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  • Giovedì 19 dicembre 2013

«Vita dura io ho»

Il nuovo libro di Franco e Andrea Antonello: un padre, un figlio e la loro vita con l'autismo

Feltrinelli ha pubblicato il libro Sono graditi visi sorridenti, di Franco Antonello e suo figlio Andrea. Il libro esce un anno e mezzo dopo il successo di Se ti abbraccio non aver paura, in cui Franco raccontava il viaggio in moto negli Stati Uniti con il figlio Andrea, all’epoca adolescente, a cui era stato diagnosticato l’autismo da quando aveva tre anni. In “Sono graditi visi sorridenti”, Franco Antonello racconta la storia della sua vita prima e dopo la nascita di Andrea e della scoperta della sua malattia, e le sue battaglie per fargli vivere una vita il più possibile simile a quella di un ragazzo qualsiasi: andare a scuola, riuscire a scrivere, andare a un concerto. Il racconto della sua vita è intervallato dai dialoghi con Andrea, che esprime i suoi pensieri e le sue sensazioni sull’autismo. In questo estratto Franco Antonello racconta uno dei tanti incontri – in questo caso con uno sciamano brasiliano – fatti nella speranza di trovare una guarigione alla malattia del figlio.

***

“Sei sicuro che vuoi andare?”
“Ci stavamo divertendo!”
Gli amici protestano, ma io sono fermo nella mia decisione: devo prendere un aereo e andare a Recife. Se fosse una cosa che funziona? Non mi perdonerei mai di non aver provato.
È stata un’amica di Bianca a parlarci di Claudio, uno sciamano brasiliano. Ormai da anni siamo immersi in questo marasma di esami e terapie, metodi e delusioni, e anche questo stregone non ci fa più effetto. Terapeuta o sciamano, esperto in manipolazione cranio-sacrale o esperto in voodoo: nomi e qualifiche si confondono nel turbine di un’unica certezza. Siamo disperati e nessuno ci aiuta. Questo Claudio perlomeno mi ha risposto subito, ha accettato di ospitarmi.
Quindi interrompo la vacanza brasiliana con i ragazzi, mi butto in spalla uno zaino con un paio di cambi e me ne vado a Recife, che dista due ore di aereo. Un sacrificio solo in parte, dato che è una tra le più antiche e belle città del paese: la Venezia brasiliana, la chiamano. Poteva andare molto peggio. E non solo, mentre il taxi mi conduce a casa di Claudio vedo che è ancora meglio di quanto pensassi. Non so ancora se sia un guaritore o un ciarlatano, ma ha un senso drammatico molto sviluppato. La sua casa sorge in cima a un promontorio, a cui si accede per una stradina stretta e ripida, come per andare al rifugio della strega nei cartoni animati, che mette a dura prova il motore spompato del taxi. A ogni tornante mi chiedo se mi toccherà scendere a spingere, oppure precipitare nella scarpata, ma ho fatto torto al tassista. Quando mi recapita sano e salvo davanti a casa di Claudio, mi scuso di aver pensato male. Alza le spalle.
“Ho già portato altra gente qua.”
“Ah. E com’è andata? No, cioè, dico… Sono andati via contenti?”
Lui mi guarda con occhi vecchi quanto le scogliere, nella faccia raggrinzita, e sembra stia per dire qualcosa, poi alza di nuovo le spalle.
“Va’ com Deus,” dice solo e riparte sollevando un polverone di terra secca.
Mentre si posa il piccolo turbine di sabbia e gas, mi guardo intorno. Sopra di me, il cielo. Azzurro, scintillante. Sotto di me, ai piedi di un faraglione a picco, il mare. Azzurro, scintillante. C’è il silenzio delle grandi occasioni.
L’unica nota stridente è la casa, modesta a dir poco, non una capanna, certo, ma un edificio approssimativo, i soliti quattro muri di mattoni che si tengono su a vicenda. Mentre la guardo ne esce, le braccia tese in un gesto espansivo di benvenuto, un tizio che avrà circa la mia età, circa la mia statura, circa i miei capelli, lunghi, ma i suoi sono raccolti in una coda di cavallo. Ed è tutto vestito di bianco. Anche se mi si sta avvicinando come se volesse abbracciarmi, gli tendo la mano. Non esageriamo. Si ferma incerto poi me la stringe, a lungo.
“Benvenuto, Franco. Hai fatto buon viaggio?”
“Buono, grazie. E grazie di aver accettato di vedermi. Sai, io…”
“Non ringraziare, figurati,” mi interrompe in fretta. “Entra, ti faccio vedere la tua stanza. Magari vuoi farti una doccia, cambiarti… Metterti a tuo agio.”
Lo seguo all’interno della casa che, perlomeno, è ordinata e pulita, le finestre aperte lasciano entrare l’aria di mare.
“Hai scelto una posizione proprio bella, per la tua casa,” osservo.
“E vedrai di notte,” ribatte.
È una mia impressione o ha uno sguardo un po’ insinuante? È una mia impressione, certo.
A dir la verità, mi sono già stancato dei convenevoli e vorrei saltare anche la doccia e parlargli subito di Andrea, chiedergli se davvero può fare qualcosa, e cosa, e in quanto tempo. Ma mi sembra di sentire la voce di Bianca nella mia testa, che mi dice di stare calmo, di essere cortese, di lasciare tempo al tempo. E in effetti ci arrivo anche da solo che non posso aggredire subito con i miei problemi questo tizio che ho conosciuto sette minuti fa. Ma quando scendo neanche un’ora dopo, e lo trovo lì di fianco a una tavola imbandita, attacco subito.
“Come ti ho scritto, vedi, io ho un figlio. Fino a due anni e mezzo tutto normale: il bambino più sano e amichevole del mondo. Poi…”
“Ricordo tutto quel che mi hai scritto, sì.” Con un mezzo sorriso, mi fa cenno di sedermi. Ha mani sorprendentemente curate. “Adesso però sei stanco del viaggio e non è il momento di parlare. Prima assaggia qualcosa.”
Guardo l’assortimento alquanto colorato disposto sul tavolo e mi colpisce subito una stranezza: sono porzioni relativamente piccole, per l’ospitalità di questo paese, ma di una varietà impressionante. Ci saranno almeno trenta tipi di frutta, verdura, carne, pesce, e poi un paio di ciotole di zuppa, del formaggio, del miele.
“Prendi un po’ di questo.” Mi porge una fetta di melone, avvicinandomela alla bocca. Le sue dita mi sfiorano la mano.
“Un melone molto dolce,” annuisco, un po’ in imbarazzo. Non sono molto bravo a fare complimenti ai cibi, e vorrei parlare d’altro anche se non avessi un argomento così impellente come il problema di Andrea.
“E ora, prendi uno di questi.” Appena finisco di masticare, mi mette in mano quella che sembra una tartina con un’acciuga. Esito, interdetto. A parte che non mi piace essere imboccato così, come un neonato: ma l’acciuga dopo il melone?
“Sì, l’acciuga dopo il melone.” No, non mi ha letto nel pensiero. Non credo serva essere uno stregone per decifrare la mia espressione schifata. “Senti i due sapori, fino in fondo. Senti come sono diversi, come colpiscono in modo diverso i tuoi sensi. E ora prendi un po’ di questo.” Questo è latte. Dopo l’acciuga.
“Senti la differenza,” mi esorta Claudio, quasi sussurrando.

Va avanti così per un’ora e mezza che mi sembrano sette. Il cielo intanto si colora di indaco, spuntano le stelle, all’odore del mare si mischia quello inebriante dei fiori.
“Sperimenta quanto sono profonde le differenze, tra un gusto e l’altro, tra una consistenza e l’altra. La diversità, non l’uguaglianza, è la regola della vita,” dice la voce quasi ipnotica di Claudio mentre le sue mani da violinista mi porgono un boccone dopo l’altro. Sapori lontanissimi tra loro.
Ho anche bevuto parecchio, perché tra un morso di avocado e una maracuja, tra un gamberone e un formaggio stagionato, ci sono stati anche un vino rosso molto corposo, un liquore al caffè, una potentissima grappa probabilmente fatta distillando un cactus e non so più che altro. Non capisco se sono sazio o ho la nausea. Il mio anfitrione si scusa “per qualche minuto” e mi lascia solo a tu per tu con questa notte misteriosa.
Mi avvicino alla scogliera. Non è a picco come avevo pensato: un sentierino tra le rocce porta già fino a una piccola spiaggia ben riparata, dove ondeggia una barca. Mi sporgo un po’, vengo colto da una lieve vertigine, ma potrebbe essere l’alcol. Capisco ora cosa voleva dire Claudio con “E vedrai di notte”. Recife si trova sulla punta più a ovest del paese, e noi siamo all’estremità di Recife, a circa trenta chilometri a sud dalla città vera e propria. Qui, sul Capo di Sant’Agostino, protesi verso un altro continente, sembra di stare immersi nel mare. Se mi volto da una parte ai miei piedi, laggiù, vedo la città come dalla tolda di una nave. Scintilla, con le sue case, i ponti e le insegne. Dall’altra parte, il mare è nero e taciturno e intuisco l’Africa che ingombra l’orizzonte, lontano oltre le onde.
È uno spettacolo mozzafiato. Quassù, inchiodato tra cielo e mare, allargo le braccia in un senso di libertà mai provato prima. Ma subito mi compare davanti la faccina chiusa e tormentata di Andrea, e quasi mi vergogno di questo momento di piacere a contatto con l’infinito. Lui la libertà non sa neanche cosa sia. Lui è prigioniero dentro se stesso. E io sono qui per lui, per cercare di aiutarlo, mica per mangiare melone e guardare le stelle.
Sento i passi del mio anfitrione dietro di me e mi volto risoluto, di scatto.
“Dobbiamo parlare di Andrea,” dico.
In quattro giorni e tre notti, ne abbiamo parlato pochissimo. Me ne rendo perfettamente conto mentre percorro le strade di Rio, al ritorno da questa “digressione” nella mia vacanza.
Con Claudio abbiamo nuotato, fatto i tuffi, camminato, siamo andati al mercato in città. Abbiamo guardato il mare. Abbiamo passato almeno due ore ogni giorno in questo strano esercizio con i cibi, un sapore dopo l’altro, una consistenza dopo l’altra. Claudio sempre disponibile, sempre attento, sempre in ascolto. Ma in ascolto di qualcos’altro rispetto a quello che ero venuto a dirgli: dei miei sentimenti, più che delle mie parole. Sulle prime mi sono arrabbiato, per me e per Andrea, per il tempo che stavamo perdendo. Poi ho lasciato stare – non si può passare il giorno intero a cercare di affrontare un argomento che il tuo interlocutore chiaramente elude. A un certo punto ho ricordato un vecchio proverbio: “Dio ci ha dato due occhi, due orecchie e una bocca sola”. Che siano da usare nella giusta proporzione? Così, alla fine, mi sono abbandonato ai suoi discorsi ellittici, ai suoi silenzi densi, alle sue strane sedute gustative.
E la terza notte, come ogni sera lasciato solo sul promontorio, ho provato un’autentica sensazione di pace. Per la prima volta da anni. In piedi sopra quel picco, ero tutt’uno con lo sciabordio del mare e con il pulsare remoto delle stelle. Sotto di me, il sentiero che portava alla spiaggia scompariva nella notte. Ho pensato: e se fosse tutto qui? Se dovesse finire qui?
Circondato da questa solitudine immensa, mi sembra di poter capire meglio quella di Andrea, chiuso nel suo mondo. Ci vorrei stare io in un mondo così? Vivrei in un paese in cui nessuno mi saluta, anzi quando passo si girano? In cui la gente ride, canta, balla, fa l’amore ma io non posso? In cui c’è festa e io sono a casa, e nessuno ha tempo per me? Sempre solo?
Forse sarebbe meglio cambiare mondo.
L’abisso è lì, ed è lì per tutti, una facile strada verticale. Se la soluzione fosse venire qui al limite estremo di un continente e buttarsi giù? Lo farei, se fosse questa la condizione per far stare bene Andrea? Se, dopo tutte quelle monete gettate nelle fontane esprimendo il mio unico desiderio, ora toccasse farsi moneta, raggiungere il mare là sotto in un ultimo patto con il destino?
Ma non è quella, la via; quella rapida strada verticale. Sarebbe troppo semplice. Adesso, percorrendo le strade trafficate di Rio nella luce del mattino, un po’ mi vergogno dei pensieri e dell’esaltazione di quella notte intensa. E in parte ho l’impressione che le conversazioni ipnotiche di Claudio, a parlare di sensazioni, emozioni, diversità, non siano state solo una perdita di tempo, che mi abbiano portato da qualche parte. Dove, però?
Intanto, in questo taxi diretto dal dottor Fritz.
Non ne avevo mai sentito parlare, e sì che è uno dei personaggi più famosi del Brasile. O dei più folkloristici? L’originale dottor Fritz era un medico tedesco, il che, se contiamo tutti i nazisti che sono scappati in Sud America dopo la guerra, non è neanche un’idea irragionevole, storicamente. Meno plausibile è il fatto che questo strano chirurgo operi aprendo, asportando, tagliando e cucendo senza anestesia pazienti presi a caso in una folla di postulanti e fatti sedere su una semplice sedia, posta su un palchetto. Zac, zac, e in un amen sei guarito. Non morto dissanguato, o di infarto per il dolore, o di infezione. No: guarito.
Se non bastasse, il dottor Fritz ha un’altra particolarità. Non è una persona: è un ruolo, un po’ come il Dalai Lama. Si reincarna ogni cinque anni in un nuovo corpo. Perché dopo cinque anni muore, di morte violenta: incidente, omicidio, non importa. E quello che diventa il dottor Fritz sa subito due cose. La prima: che deve andare a Rio o a San Paolo e mettersi a operare. La seconda: che gli restano cinque anni di vita.
È una storia assurda quanto suggestiva, e come minimo ho dei dubbi su questo medico miracoloso. Ma ora, nel taxi, sarei disposto a credere anche al dottor Fritz, se potesse aprire la testa ad Andrea e asportargli quel blocco che gli mangia la voglia di vivere e la gioia di comunicare. Quindi sto andando a trovarlo.
“Chiedi a qualunque tassista in tutto il Sud America,” mi ha detto Claudio come unica istruzione. “E ti ci porterà.”
Non gli avevo creduto e invece il tassista non ha fatto una piega: “Claro, meu filho, vamos là,” e una svolta dopo l’altra mi molla nel pieno di una favela, ai piedi di un alto muro.

“Me espera aquí, por favor,” gli dico. Se no dove lo ritrovo un altro tassista, in questo dedalo di vicoli?
Entro in un cortile enorme, sabbioso, deserto. Esploro un po’ la zona prima di scorgere un essere umano a cui chiedere notizie. E ho un’amara delusione: non è qui. Trascorre tre giorni della settimana a Rio e gli altri tre a San Paolo, tornerà in questa città proprio dopodomani, il giorno in cui devo partire. Mi batto un pugno sulla coscia dalla delusione. Posso anche non essere propenso a crederci, ma ormai ero qui… Come premio di consolazione, l’uomo mi fa vedere la sedia su cui opera il grande mago-chirurgo. Una semplice sedia impagliata, come quelle delle cucine di campagna. Quando il dottor Fritz è qui il cortile si riempie, mi spiega includendo in un largo gesto esplicativo lo spazio intorno a noi. Uomini, donne, bambini. In piedi accanto alla sua sedia su un piccolo palco, il dottor Fritz chiama uno per uno i malati dalla folla. E poi via, comincia a lavorare di coltello. Taglia, asporta, sistema. E il paziente se ne va come nuovo.
Faccio davvero molta fatica a crederci. Ma il tizio che mi spiega la storia è uno che vive lì, non sa chi sono, perché dovrebbe mentirmi? Tutto è un po’ irreale, attorno a me. Come se il velo tra realtà e possibilità, in quel punto preciso del mondo, fosse sottilissimo. Facile da attraversare. Quel cortile vuoto che sembra echeggiare delle speranze di tanta gente che ci è passata mi ha suggestionato, mi rendo conto tornando in taxi all’appartamento dove ritroverò i miei amici. Costeggiamo la Lagoa, un lago nel centro cittadino di oltre sette chilometri e mezzo di circonferenza, con spiagge e chioschi delle bibite tutt’intorno. Guardo l’acqua scintillante, le case, le piante. Sto con la fronte appoggiata al finestrino, per non far vedere al tassista i miei occhi lucidi. Prima quei tre giorni strani, fuori dalla realtà, dopo i quali mi sembrava che, come nelle favole, nel mondo reale dovessero essere passati sette anni. Poi la leggenda del dottor Fritz e la visita al suo antro e al suo palcoscenico. Troppe emozioni, troppa intensità.
“Sto sbagliando tutto? Sto correndo dietro ai fantasmi?”
Non potrei dire che la visita a Claudio mi abbia fatto partire speranzoso. È stato sempre gentilissimo ma non risolutivo. Qualcosa di pratico alla fine me lo ha detto, a modo suo: sullo spiritismo, sulla comunicazione con i morti. Io con queste cose non ho, e penso non avrò mai, dimestichezza, ma siamo rimasti d’accordo che se torno lì con Andrea potrebbe portarmi in certi posti e si vedrà cosa succede.
Non è quello che si dice un piano a prova di bomba. D’altro canto, che Claudio non sia un campione del pragmatismo si è capito. L’unica volta che l’ho visto determinato è stato mentre cambiavamo una gomma che si era bucata andando in città.
“Vedi, dobbiamo essere ben felici di poter cambiare questa gomma,” mi spiegava mentre, inginocchiati nella sabbia, armeggiavamo con il cric. “Se non avessimo dovuto fermarci, magari dietro la curva ci aspettava un incidente con un camion. Forse questa gomma ci ha salvato la vita. Doveva bucarsi, per qualche ragione: e se non ci appare ovvia ora, prima o poi capiremo.”
Un modo come un altro di vederla. Io proprio non ce la facevo a essere grato al destino per una gomma bucata. D’accordo, poteva andarci peggio. Ma anche meglio: potevamo arrivare in città sani, salvi e tranquilli con la ruota intatta. Comunque anche lui non doveva essere tanto impassibile, in fondo: quello è stato l’unico giorno in cui l’ho visto perdere la calma. Con dei piccoli mendicanti, di tutte le possibili cause. Si affollavano intorno all’auto e infilavano le braccia nei finestrini aperti per avere qualche soldo, e mi stavo già mettendo le mani in tasca quando Claudio, fermandomi con un gesto imperioso, aveva preso a sgridarli molto duramente: “Ma che cosa fate! Che modo è! Non chiedete la carità, fate qualcosa… Qualsiasi cosa! Dipingete un sasso, fate una barchetta con una foglia, vendetemi quella! Ma non chiedete soldi così, senza un senso, senza costruire niente, come degli idioti!”.
Lì per lì mi è sembrato inutilmente aggressivo, ma se ci penso… Fare qualcosa. Provarci. La mia parola d’ordine.
Solo che ultimamente tutti i miei tentativi di fare qualcosa per Andrea vanno a sbattere contro un muro. Quello dell’impotenza, dell’ennesimo consulto andato a vuoto, medicina senza senso, terapia sbagliata. Su questo taxi che costeggia il lago, mi sento allagare l’anima da tutta la stanchezza del mondo. Guardo le persone che fanno jogging attorno alla Lagoa. Ho gli occhi socchiusi, la mente troppo piena. Sento una lacrima che scorre fino alle labbra. Poi un’altra.
Mi ci vogliono un po’ di secondi per rendermi conto che sto davvero piangendo e contemporaneamente mi accorgo di un’altra cosa: sta piangendo anche il tassista. Ma guarda te! Deve aver capito qualcosa della mia situazione, dal fatto che sono andato a cercare il dottor Fritz, da qualche mia parola. Ha capito e si è commosso, benedetto lui. Mi sale il magone ma mi viene anche da sorridere fra le lacrime, mentre lui si asciuga rudemente gli occhi con il dorso della mano. È una scena assurda, stranamente consolatoria. Mi sembra di essere in compagnia dell’unica persona in tutto il mondo che mi capisce, che la sta vivendo con me. Io e lui contro il mondo a cercare di fare qualcosa per Andrea.
Poi vedo che segnala e accosta. Ferma il tassametro. Scende. Viene ad aprire la mia portiera.
“Vieni,” mi dice. “Andiamo a berci qualcosa.”
E così, in un mattino brillante dall’altra parte del mondo, davanti a due spremute d’arancia, mi ritrovo a parlare di autismo a un tassista. Che per un’ora mi ascolta, mi batte pacche sulla spalla, mi ripete: “Abbi fede. Abbi fede in Dio”.
Questo non so se posso farlo. Ma, perlomeno, il sole del mattino asciuga le lacrime.