I 70 anni di Joni Mitchell

Tanti auguri e 12 canzoni, per quelli che non ne sanno neanche una e quelli che le sanno tutte

18th September 1968: Canadian folk singer and songwriter Joni Mitchell, strumming her guitar outside The Revolution club in London. (Photo by Central Press/Getty Images)

18th September 1968: Canadian folk singer and songwriter Joni Mitchell, strumming her guitar outside The Revolution club in London. (Photo by Central Press/Getty Images)

Giovedì 7 novembre la cantautrice canadese Joni Mitchell compie 70 anni: molti siti e giornali in tutto il mondo lo stanno ricordando, e si organizzano spettacoli e concerti di auguri (lei stessa ha cantato straordinariamente a Toronto, il giugno scorso), o addirittura suggerimenti su come vestirsi adeguatamente.
Luca Sofri, peraltro direttore del Post, ha messo insieme una lista delle sue dodici canzoni migliori, tratta dal suo libro Playlist, per chi la conosce bene e per quelli più giovani, che invece conoscono gli Strokes.

Joni Mitchell
(1943, Alberta, Canada)
Gran signora canadese, amata e ammirata da tutti i cantautori nordamericani, e capace ancora oggi di fare grandi cose con una voce tutta sua. Ha lavorato tantissimo con la chitarra, con percussioni e sonorità pellirosse, con il jazz. In Europa non ha mai svoltato, perché i critici scrivono mirabilie di Joni Mitchell ma poi pompano gli Strokes (gli chi? Appunto).

Both sides now
(Clouds, 1969)
“Avrei fatto molte cose, ma si sono messe in mezzo le nuvole”. C’è quella striscia dei Peanuts, dove giocano a baseball e Lucy manca uno spiovente facilissimo. Charlie Brown perde la pazienza e lei risponde «avevo il sole negli occhi». E lui: «ma se è nuvoloso!».«Avevo le nuvole negli occhi».

Chelsea morning
(Clouds, 1969)
Non è Chelsea a Londra, ma l’hotel Chelsea di New York. Lei l’aveva scritta molto prima di metterla in un suo disco, ed era diventata famosa per la versione del 1969 di Judy Collins. Che è la ragione per cui la figlia di Bill e Hillary Clinton si chiama Chelsea.

Big yellow taxi
(Ladies of the canyon, 1970)
La più famosa canzone di Joni Mitchell per chi non conosce Joni Mitchell. Grazie al campionamento di Janet Jackson nella sua notevole “Got ‘til it’s gone” e alla cover dei Counting Crows. Il taxi lo vide dalla finestra di un albergo alle Hawaii, e capì che “va sempre a finire che non sai quello che possiedi fino a che non lo hai perso: hanno asfaltato il paradiso e ci hanno messo un parcheggio”.

Woodstock
(Ladies of the canyon, 1970)
Secondo alcuni Joni Mitchell doveva suonare a Woodstock, quella volta là, ma fece tardi per via del traffico. Secondo altri aveva un impegno televisivo. Comunque ci rimase male assai. Vide il concerto in televisione e scrisse la canzone, che fu cantata anche da Crosby, Stills, Nash & Young in Déja vu. “Quando arrivammo a Woodstock c’era già mezzo milione di persone, ed era tutto canzoni e gioia. E sognai un cielo di bombardieri che sganciavano farfalle sulla nostra nazione”.

All I want
(Blue, 1971)
Il suono con cui inizia Blue, che passa come il più riuscito disco di Joni Mitchell, è un dulcimer degli Appalachi (già, esistono vari tipi di dulcimer). Il dulcimer è uno strumento a corde che si pizzicano o si percuotono, lontano parente di una chitarra di cui ha la forma assai più allungata. In “All I want” – dove la chitarra vera la suona James Taylor – lei vuole parecchie cose da un nuovo amore, tra cui fargli uno shampoo.

My old man
(Blue, 1971)
Questo invece è un pianoforte. Lui è via e quando lui è via il letto è troppo grande (e questa l’abbiamo sentita spesso: poi verranno i Police di “The bed’s too big without you” o la variante dei Cugini di campagna del “letto come lo hai lasciato tu” che però è pudicamente indipendente “nella stanza tua”). L’invenzione figurativa è invece “la padella troppo grande”, la mattina quando lei prepara la colazione. Il lui di cui si parla qui è Graham Nash (“he’s a singer in the park”), con cui aveva rotto poco prima.

A case of you
(Blue, 1971)
Si dice che lui fosse Leonard Cohen, e la relazione doveva essere piuttosto tormentata, a sentire lei qui. Bella, lenta, dolcissima. Trent’anni dopo la ricantò in Both sides now. Ne fece anche una bella cover Prince, tra gli altri.

Help me
(Court and spark, 1974)
Quando dicono “folk-jazz” vogliono solo dire che c’è un arrangiamento un po’ jazz ma anche delle chitarre. Come in “Help me”, se riuscite a trascurare la voce di lei, e a farci caso.

Refuge of the roads
(Hejira, 1976)
Molte delle canzoni di Joni Mitchell sono roba di viaggi, da on-the-road. La stessa “All I want” che apriva Blue era una esposizione del viaggio come massima forma di libertà. Hejira è molto su questo, sugli incontri che si fanno e sui pensieri che si hanno. “Refuge of the roads” si conclude su una foto della terra vista dalla luna, appesa dentro a un distributore di benzina, dove “non si distingue una città, né una foresta o un’autostrada, e men che mai me stessa, quaggiù”.

Chinese cafè
(Wild things run fast, 1982)
“Chinese cafè” era la prima canzone del disco di Joni Mitchell sul tempo che era passato.“Caught in the middle, Carol we’re middle class, we’re middle aged. We were wild in the old days, birth of rock ‘n’ roll days: now your kids are coming up straight and my child’s a stranger I bore her, but I could not raise her. Nothing lasts for long” “Sembriamo le nostre madri” dice ancora, prima di tirare fuori dal cappello una fantastica citazione di “Unchained melody” dei Righteous Brothers.

Cherokee Louise
(Night ride home, 1991)
Louise era una compagna di scuola: quando la cercano, Joni Mitchell sa dove è andata. A nascondersi sotto il Broadway Tunnel dove può tuffarsi nella polvere e dimenticare la cosa terribile che le era capitata a casa: “She runs home to her foster dad. He opens up a zipper. And he yanks her to her knees”.

Bad dreams
(Shine, 2007)
“Bad dreams are good, in the great plan”, aveva detto un suo nipotino di tre anni. Lei ne aveva sessantaquattro quando fece ancora uno stupendo disco di Joni Mitchell.