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  • Giovedì 31 ottobre 2013

Quando gli Who diventarono gli Who

Pete Townshend racconta nel suo nuovo libro il momento che gli fece capire la sua band e cosa avrebbe dovuto fare

di Pete Townshend

14th February 1969: British rock group The Who, from left to right; Pete Townshend, John Entwistle (1944 – 2002), Keith Moon (1947 – 1978) and Roger Daltrey, shortly before going on stage at the London Coliseum. (Photo by Steve Wood/Express/Getty Images)

14th February 1969: British rock group The Who, from left to right; Pete Townshend, John Entwistle (1944 – 2002), Keith Moon (1947 – 1978) and Roger Daltrey, shortly before going on stage at the London Coliseum. (Photo by Steve Wood/Express/Getty Images)

Rizzoli ha pubblicato Who I am di Pete Townshend, l’autobiografia del chitarrista e leader degli Who uscita l’anno scorso in Inghilterra, tradotta in italiano Tommaso Labranca. Il libro comprende anche una ampia raccolta di fotografie che partono dall’infanzia di Townshend e arrivano alle ultime esibizioni del gruppo.

***

Roger bollò I Can’t Explain come un pezzo di «pop leggero e commerciale» e disse che non avrebbe mai registrato una simile canzone senza midollo. Voleva che il nostro lavoro in studio riflettesse la potenza delle nostre scalette live grondanti R&B. Anche se mi risentii un po’ per la franchezza di Roger, non potevo non essere d’accordo con lui. In scena stavamo diventando sempre più duri ed era quello lo spirito da riportare sul vinile.
Il film girato da Kit e Chris era stato proiettato al Railway Hotel davanti a una sala gremita e gli Who si esibirono in due trasmissioni della BBC, Beat Room e Ready, Steady, Go! Soprattutto quest’ultimo programma segnò un momento speciale perché Kit aveva fatto amicizia con la produttrice, Vicky Wickham, e lei permise a un buon numero di nostri fan, i cosiddetti «100 Faces» del Marquee, di farci da pubblico in studio. I cento urlarono come impazziti quando entrammo in scena, agitando sciarpe con i colori delle università britanniche, la mania mod della settimana.
Dopo aver eseguito I Can’t Explain a Top of the Pops, entrammo subito nella Top 10. Tutte le radio pirata fecero propria la canzone e mi entusiasmava guidare nel mio quartiere e sentire nell’autoradio la prima canzone che avevo scritto per gli Who, immaginando le onde radio che si propagavano dalle navi ancorate in alto mare. Guidare ascoltandomi alla radio: tutte le idee che mi ero fatto quando ero alla scuola d’arte mi sembravano superate. Appena la band aveva iniziato la sua carriera, avevo goduto al pensiero che non sarebbe durata a lungo: quel declino avrebbe dimostrato la validità del mio piano autodistruttivo. Ora venivo messo alla prova. C’era davvero bisogno di mostrare il mio aspetto più paludato e serioso? In fondo non era poi così male essere solo una popstar di successo. Non valeva la pena di mandare tutto all’aria in nome dell’arte. E poi anche quello che stavo facendo era qualcosa di creativo. Non trovavo più così importante continuare a negare il negabile.

Venerdì 12 marzo gli Who fecero un trionfale ritorno al Goldhawk, la nostra casa musicale quando eravamo lontani da casa. Per Roger e me la cosa assumeva un’importanza particolare perché entrambi da ragazzini eravamo stati membri del Sulgrave Boys Club che sorgeva in fondo alla stessa strada. Molti degli ex membri del club, adesso adolescenti, vennero alla Goldhawk per sfoggiare i loro nuovi abiti mod, bere birra, assumere pasticche stimolanti, fare a botte e rimorchiare ragazze. Abbiamo suonato I Can’t Explain a ripetizione. Il pubblico sembrava posseduto da una furia distruttrice.
Dopo, alcuni di loro ci chiesero di poter venire dietro le quinte per parlarmi. Guidati da un allampanato ragazzo irlandese di nome Jack Lyons, mi si pararono davanti per dirmi quanto avevano apprezzato la canzone. Li ringraziai e domandai che cosa in particolare li aveva conquistati. Jack balbettò che non riusciva proprio a spiegarlo. Allora venni in suo aiuto: la canzone parlava dei momenti in cui non si riescono a trovare le parole.
«Proprio quello!» gridò Jack e tutti gli altri annuirono.
Se non mi fossi formato a Ealing, dubito che quel momento mi avrebbe colpito come effettivamente fece, arrivando a cambiarmi la vita. Spesso a scuola, e soprattutto negli ultimi giorni del corso di grafica, mi affannavo a cercare un mecenate, una commissione, qualcuno che pagasse i miei eccessi artistici e le mie sperimentazioni. Ed ecco ora i miei nuovi mecenati davanti a me.
La loro richiesta era semplice: vogliamo che sia tu a spiegare ciò che noi non sappiamo spiegare. Sarebbe un’esagerazione dire che quella sera tornai a casa come galleggiando a mezz’aria, ma gustavo davvero il sapore della vendetta. Ero ancora sconvolto da quella notorietà improvvisa, dai passaggi in radio e in TV dopo aver scritto una canzone di successo. Ora però sapevo anche che gli Who avevano un compito che andava al di là dell’essere ricchi e famosi.
E, per quanto possa apparire ancora oggi pretenzioso, sapevo con assoluta certezza che tutto quanto stavamo facendo era arte.

Con Anya ebbi ancora un paio di rapporti sessuali, quando Kit era via e io non lavoravo. Adoravo il suo essere spiritosa e tagliente. Fu la prima persona che avessi mai sentito definire «troia» un uomo. In realtà non abbiamo mai avuto molte discussioni serie né siamo andati fuori a cena. Se l’avessi fatto mi sarei sentito solo il suo toy boy. Kit alla fine intervenne in ciò che considerava vampirismo sessuale da parte di Anya e come penitenza le affidò il compito di trovarmi un appartamento il più possibile vicino al suo così da verificare lo stato di ordine in cui vivevo. Ad aprile Anya ne trovò uno di lusso in una casa georgiana in Chesham Place, a Belgravia. L’affitto era di dodici sterline a settimana, ma ormai potevo ampiamente permettermelo.
Quello fu il primo posto in cui vissi davvero da solo: feci mettere la moquette, lo arredai in modo semplice, lo tenni pulito e ordinato e trasformai una delle camere in studio di registrazione. Fu uno dei periodi più attivi della mia vita. Se mi sentivo isolato tra i diplomatici e gli aristocratici che abitavano a Belgravia, trasformavo quel senso di solitudine in spinta per la mia creatività. Lavoravo soprattutto di notte, quando potevo suonare dischi a tutto volume, sparando il suono da due altoparlanti con quattro coni da 12”, pezzi recuperati dopo le distruzioni che compivo sul palco. Gli altri appartamenti dell’edificio erano ancora sfitti, mentre nel palazzo accanto al mio erano in corso delle ristrutturazioni per accogliere l’ambasciata dell’Alta Commissione per il Lesotho. Per la prima volta in vita mia mi sentivo completamente libero di fare musica.
Kit veniva spesso a trovarmi per ascoltare i demo che registravo e divenne un vero e proprio mentore per le mie capacità compositive. Il suo metodo era sempre lo stesso. Fumava una sigaretta Senior Service dopo l’altra e intanto camminava su e giù, ascoltando e sbuffando nuvole di fumo. Se avevo scritto più di una canzone, le ascoltava tutte prima di fare qualsiasi commento, quindi sceglieva la sua preferita. Era incisivo e, astutamente, non diceva mai che un pezzo era brutto, che avrei potuto fare di meglio o che sarebbe risultato migliore una volta rifinito. Anche quando una cosa non gli piaceva, trovava sempre un dettaglio da lodare.
Scoprii che Kit era esperto nel lusingare l’artista che c’era in me. Sapeva essere gentile, ma io provavo anche piacere sapendo che lui investiva su di me. Si era creato un rapporto creativo. Mi trattava come un compositore serio. Se rideva, era sempre per una storiella che sapeva avrei poi condiviso con gli altri.

Roger vendette il nostro furgone e acquistò un camion per trasportare l’attrezzatura. Aveva sempre sognato di guidarne uno. Era simile a quei camion che trasportano i mobili, senza finestrini né sedili nel retro, tranne una panca nemmeno avvitata al pavimento. Il camion era troppo grande e la nostra strumentazione sbatteva contro le pareti, mentre Keith, John, Mike e io ci trattenevamo per non vomitare. Inoltre era lentissimo, in autostrada non superava gli ottantacinque chilometri all’ora e ci vollero dieci ore per coprire i trecentoventi chilometri che separano Londra da Blackpool. Roger piazzava la sua ragazza sul sedile anteriore, così noi finivamo confinati nel retro, al buio. Voleva tenerci tutti fuori dai piedi durante i lunghi tragitti. Era un passeggero nervoso e raramente lasciava che a guidare fosse un altro.
Il 30 luglio suonammo al Fender Club di Kenton. Karen Astley, un’amica dei tempi di Ealing, era venuta al concerto e persino il bel Chris si lasciò sfuggire un commento sull’eleganza di quella ragazza, definendola «bambolina», cosa che ai tempi era il migliore dei complimenti. Karen aveva portato la sua migliore amica, una tizia affascinata da John Entwistle. Fu divertente parlare con qualcuno del vecchio gruppo di amici e andammo tutti insieme in un pub. Fuori dalla sala, dopo lo spettacolo, mentre aspettavamo un taxi, Karen mi gettò improvvisamente le braccia al collo e mi baciò.