La privatizzazione di Poste Italiane

Privatizzazione assai parziale: che cos'è, come funziona, cosa dovremmo guadagnarci e perché alcuni la criticatano

Venerdì 24 gennaio il governo ha approvato un decreto ministeriale per regolare la vendita del 40 per cento delle azioni di Poste Italiane, la società di proprietà del ministero del Tesoro che gestisce il servizio postale italiano, ma che si occupa anche di raccogliere il risparmio dei privati (in modo non troppo diverso da una banca) e offrire servizi assicurativi. Secondo il ministro dell’Economia la vendita delle quote di Poste Italiane potrebbe fruttare tra i 4 e i 4,8 miliardi di euro che saranno utilizzati per ridurre il debito pubblico.

I dettagli dell’operazione non sono ancora del tutto chiari. Secondo il viceministro allo Sviluppo economico Antonio Catricalà, per vendere le quote saranno necessari circa 5-6 mesi e l’operazione dovrebbe essere conclusa entro la fine dell’anno. Il Corriere della Sera ha scritto che probabilmente una quota intorno al 50-60 per cento delle azioni sarà venduta a investitori istituzionali (banche, fondi pensioni, fondi di investimento), circa il 5 per cento sarà riservato ai dipendenti (che dovrebbero ricevere qualche forma di sconto o incentivo all’acquisto). La parte restante sarà collocata alla clientela “retail” (cioè gli altri investitori privati).

Poste Italiane è una società con 145 mila dipendenti e 24 miliardi di euro l’anno di fatturato. Di questi, soltanto un quinto arriva dall’attività postale vera e propria e tutto il resto deriva invece dall’attività finanziaria (tutte le attività che fa Banco Posta, ad esempio, e le attività assicurative). L’utile netto è pari a 1 miliardo, ma bisogna considerare che ogni anno la Cassa Depositi e Prestiti (CDP, una specie di grande banca semi-pubblica spiegata qui), paga alle Poste 1,6 miliardi come “commissione” per poter gestire il risparmio raccolto da Poste Italiane (circa 45 miliardi l’anno).

L’operazione di vendita non è una vera e propria “privatizzazione”. Lo stato manterrà il controllo della società, mentre ai privati viene richiesto di entrare nel capitale, ma senza poter prendere decisioni e guidare l’azienda. Quello che i privati otterranno saranno i dividendi delle azioni. In cambio del versamento di 4-5 miliardi, potranno contare sul 40 per cento di quel miliardo che ogni anno Poste Italiane incassa.

Il ricavato dalla vendita, inoltre, è una frazione veramente piccola del debito pubblico (lo 0,45 per cento). Soprattutto per un paese con un debito pubblico grande come quello italiano, una privatizzazione che portasse a una riduzione così bassa del debito pubblico dovrebbe porsi altri obiettivi, come ad esempio creare un mercato più efficiente. Secondo alcuni commentatori l’operazione iniziata dal governo non renderà affatto più efficiente il mercato. Poste Italiane gode al momento di una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti (sia quelli che effettuano servizi postali sia quelli che effettuano servizi bancari e assicurativi). Ad esempio, i prodotti postali hanno delle importanti esenzioni IVA. Come abbiamo visto, Poste gode di un rapporto privilegiato con la CDP e riceve varie compensazioni pubbliche. Tutti questi fattori, segnalati sia dall’Antitrust che dalla Commissione Europea, rendono Poste Italiane un’azienda che produce utili grazie a una posizione forte e privilegiata nel mercato (e che la rende quindi, potenzialmente, un’azienda poco efficiente).

Ma se il governo ha intenzione di venderne una parte per fare cassa, non può modificare nessuno di questi privilegi, altrimenti rischia di pregiudicare la redditività dell’azienda e scoraggiare gli investitori a partecipare all’acquisto. D’altro canto, mettere in vendita un’azienda che fa redditività grazie a sconti e altri aiuti pubblici rischia di non rendere il mercato più efficiente. Come ha riassunto Ugo Arrigo, professore di economia all’università Bicocca di Milano:

La redditività delle Poste si basa su tre pilastri fondamentali, nessuno dei quali è di mercato: compensi pubblici per la raccolta del risparmio, compensazioni pubbliche per il servizio universale e il fatto di svolgere servizi bancari utilizzando personale che gode di un contratto molto meno favorevole di quello dei bancari. Poiché solo lo Stato può garantire la permanenza nel tempo di questi tre pilastri, la privatizzazione parziale avrebbe per oggetto non un’azienda di mercato bensì un’azienda a redditività di Stato.