• Mondo
  • Sabato 30 novembre 2013

La scomparsa di Kiribati

Un reportage racconta la vita sul piccolo paese dell'Oceania, che rischia di non esistere più entro il 2100 a causa del riscaldamento globale

Kiribati è un paese dell’Oceania, uno dei meno popolati e più vasti del mondo: 33 isole sparse in un’area larga quattromila chilometri da est a ovest e duemila da nord a sud, abitata da poco più di centomila persone. È anche un paese che rischia di scomparire per sempre nell’arco di pochi decenni, perché l’innalzamento dei mari causato dal riscaldamento globale sta sommergendo a poco a poco il territorio delle isole e cancellando le scorte già insufficienti di acqua potabile.

Jeffrey Goldberg ha scritto un lungo reportage su Bloomberg BusinessWeek in cui racconta i molti problemi del paese e il modo con cui cerca di affrontare le difficoltà. Il giornalista ha passato alcuni giorni a Kiribati e ha incontrato il suo presidente da dieci anni, il 61enne Anote Tong, famoso perché sostiene con forza la tesi secondo cui le nazioni industrializzate stanno causando la totale scomparsa del suo paese.

Trentadue isole di Kiribati (si pronuncia “kìribas”) sono atolli il cui territorio non supera i pochi metri di altezza. La trentatreesima, chiamata Banaba, è un’isola corallina ricca di fosfati che è stata sfruttata a fondo dal Regno Unito, quando la zona era un dominio coloniale britannico.

Secondo le previsioni degli scienziati che si occupano dei cambiamenti climatici, i 103 mila abitanti del paese – chiamati I-Kiribati – potrebbero aver bisogno di cercare una nuova sistemazione molto presto. L’acqua aumenta di volume quando si riscalda, un fenomeno che è molto più importante per l’aumento del livello dei mari rispetto allo scioglimento dei ghiacciai, ed entro il 2100 gran parte del territorio del paese potrebbe essere sommerso. Si stima che di recente il livello dell’Oceano Pacifico sia aumentato in media di un paio di millimetri l’anno. Una violenta tempesta come quella che ha colpito poche settimane fa le Filippine metterebbe in pericolo la sopravvivenza di Kiribati ancora prima.

Goldberg racconta che il presidente Anote Tong sta “cercando un luogo dove spostare la sua gente”. A marzo del 2012, Tong annunciò l’acquisto di un terreno di circa 25 chilometri quadrati a Viti Levu, l’isola principale delle Isole Fiji: una sorta di “assicurazione” nel caso le cose volgessero al peggio rapidamente. Ma le Isole Fiji, che dal 2006 sono governate da una giunta militare dopo l’ennesimo colpo di stato nell’instabile paese, non sembrano essere intenzionate ad assorbire la popolazione del paese vicino. Nessun altro paese del mondo, ha dichiarato Tong in un’intervista del 2010, si è fatto avanti offrendo sostegno concreto per un’eventuale emigrazione: solo un ex presidente dello Zambia (probabilmente Levy Mwanawasa, morto nel 2008) si era detto disponibile. Nel frattempo, la Nuova Zelanda fissa la quota degli immigrati da Kiribati che è disposta ad accogliere in poche decine l’anno.

Oggi, d’altra parte, lasciare il paese non è facile: l’unico modo per andarsene sono i due voli settimanali per Nadi, nelle Fiji, e il presidente Tong può visitare il più grande atollo del suo paese, Kiritimati, solo facendo scalo in un altro paese.

I problemi di Kiribati
Il reportage di Goldberg – che vale la pena di leggere per intero – racconta da un lato il tangibile senso di incertezza e di angoscia che si respira tra i suoi abitanti per l’innalzamento dell’oceano, e dall’altro elenca una serie di disgrazie che affliggono il paese che fa pensare che la scomparsa della terra sotto i piedi non sia neppure il male peggiore in vista. Circa metà della popolazione di Kiribati, 51 mila persone, vive a Tarawa Sud, posta in una zona dell’atollo di Tarawa larga 950 metri nel suo punto più ampio. La densità nell’insediamento è di circa cinquemila persone per chilometro quadrato, poco meno di Hong Kong. Goldberg racconta così la prima passeggiata sull’isola:

La mia prima impressione non era giusta: prima del pomeriggio, il caldo a Tarawa diventa assolutamente fiaccante. A mezzogiorno, la gente dorme ai lati della strada. Gli uomini sonnecchiano su materassi di paglia mentre camminiamo attraverso l’insediamento. Passiamo a fianco di un fetido stagno di acqua salata. “Questo è nuovo” dice Maerere. L’acqua salata si infiltra attraverso il suolo e si raccoglie qua e là nel suo villaggio. Le rive dello stagno sono coperte di spazzatura – taniche di plastica, sacchi di riso, motori, scatole di cartone. L’aria è appestata da piccoli mucchi di escrementi – di cane, di maiale e umani. Arriviamo a un canale poco profondo che taglia in due l’insediamento. “Anche questo è nuovo”. Maerere cammina fino a un gruppetto di palme di cocco morte, piegate nella sconfitta. “Il sale le uccide”.

Uno dei problemi più gravi di Tarawa, conseguenza del sovraffollamento, è che la gente vive direttamente sopra la principale falda acquifera dell’isola, creata dall’acqua piovana che filtra nel suolo e galleggia su una quantità maggiore di acqua salata. A Tarawa, la falda si trova circa due metri sottoterra e fornisce gran parte dell’acqua potabile del piccolo stato. Le abitudini locali sono una causa grave del suo inquinamento: la questione è che circa il 60 per cento della popolazione, scrive Goldberg, defeca in mare o sopra la falda.

Il capo dell’ente che si occupa di opere pubbliche, Kevin Rouata, che ha “il lavoro impossibile di proteggere la falda”, ha spiegato che gran parte delle persone sono abituate da sempre a defecare in mare o in spiaggia: “c’è la brezza, una bella vista e acqua per lavarsi. Dobbiamo far sapere alla gente che anche i servizi igienici in casa sono piacevoli”.

Un’altra minaccia per l’acqua potabile di Kiribati viene dalle usanze che riguardano i morti: questi vengono seppelliti nei minuscoli e sporchi giardini delle case, spesso al livello della falda o vicino ai pozzi, e dopo un po’ di tempo i resti vengono esumati, le ossa lavate e portate ad alcune cerimonie e riunioni familiari.

La cultura di Kiribati crede nella permanenza degli spiriti, nella contiguità dei vivi e dei morti. D’altra parte, gli abitanti delle isole vivono un’esistenza che si svolge quasi totalmente in comune, senza quasi differenze di ceto sociale. Goldberg scrive che, nelle scuole che ha visitato, i bambini che avevano le ciabatte erano considerati privilegiati rispetto a quelli che andavano a scuola scalzi (camminare scalzi è la norma anche tra gli adulti). Le relazioni tra i clan e le famiglie sono strettissime e danno ordine a un territorio così sovrappopolato che, in caso di loro assenza, precipiterebbe presto nella violenza.

In questa situazione già precaria, l’oceano causa lentamente molti danni. Nel villaggio di Te Bikenikoora, di circa 400 abitanti, una quarantina di case sono state sommerse dall’acqua negli ultimi anni. Le persone si riuniscono normalmente nel maneaba – la chiesa-scuola-auditorium al centro del villaggio – e parlano spesso delle possibilità che hanno per reagire alla minaccia dell’acqua. Il leader del villaggio è il reverendo pentecostale Eria Maerere: durante la funzione religiosa a cui ha assistito Goldberg, i canti erano del tenore “Dio, tu sei più grande di ogni marea, più potente di ogni vento”, e i passi del libro della Genesi che descrivono il Diluvio sono tra i più letti e commentati nella vita religiosa della comunità, parzialmente adattata all’onnipresenza degli eventi naturali nei pensieri degli abitanti.

La ricchezza di Kiribati
I primi europei arrivarono dalle parti di Kiribati per la prima volta nel Seicento, ma l’impero britannico decise di fare un protettorato delle Isole Gilbert – come le chiamarono in onore dell’esploratore Thomas Gilbert – solo nel 1882. Prima di allora, per circa tremila anni, gli antenati della popolazione attuale, provenienti in origine dall’odierna Indonesia, erano vissuti in quasi totale isolamento, vivendo di tonno, di frutti di mare e di noci di cocco.

I britannici se ne andarono definitivamente solo nel 1979, l’anno in cui finì lo sfruttamento dei depositi di fosforo dell’isola di Banaba. L’unica ricchezza rimasta nell’area, palme di cocco a parte, è costituita dalle riserve di pesca. Goldberg definisce Kiribati “l’Arabia Saudita del pesce”, con la notevole differenza che la risorsa è sfruttata dalle grandi flotte straniere, in primo luogo di Taiwan, Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti. E oltre a questo, i politici locali non sembrano in grado di sfruttarla al meglio: anche grazie alle generose donazioni delle società ittiche straniere ai suoi funzionari, il ministero della Pesca – probabilmente il più importante del governo locale – continua a ricavare solo 30 milioni di dollari l’anno per la vendita delle licenze. Su un budget annuale di circa 130 milioni, la cifra è notevole e permette all’economia di tenersi a galla, ma molto probabilmente un’asta frutterebbe molto di più.

Nel complesso, l’economia del paese è in grave difficoltà e per metà dipende dagli aiuti stranieri. I problemi economici portano facilmente con sé quelli di carattere sociale: Goldberg racconta che intorno alle navi straniere nel porto di Betio c’è un fiorente traffico di prostitute minorenni, a volte spinte a farlo dai parenti stessi. Secondo il responsabile della missione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel paese, André Reiffer, un quarto delle donne con meno di 25 anni sull’isola di Tarawa si sono prostituite. In alcuni casi, ha detto a Goldberg, vanno dai marinai delle navi perché questi le trattano meglio degli uomini a casa, visto che nell’isola c’è un serio problema di violenza domestica legata all’alcolismo. Se non sono pagate in contanti, come spesso accade, ricevono orologi o gioielli o un tonno, con cui possono sfamare le loro famiglie per molto tempo. E oltre a questo, il pesce pescato al largo è sano, non contaminato dagli escrementi.

Tra le malattie che colpiscono gli abitanti del porto di Betio c’è anche la lebbra, i cui casi sono in grandi crescita negli ultimi anni a causa della sovrappopolazione. Mentre nel 1993 c’erano solo 13 casi in tutto il paesi, oggi i casi sono circa duecento. L’arrivo improvviso della dieta occidentale e di uno stile di vita sedentario per una popolazione abituata al “duro lavoro”, come dice il presidente Tong, hanno aumentato enormemente anche i casi di diabete. Nell’ospedale di Tarawa, il più grande del paese, arrivano a dare una mano medici cubani che si specializzano in amputazioni: ogni mese venti o trenta persone perdono un piede o una gamba a causa della malattia.

Il governo, scrive Goldberg, ha un piccolo budget con cui manda i pazienti più gravi in aereo in India, per essere curati. Un gruppo di medici si riunisce periodicamente e decide chi può essere mandato via. Il capo del programma statale per la lotta alla tubercolosi Takeieta Kienene ha detto al giornalista che i pazienti spediti in India sono molto raramente i malati di cancro: «Non ne abbiamo molti casi perché la gente non vive abbastanza a lungo per contrarlo. Molti muoiono cinquantenni e non hanno il tempo di sviluppare il cancro ai polmoni dovuto al fumo». L’aspettativa di vita per gli uomini, a Kiribati, è di 63 anni, mentre per le donne è di 67: complessivamente, il paese è al 173esimo posto nella classifica mondiale, appena sotto il Ghana.

Suggerire che, prima dell’arrivo degli occidentali, Kiribati fosse una visione presa da Gauguin sarebbe romanticizzare troppo il passato. Esistevano ovviamente malattie e privazioni. D’altra parte, nessuno che trascorre del tempo su queste isole potrebbe sostenere che la modernità sia stata una benedizione di qualsiasi genere.

Il presidente Anote Tong dà al suo paese vent’anni di vita. Il suo messaggio ogni volta che ne ha avuto l’occasione, in un contesto internazionale che normalmente considera Kiribati poco meno che inesistente, è stato che i problemi di Kiribati abbiano una causa importante nel riscaldamento globale. Come riassume Goldberg, “il cambiamento climatico è l’ultimo regalo dell’Occidente, di colore che producono gas serra, alla gente di Kiribati, che non lo fanno”.

Tong ha studiato alla London School of Economics, è arrivato al suo terzo mandato da presidente ed è considerato il migliore tra i leader politici di quella zona del mondo. La sua flebile speranza è che i grandi paesi produttori di gas serra, come gli Stati Uniti e la Cina, vadano a Kiribati e vedano con i loro occhi “l’acqua entrare”. Nei suoi discorsi, Tong equipara spesso l’ossessione internazionale per la minaccia terroristica con l’ecoterrorismo di cui è vittima il suo paese: «Un tipo di terrorismo che è anche più pericoloso, in un certo senso, perché è considerato legittimo e accettabile. Forse dieci anni fa non sapevano che cosa stessero facendo, ma questa non è più una scusa».

Ma oltre a provare a farsi sentire sul piano internazionale, Tong sta lavorando molto anche ai progetti per una ordinata migrazione dei suoi governati, cercando ad esempio di promuovere la formazione dei giovani in modo che questi possano trovare lavoro in Nuova Zelanda o negli altri paesi vicini. La gente di Kiribati capisce quello che sta accadendo, dice il presidente.

«La gente capisce che potrebbe doversene andare per sempre e questo è difficile da accettare. Abbiamo il desiderio di sopravvivere come un popolo. Una volta ho vissuto in Nuova Zelanda. Credevo di essere in paradiso. Potevo avere tutti quei gelati diversi. Ma alla nostra gente piace qui. Perderemo la nostra patria se l’oceano non smetterà di salire. È molto semplice. Vogliamo restare a casa. Qui è dove vivono gli spiriti. È da qui che veniamo.»

Fa una pausa. «Questo non è causato da noi. È causato da voi.»