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  • Mercoledì 5 febbraio 2014

La storia di Farisa, affidata a due papà

La bambina affidata circa un anno fa dal Tribunale di Bologna a una coppia omosessuale, per la prima volta: come sta e perché la sua storia è diversa dalle altre

Su Repubblica di oggi Carlo Verdelli racconta la storia di Farisa, bambina originaria del Corno d’Africa e affidata il 18 febbraio del 2013 dallo Stato italiano a una coppia omosessuale. Ci sono tanti bambini in Italia con genitori gay, con due mamme o due papà, ma la vicenda di Farisa è eccezionale perché in questo caso è stato lo Stato a decidere di affidarla a due uomini. L’affido familiare è un provvedimento temporaneo che serve a dare accoglienza a minori che si trovano in situazioni di instabilità familiare: è aperto anche ai single e non prevede l’esclusione dei genitori naturali. È una “supplenza a termine”, come spiega Verdelli, “nell’attesa che la famiglia naturale possa trovare un equilibrio temporaneamente compromesso”. A un anno di distanza, il presidente del tribunale di Bologna dice che la bambina sta bene e spiega il motivo di quel provvedimento.

Farisa ha una storia come tante e diversa da tutte. È una delle infinite bambine d’Africa migrate altrove. Ma è anche l’unica bambina affidata dallo Stato italiano a una coppia di maschi gay. È successo giusto un anno fa, il 18 febbraio 2013, in Emilia. È risuccesso nel dicembre scorso a Palermo, ma lì si trattava di un ragazzo diciassettenne, c’era da risparmiargli l’ultimo anno in istituto prima della maggiore età, i signori che l’hanno preso in carico erano regolarmente iscritti al registro delle coppie di fatto del Comune e non c’era la coda, diciamo così, per occuparsi di un quasi diciottenne con alle spalle una storia familiare tormentata. La vicenda di Farisa ha una valenza molto più potente e dirompente. Perché è la prima da sempre nel nostro Paese, e poi perché lei è proprio piccola, dentini da latte, neanche quattro anni. E quando i giudici di Bologna, sfidando un tabù grande come una montagna ma non la legge, hanno pensato che per quella mini minorenne la cosa migliore fosse quella di trasferirsi a casa di Maurizio e Daniele, molta Italia è inorridita di spavento.

Che destino potrà mai avere quella bambina? Come si fa a metterla in mano a due omosessuali? E dove finiremo se persino l’ultima trincea della normalità, la presenza di una donna accanto a una creatura, viene divelta, oltraggiata, da scelte e sentenze contro natura?

Farisa non può essere la risposta a tutte queste domande. Ma il suo caso, se guardato da vicino pur con la necessaria discrezione (nomi e luoghi sono stati camuffati per non turbare la pace fragile dei protagonisti), qualcosa insegna. Per esempio, sul diritto dei più piccoli alla felicità, al di là delle convinzioni profonde e anche in buona fede di un Paese o di una cultura, al di là dei fondamenti della psicoanalisi o della religione.

Riavvolgiamo il nastro della storia. Una coppia del Corno d’Africa, una prima figlia con problemi di salute, la ricerca di una diversa fortuna, il trasferimento in Belgio, dove mamma Zuna concepisce Farisa, sei anni dopo la sorella. Poi, altro tentativo di sopravvivenza, questa volta in Italia, ma non funziona granché: il padre torna per lunghi periodi nei cantieri di Bruxelles, la madre si perde un po’ e finisce in una comunità di assistenza con le due figlie. Entra e esce, i servizi sociali bolognesi le trovano un alloggio. È vicino a quello di due uomini sui 40 anni, che fanno coppia da 10 e convivono da 6: Maurizio è architetto, Daniele lavora nell’informatica. Con tutta evidenza si amano, forse desidererebbero anche un figlio da crescere insieme. Sempre più coppie omosessuali, d’altronde, stanno saltando il fosso della genitorialità. Migliaia, dicono. In crescita, assicurano. All’estero, però, visto che in Italia è proibito. Fecondazione artificiale per le lesbiche, gestazione di sostegno per i gay (una donna che presta ovulo e grembo, possibile però solo in Canada e Stati Uniti). Si chiamano “Famiglie arcobaleno”, sono un’associazione, hanno un sito, chiedono il 5 per mille per sostenere la loro battaglia.

(Continua a leggere l’articolo di Repubblica)