Dove vanno a finire i rifiuti tecnologici

Un reportage fotografico dai centri dove vengono smaltiti illegalmente i dispositivi elettronici che non usiamo più, con conseguenze devastanti su persone e territorio

di Giovanni Zagni – @giovannizagni

Qingyuan, China
Un laboratorio a conduzione familiare dove i lavoratori smontano separano i componenti di differenti articoli.
A causa dei controlli da parte del governo negli ultimi mesi, molti laboratori sono stati chiusi
(Valentino Bellini, Bit Rot Project)
Qingyuan, China Un laboratorio a conduzione familiare dove i lavoratori smontano separano i componenti di differenti articoli. A causa dei controlli da parte del governo negli ultimi mesi, molti laboratori sono stati chiusi (Valentino Bellini, Bit Rot Project)

Nel grande centro di riciclaggio di Huaqing, nella provincia di Guangdong, nel sud della Cina, tremila operai lavorano al riciclaggio del materiale elettrico ed elettronico. L’impianto di Huaqing è tra i più grandi della Cina, secondo solo a quello di Pechino. Enormi magazzini sono pieni da anni di televisori e vecchi schermi di computer, nell’attesa che l’impianto venga ampliato con un nuovo settore che si occupi di quel particolare tipo di rifiuti. L’ingresso di rappresentanza dell’impianto è grande e moderno, con una lucida hall che non ha niente da invidiare a un albergo occidentale. Tutto il materiale elettronico che viene riciclato a Huaqing proviene dalla Cina: la legge proibisce dal 2002 l’importazione dall’estero di rifiuti elettronici, i cosiddetti e-waste.

A due ore di macchina verso sud dall’impianto di Huaqing si trova il porto di Hong Kong, uno dei più trafficati del mondo. Per le sue enormi banchine passano ogni giorno decine di migliaia di container, che trasportano ogni genere di merce e di materie prime. Molti trasportano, illegalmente, anche i computer, i televisori, i telefoni cellulari e gli elettrodomestici che i paesi occidentali gettano via ogni anno in enormi quantità – circa 150 mila computer al giorno nei soli Stati Uniti. Nei primi dieci mesi del 2007 le autorità doganali di Hong Kong hanno sequestrato 24 container che trasportavano illegalmente schermi TV e computer usati, per un totale di oltre 200 tonnellate, ma gran parte dei rifiuti non viene intercettata.

Il progetto BIT ROT, del fotografo italiano Valentino Bellini, mostra cosa succede a questi rifiuti quando arrivano nei centri di riciclaggio. Il progetto è ancora in corso, va avanti da due anni: Bellini ha visitato e fotografato le quattro principali destinazioni del flusso di rifiuti elettronici illegali. Nonostante la convenzione di Basilea del 1989 vieti da oltre vent’anni l’esportazione dell’e-waste dai paesi ricchi a quelli in via di sviluppo, circa tre quarti dei rifiuti elettronici dei paesi più ricchi – Stati Uniti ed Europa in testa – viene caricato su navi portacontainer, registrato come “rifiuti ferrosi” o mischiato a carichi legali, come auto usate, e spedito in paesi in via di sviluppo, in primo luogo Cina – il maggior importatore mondiale – India e Africa occidentale.

I rifiuti elettronici sono estremamente pericolosi per l’ambiente: hanno bisogno di luoghi adeguati e processi di smaltimento tecnologicamente complessi. L’iniziativa StEP, promossa dalle Nazioni Unite, ha reso disponibile pochi giorni fa una mappa interattiva e in aggiornamento per visualizzare, paese per paese, la quantità di beni elettrici ed elettronici prodotti e i rifiuti generati, oltre a dare una panoramica sulle legislazioni nazionali sul tema. Secondo le stime di Jaco Huisman dell’Università delle Nazioni Unite, l’Italia ha prodotto nel corso del 2012 oltre 17 chili di rifiuti elettronici per abitante, per un totale di circa un milione di tonnellate. In totale, le stime dicono che ogni anno vengono gettati via, nel mondo, circa 50 milioni di tonnellate di vecchi computer.

Nella giungla al confine tra Hong Kong e Shenzhen, in territorio cinese, sono nascosti i depositi in cui i rifiuti elettronici vengono stoccati in attesa di essere trasportati in «decine di siti di trattamento dell’e-waste illegale». Si passa quindi dai tremila operai che lavorano nell’impianto di Huaqing, con i suoi hangar e i suoi ingressi da multinazionale, alle «piccole attività di riciclaggio in cortili privati, gestite da centinaia di famiglie arrivate dalle province rurali in cerca di guadagni più sicuri e durevoli; e le grandi società non vogliono mostrare il loro lavoro, a causa dei controlli del governo – inadeguati e incostanti – e delle multe che possono imporre».

I rifiuti elettronici hanno una caratteristica particolare: contengono sostanze estremamente pericolose, insieme a numerosi elementi preziosi. Tra le sostanze più tossiche c’è il cadmio, utilizzato nei vecchi schermi per computer a tubo catodico, che crea danni ai reni e alle ossa; oppure le plastiche come il PVC, utilizzato nei circuiti stampati e nei cavi, che rilascia diossina quando viene bruciato o disperso nell’ambiente. Gli schermi piatti contengono mercurio, pericoloso per il sistema nervoso; altre sostanze tossiche contenute nei materiali elettronici sono il piombo e il berillio.

A meno di duecento chilometri dal porto di Hong Kong, percorrendo verso est la costa meridionale della Cina, si trova la città di Guiyu, il più grande centro di riciclaggio dell’e-waste del mondo. I rifiuti elettronici passano il confine in camion o in nave e arrivano in questa zona, dove circa centomila persone, per la maggior parte immigrati interni che hanno lasciato province agricole povere e distanti come il Guangxi, lo Hunan e il Sichuan, lavorano in piccole imprese familiari alla gestione di rifiuti – e a volte di oggetti nuovi e inutilizzati, facendo nascere sospetti sulle multinazionali produttrici – che legalmente non si potrebbero trovare lì.

Ma almeno dalla metà degli anni Novanta i rifiuti elettronici sono cominciati ad arrivare, in quantità che superano il milione di tonnellate ogni anno – il 2 per cento del totale mondiale: e vengono gestiti con metodi rudimentali, come togliere manualmente i microchip dai circuiti elettrici dei frigoriferi o degli schermi TV, bruciare all’aria aperta alcuni componenti per estrarre il rame, usare bagni acidi per togliere l’oro. Chi lavora nei cortili di Guiyu guadagna una decina di dollari al giorno. Dopo che tutto il recuperabile è stato recuperato, ogni sera le rive del fiume Lian, un piccolo corso d’acqua che si getta nel Mar Cinese Meridionale, si accendono roghi degli scarti da cui non si può più ottenere nulla.

Le tecniche più artigianali si concentrano di solito sui pochi elementi preziosi riutilizzabili più facilmente, come l’oro e il rame, mentre tutto il resto viene scartato e gettato via. Ma il telefono cellulare che la maggior parte di noi tiene in tasca è una specie di viaggio nella tavola periodica. Oltre ai già citati oro e rame, ci sono un’altra quarantina di elementi che si trovano in un normale telefono cellulare, tra cui argento e palladio (presenti in pochi milligrammi), cobalto (nelle batterie agli ioni di litio) ed elementi rari come l’indio e l’antimonio. La diffusione dei telefoni cellulari, venduti nell’ordine delle decine di milioni di pezzi ogni mese in tutto il mondo, ha avuto conseguenze importanti anche nell’estrazione e nella domanda mondiale tutti per quei metalli: oltre l’80 per cento per cento del rutenio estratto nel mondo, per esempio, serve alla produzione di dischi rigidi.

Le conseguenze dello smaltimento artigianale dell’e-waste sono devastanti per la popolazione di Guiyu, così come per l’ambiente. Uno studio della vicina università di Shantou ha misurato i livelli del piombo nel sangue di 165 bambini di quattro villaggi della zona, di età compresa tra uno e sei anni, e ha trovato che l’82 per cento di loro aveva aveva livelli considerati dannosi. La zona ha già i livelli di diossine cancerogene più alte del mondo, mentre l’acqua di Guiyu, compresa quella delle falde, è pesantemente inquinata da cromo, piombo e zinco.

Il cambiamento più importante degli ultimi mesi riguarda la provenienza dei materiali: a metà dicembre l’iniziativa StEP ha annunciato il sorpasso delle economie emergenti sull’Occidente – Cina in testa, ma anche Tailandia, Malesia e paesi africani – nella produzione di rifiuti di materiale elettronico. Ad aprile del 2012 Adam Minter, un autore che si occupa da tempo del tema e ne scrive sul suo blog Shanghai Scrap, ha stimato che circa metà dei rifiuti che si processano a Guiyu provengano dalla stessa Cina.