Perché “i comunisti mangiano i bambini”?

Da dove viene una delle leggende più creative e fortunate della comunicazione politica novecentesca

Su Repubblica del 10 novembre Simonetta Fiori ha raccontato l’ultimo libro dello storico Stefano Pivato – “I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda”, edito dal Mulino – in cui si riprende e racconta una delle invenzioni più creative e radicate della comunicazione politica del Novecento spigandone l’origine (che è un elemento di realtà), evoluzione e fortuna, soprattutto in Italia: quella sui comunisti che mangiano i bambini.

Oggi dicono che accada il contrario, che siano i bambini a mangiarsi i comunisti, o quel che resta di loro. Ma quella dell’orco rosso, terrifico divoratore dell’infanzia, non è una favola che si possa facilmente liquidare. Perché come tutte le leggende racconta molti dei pregiudizi, degli odi e dei timori di una comunità.

E nel nostro caso racconta la storia di un Paese che fatica a crescere, ancora prigioniero d’una credulonità contadina e di un’eccitazione emotiva comprensibile solo in tempo di guerra. Un’Italia che ancora non riesce a chiudere completamente con una delle invenzioni più fortunate e resistenti della comunicazione politica novecentesca. La bestia di Pollicino ridipinta con le sembianze mongole di Stalin. O, più in generale, la leggenda dei comunisti che si nutrono di carne tenera.

Lo specchio moltiplicatore del web la riproduce ovunque nella scena planetaria. Basta un click perché si riverberi in tutte le lingue del mondo. Uno storico da sempre attento alla mentalità, Stefano Pivato, s’è preso la briga di andare a contare i siti sull’argomento, stupefatto dall’enorme diffusione del mito. Ma soltanto da noi può vantare un record che attiene alla durata e soprattutto al suo radicamento, non solo nei recessi dell’immaginario popolare ma nella dignità ufficiale della sfera pubblica. Ed è il bel saggio di Pivato a farcelo notare (I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, Il Mulino). Dal ventennio nero a quello azzurro, dagli articoli di Mussolini a quelli contemporanei del Giornale, da Guareschi a Berlusconi, passando per Cossiga che regala gustose bamboline di zucchero al neopremier D’Alema, il ceto politico e intellettuale italiano si mostra affezionato a uno degli archetipi più perturbanti della vulgata anticomunista. E se non mancano le ragioni storiche — la lunga esperienza del fascismo che di quel mito fu l’iniziale propagatore e la presenza in Italia del più grande partito comunista d’Occidente — bisognerebbe però affidarsi a un bravo psichiatra collettivo per risalire alle cause di una patologia ancora corrente.

A svuotarne il senso originario non sono bastate neppure le armi della satira, che ha risposto con oltre cinquant’anni di ritardo a un accorato appello di Pietro Ingrao rivolto all’intellighenzia italiana: «Ci sarà mai uno scrittore che sappia bollare questi seminatori di discordia?». Ci ha provato Paolo Villaggio in uno dei suoi racconti surreali, immaginando un ingolosito Togliatti che ordina bambini fritti, mentre Nenni appesantito da una fastidiosa gastrite ne ordina uno crudo, «possibilmente ancora vivo». E se Gaber cantava «Qualcuno era democristiano perché i comunisti mangiavano i bambini», più di recente Crozza ne ha ricavato un personalissimo albero alimentare: «Fassino è la dimostrazione che i bambini non fanno ingrassare». Ma soltanto sette anni fa Palazzo Chigi doveva chiedere scusa al governo di Pechino per una gaffe del premier, che aveva evocato prelibati bolliti di neonati in salsa cinese.

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