa, fondamentale per la sopravvivenza economica del Paese, in favore di un prestito russo concesso dal Presidente Putin che legava ancora di più il Paese alla Russia. Questa è stata la causa scatenante delle proteste popolari (nella parte occidentale del paese) che hanno portato, nel novembre 2013, all’occupazione da parte dei “manifestanti filo-europei” della Piazza Indipendenza (Maidan: gigantesco “capolavoro” dell’architettura staliniana), nel centro di Kiev. Ulteriore motivo di protesta per la popolazione è stato il rapido accrescimento di ricchezze che ha visto i figli e i parenti prossimi di Janukovyč diventare miliardari mentre l’economia del Paese si indeboliva. Inoltre, alcuni comparti industriali ucraini sono stati delocalizzati in Russia e vasti territori agricoli venduti alla Cina: paese che invia in Ucraina la propria manodopera, a discapito di quella locale, creando ampie sacche di disoccupazione e malcontento in aree rurali dell’Ucraina.

Nel gennaio 2014 gli scontri di piazza si sono fatti sempre più violenti e le barricate più alte e meglio organizzate. Fanno la loro comparsa, tra i manifestanti, gruppi paramilitari nazionalisti. Ma la maggioranza della piazza non sposa le loro posizioni politiche, né tantomeno il loro proclamato antisemitismo). Polizia, manifestanti e cecchini anonimi appostati sui tetti iniziano a sparare. Si contano alla fine circa 150 morti (7 tra i poliziotti) e più di 1000 feriti. Il 22 febbraio i manifestanti chiedono le dimissioni di Janukovyč che, ormai circondato, fugge dalla capitale, rifugiandosi vicino al confine russo. Con lui scappano anche il presidente del Parlamento e il ministro dell’Interno, che lasciano i loro incarichi. Il palazzo presidenziale è assaltato dai manifestati. La Tymošenko viene liberata e torna a parlare alla piazza (anche se non tutti i manifestanti sembrano disposti a dimenticare la sua “politica non limpida”. In sostituzione il Parlamento nomina presidente del Parlamento e premier “ad interim” Oleksandr Turčinov, ex vice presidente dell’Unione degli industriali e degli imprenditori ucraini ed ex capo dei servizi segreti (nel 2005: primo civile ad aver ricoperto quella carica), braccio destro della Tymošenko.

L’atmosfera nel paese, anche per le ingerenze pesanti della Russia, si va surriscaldando, fino a gesti simbolici abastanza paradossali: ad esempio, uno dei primi decreti del nuovo governo (che ha scatenato le proteste della parte orientale del paese) è stato quello di abolire la lingua russa come una delle lingue dell’Ucraina. Si fa finta di ignorare che i più grandi scrittori russi del Novecento siano ucraini, che hanno scritto i loro capolavori in russo: Babel’ (L’ armata a cavallo); Bulgakov (Il Maestro e Margherita); Grossman (Vita e destino).
La politica ucraina mostra ancora una volta il suo straordinario trasformismo che non permette ai cittadini (e tanto più agli osservatori occidentali) di capire quali siano realmente le forze in gioco. Intanto la Russia si muove per mettere al sicuro, se necessario anche con la forza, le sue basi navali in Crimea (dove il 10 per cento della popolazione è composta da tartari, di religione mussulmana), e le regioni orientali, dove ci sono le ricche miniere di carbone, minacciano la secessione da Kiev.

Agli inizi del mese di marzo, la presenza dei militari russi nella penisola di Crimea è salito fino a 22.000 unità (mentre, secondo gli accordi tra Ucraina e Russia del 1991, il limite dovrebbe essere 12.500). In pochi giorni, i militari russi sono usciti dalle loro caserme, e hanno occupato i punti strategici della penisola. Il parlamento della Repubblica di Crimea ha proclamato l’indipendenza dall’Ucraina e ha indetto un referendum per l’annessione alla Russia. Nello stesso tempo, nella parte orientale dell’Ucraina (dove si è “rifugiato” il deposto presidente Janukovyč) i “filorussi” hanno indetto manifestazioni contro il “colpo di stato” che si sarebbe compiuto a Kiev ad opera di “forze fasciste”. Non tutti i russi che stanno in Ucraina intendono però finire sotto il controllo di Mosca (un’Ucraina aperta all’Occidente pare loro, infatti, preferibile alla Russia di Putin). E proprio nella capitale russa il 14 marzo, 50.000 russi hanno sfilato con le bandiere ucraine contro la politica aggressiva del governo di Putin. Il referendum si è tenuto domenica 16 marzo e ha visto, con molti sospetti di brogli, la vittoria, con il 93% dei voti, di coloro che vogliono ricongiungersi alla Russia. Le piazze della penisola hanno festeggiato quella che è stata presentata come una “liberazione”, con balli e canti fino a tarda notte (è stato ingaggiato anche l’italiano Riccardo Fogli che ha cantato la canzone Lasciami andare).

La penisola di Crimea torna quindi alla Russia, che l’aveva conquista nel XVIII secolo con l’imperatrice Caterina. Le basi strategiche della marina russa non vengono più messe in discussione e la maggioranza della popolazione, che si sente comunque russa, è “al sicuro a casa propria”. Non è invece tranquillo il 10 per cento della popolazione tartara, né la minoranza ucraina, né i russi che preferiscono essere indipendenti (molti dei quali non sono andati a votare). La comunità internazionale, impotente, ha deciso sanzioni economiche per punire la Russia, nella speranza, comunque, che si accontenti della Crimea. Si andrebbe invece incontro a una catastrofe se l’esito di questa crisi (risolta con i militari e il referendum) dovesse moltiplicare, nella parte orientale dell’Ucraina, le spinte secessioniste filorusse, e l’“appetito” di Putin non si placasse (come non si placò quello di Hitler, fanno notare i preoccupati nuovi dirigenti ucraini, quando, nel 1938, l’Europa gli permise di prendersi i Sudeti ai danni della Cecoslovacchia).

Foto: Un bambino in cima al monumento che simboleggia l’amicizia tra il popolo russo e quello ucraino a Kiev, nel 1994. (SERGEI SUPINSKY/AFP/Getty Images)