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  • Lunedì 28 ottobre 2013

Due giornalismi investigativi, diversi

Bill Keller e Glenn Greenwald - l'ex direttore del New York Times e il blogger che ha pubblicato i documenti su NSA - hanno confrontato sul New York Times le proprie distanti opinioni

NEW YORK – APRIL 21: A man speaks on his mobile phone across from The New York Times headquarters building April 21, 2011 in New York City. The New York Times profits fell 58 percent in the first quarter of 2011. (Photo by Ramin Talaie/Getty Images)

NEW YORK – APRIL 21: A man speaks on his mobile phone across from The New York Times headquarters building April 21, 2011 in New York City. The New York Times profits fell 58 percent in the first quarter of 2011. (Photo by Ramin Talaie/Getty Images)

Il New York Times ha pubblicato domenica una lunga conversazione fra l’ex direttore del giornale Bill Keller e Glenn Greenwald, l’avvocato e blogger americano che ha collaborato con Edward Snowden alla gestione e diffusione dei dati sottratti dallo stesso Snowden dagli archivi della NSA (l’agenzia nazionale di sicurezza statunitense), diventando protagonista del più dibattuto scoop dell’anno e di estese discussioni sul giornalismo contemporaneo. Il confronto tra i due è particolarmente interessante perché Keller e Greenwald hanno fatto cose molto diverse nella loro carriera giornalistica, che però a un certo punto li ha portati entrambi ad occuparsi estesamente – dal 2010 in avanti – di notizie legate a documenti riservati, e ad accumulare competenze e pareri su cosa vada pubblicato e cosa no, e quali notizie diventate pubbliche negli ultimi anni siano da considerare frutto di giornalismo investigativo e cosa no.

Chi sono Keller e Greenwald
Bill Keller ha 64 anni, e dal 1984 a oggi ha occupato diverse posizioni all’interno del New York Times, di cui adesso è uno degli editorialisti più importanti. Dal 1986 al 1991 fu inviato a Mosca, nel 1992 divenne capo dell’ufficio del Times a Johannesburg, in Sudafrica: in generale si è sempre occupato di politica internazionale. Nel 1989 ha vinto un premio Pulitzer per la sua copertura giornalistica della caduta dell’Unione Sovietica, e nel 2003 divenne il direttore del Times (rimase in carica fino al settembre del 2011).

Glenn Greenwald ha 46 anni: dopo essersi laureato in Legge alla New York University School of Law, fondò nel 1996 uno studio legale, di cui rimase a capo per circa dieci anni. Nel 2007 cominciò a scrivere un blog per la versione online della rivista Salon, nel quale si occupava di vari temi legati al diritto dell’informazione. Nel 2012 fu assunto dal Guardian. Negli scorsi mesi ha scritto diversi articoli basati su informazioni passategli in esclusiva dall’ex consulente di NSA Edward Snowden, con cui continua a mantenere un rapporto piuttosto stretto. Il 15 ottobre 2013 ha annunciato di aver lasciato il Guardian poiché gli è stata offerta «un’opportunità giornalistica da sogno, che capita una volta nella carriera»: la possibilità di collaborare a un nuovo giornale online pagato dal 46enne fondatore di eBay Pierre Omidyar. Riguardo ciò, Greenwald ha detto di «non poter dire molto a riguardo», ma che crede che il ruolo di un editore debba essere quello di «favorire un giornalismo “antagonista” e aderente ai fatti, e non di agire come una sorta di blocco stradale per neutralizzarlo». Aggiunge inoltre che un buon editore non dovrebbe «imporre regole stilistiche obsolete o impedire ogni sorta di lamentela al giornalista quando viene ostacolato da un alto dirigente»

Due idee di giornalismo
Keller inizia lo scambio di pareri con Greenwald parlando delle differenze fra due diversi approcci al giornalismo: quello da “attivista”, praticato per sua stessa ammissione da Greenwald, e uno più attento all’imparzialità e all’indipendenza dalle opinioni personali – che Keller spiega di avere provato a mantenere per anni.

«I giornalisti che provano ad avere questo approccio hanno chiaramente un sacco di opinioni, ma le tengono da parte per seguire i fatti – nello stesso modo in cui un giudice è tenuto a lasciare da parte i propri pregiudizi per seguire le leggi e le testimonianze di un singolo caso. Spesso, in questo modo, si producono risultati più credibili e affidabili».

Secondo Greenwald la differenza sta su un piano diverso:

«Tutti noi percepiamo e “processiamo” informazioni attraverso una sorta di prisma personale. Che senso ha fare finta che non sia così? Credo che fare del buon giornalismo ci sia bisogno di essere giusto e aderire ai fatti. Ma credo anche che sia meglio perseguire queste cose mantenendo un atteggiamento onesto riguardo la propria prospettiva, piuttosto che mantenere una sorta di “voce di dio proveniente dal nulla” che faccia pensare che i giornalisti rimangano al di sopra dei comuni punti di vista».

Secondo Greenwald, infatti, un giornalista che tende a evitare di esprimere le proprie opinioni è più portato a «presentare entrambe le letture di una storia: ma come farebbe un codardo, cioè senza provare a risolvere questo conflitto». E quindi, di conseguenza, «l’unica differenza che conta è fra i giornalisti che in maniera onesta rivelano le proprie convinzioni politiche e quelli che fanno finta di non averle, o che le nascondono ai propri lettori».

Keller non è d’accordo:

«Per come la vedo io, sospendere la propria opinione e far parlare i fatti è alla base del lavoro del giornalista. E non è un principio valido solo per chi scrive: gli stessi direttori dovrebbero rimproverare chi non riporta fatti e argomenti contrari che potrebbero interessare i lettori. Inoltre, sapendo che scrivi partendo da posizioni di destra o di sinistra, un lettore potrebbe guardare con sospetto a un tuo articolo».

Secondo Keller, quest’ultimo rischio in particolare è sempre presente: anche se il New York Times è considerato piuttosto “di sinistra”, scrive, «molti lettori percepiscono che dietro un dato articolo c’è un lavoro serio e diligente, e che non è stato scritto per supportare una causa».

«Come giornalista e direttore di giornale non credo che il mio lavoro sia quello di dire alla gente cosa dovrebbe pensare, ma quello di dare loro gli strumenti affinché ciascuno si formi una propria opinione sul tema»

Greenwald risponde argomentando con maggiore precisione le sue affermazioni riguardo l’onestà e l’ipocrisia nel giornalismo: ricorda che ai tempi della guerra in Iraq aveva apprezzato molto gli articoli dell’inviato del Times John Burns, salvo poi scoprire anni più tardi che Burns aveva mantenuto in quegli anni un’opinione «piuttosto favorevole» riguardo l’intervento degli Stati Uniti. «In quanto lettore mi sarebbe davvero piaciuto essere a conoscenza della sua visione politica, che ai tempi tenne nascosta: avrei potuto inquadrare meglio i suoi articoli».

Il rapporto fra il Times e il governo americano
Greenwald aggiunge il fatto che – a suo parere – la minore credibilità dei media sia oggi dovuta all’eccessiva «subordinazione» nei confronti del governo. «Per quanto mi riguarda non provo alcuna senso di fedeltà nei confronti del governo americano rispetto a qualunque altro governo, rispetto a cosa pubblicare o meno.» Greenwald cita come esempio uno studio dell’università di Harvard in cui viene rilevato che i giornali americani sono più inclini a chiamare il waterboarding una “tortura” nel caso in cui venga praticata in paesi esteri: secondo questo studio, in particolare, il New York Times si riferisce al waterboarding come a una tortura nell’85,8 per cento degli articoli in cui si sta parlando di un altro paese, mentre solo nel 7,69 per cento dei casi che riguardano il suo utilizzo da parte dell’esercito americano.

Keller definisce «semplicistico» e fuorviante giudicare la scelta di utilizzare o meno la parola “tortura”: «personalmente credo che il waterboarding sia una tortura. Ma se un giornalista riporta esattamente in cosa consiste, ricorda in quali paesi è praticato e aggiunge che c’è un dibattito sul fatto che possa violare o meno regolamenti o accordi internazionali, non mi interessa se venga usata o meno la parola “tortura”; ho tutti gli strumenti per arrivare alla mia personale conclusione». Keller difende inoltra la scelta che il Times fece, nel 2005, di sospendere la pubblicazione di un’inchiesta relativa alle pratiche di spionaggio di cittadini americani da parte dell’NSA: racconta infatti di aver impedito la diffusione della storia per circa un anno, fino a quando ritenne che «l’interesse pubblico aveva superato il pericolo di una minaccia per sicurezza nazionale».

Wikileaks
Keller passa poi ad accusare Wikileaks e il suo capo Julian Assange – con cui il Times ha collaborato per un breve periodo quando Wikileaks cominciò a diffondere i primi dati nel 2010 – di non avere avuto il giusto riguardo nei confronti delle persone coinvolte nelle notizie che furono diffuse, e le cui vite furono messe a rischio. Cita inoltre una frase di Assange, riportata dal giornalista del Guardian David Leigh e poi smentita dallo stesso Assange, secondo cui molte persone citate nei documenti diffusi da Wikileaks «se la sono comunque cercata, nel caso vengano uccisi».

Greenwald ribatte che «anche se ammettessimo che l’eccessivo desiderio di trasparenza di Wikileaks abbia portato a uno sproporzionato rilascio di notizie, l’atteggiamento pro-governativo del New York Times avrebbe comunque provocato danni equivalenti». Greenwald ricorda che «non fu Wikileaks a far circolare in prima pagina cose false riguardo Saddam Hussein e il suo collegamento con al-Qaida per provocare una guerra odiosa». Ricorda anche che la stessa Wikileaks – prima di rendere pubbliche alcune informazioni riguardo le guerre in Iraq e Afghanistan – contattò il governo americano, che però all’epoca rifiutò di collaborare (ma la Casa Bianca, come ammette lo stesso Greenwald, smentì il fatto).

Snowden e Manning
Nella parte finale della conversazione, Keller elenca i benefici di lavorare in una grossa istituzione giornalistica, e parla dei molti fattori che arricchiscono un’inchiesta svolta in questo contesto – dalla possibilità di essere corretti e stimolati da altri giornalisti, e di essere supportati nel proprio lavoro da persone con ruoli molto diversi fra cui, per esempio, i grafici e gli avvocati del giornale. Keller dice inoltre di diffidare del nuovo stereotipo di giornalista che è tenuto a costruire intorno a se un brand personalee di sospettare soprattutto di coloro che ritengono giusto rischiare la propria vita per affidare dati – anche piuttosto importanti – a persone di cui si conosce poco, tramite una penna USB. Di conseguenza, Keller chiede infine se esempi come quello di Snowden e Bradley Manning possano rappresentare figure d’esempio per il futuro del giornalismo investigativo.

Greenwald risponde di credere che «Manning e Snowden siano delle figure cruciali» che hanno portato «un raggio di luce in una realtà estesamente oscurata». Spiega infatti che «non abbiamo semplicemente delle “penne USB” a nostra disposizione: abbiamo lavorato lungamente per costruire una serie di relazioni affidabili e mettere in piedi una struttura che permetta di diffondere i contenuti che abbiamo». 

foto: Ramin Talaie/Getty Images