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  • Mercoledì 23 ottobre 2013

Perché Arabia Saudita e Stati Uniti litigano

I sauditi hanno appena rifiutato un seggio al consiglio di sicurezza dell'ONU: c'entra la Siria ma non solo

US Secretary of State John Kerry (L) and Saudi Foreign Minister Prince Saud al-Faisal (R) give a joint press conference in Jeddah, on June 25, 2013. Saudi Arabia pressed for global action to end Syrian President Bashar al-Assad’s regime, telling US Secretary of State John Kerry that the civil war had turned into “genocide”. AFP PHOTO/STR (Photo credit should read STR/AFP/Getty Images)

US Secretary of State John Kerry (L) and Saudi Foreign Minister Prince Saud al-Faisal (R) give a joint press conference in Jeddah, on June 25, 2013. Saudi Arabia pressed for global action to end Syrian President Bashar al-Assad’s regime, telling US Secretary of State John Kerry that the civil war had turned into “genocide”. AFP PHOTO/STR (Photo credit should read STR/AFP/Getty Images)

Il 23 e il 24 novembre si terranno a Ginevra dei nuovi colloqui internazionali sulla Siria: si tratta di una conferenza voluta dagli stati occidentali, in particolare dagli Stati Uniti, per cercare di mettere fine alla guerra civile siriana e preparare un piano per gestire il paese dopo l’eventuale fine dei combattimenti. È possibile, tuttavia, che a Ginevra ci saranno tutti fuorché i siriani: non è ancora chiaro se i rappresentanti del regime di Assad parteciperanno agli incontri; i ribelli “moderati” della Coalizione Nazionale Siriana condizionano la loro presenza all’assenza di Assad, col quale non vogliono trattare; non ci saranno chiaramente i ribelli più estremisti legati ad al Qaida, non riconosciuti come forze d’opposizione legittime dall’Occidente.

Il capo dei ribelli “moderati”, Ahmad al-Jarba, ha spiegato di aspettarsi dagli occidentali decisioni più radicali ed efficaci in Siria, diverse dalle politiche molto prudenti e molto timide adottate fino ad ora. Al-Jarba è anche molto vicino all’Arabia Saudita, che sembra un particolare di poca importanza e invece conta molto, per una serie di ragioni.

L’Arabia Saudita dall’inizio della guerra in Siria ha appoggiato la fazione dei ribelli, poi diventata negli ultimi mesi molto divisa al suo interno (ha comunque mantenuto forte il suo sostegno ai ribelli moderati). In Siria i sauditi hanno collaborato molto con gli Stati Uniti, con cui sono alleati dalla fine degli anni Settanta per ragioni di interesse e opportunità politica – a livello ideologico è una delle alleanze più disallineate e strabiche del mondo, per esempio su temi come la libertà di espressione, la condizione delle donne e i diritti politici.

Negli ultimi mesi però l’insofferenza dell’Arabia Saudita nei confronti della lenta diplomazia occidentale e statunitense è aumentata: i sauditi hanno definito inadeguate le politiche statunitensi e del consiglio di Sicurezza dell’ONU in Siria ma anche in altri paesi mediorientali, e hanno preso delle “contromisure” che hanno fatto discutere molto. Venerdì 18 ottobre, con una mossa inaspettata e senza precedenti, il regno saudita ha fatto sapere di voler rinunciare al seggio non permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU che le era stato assegnato il giorno precedente. Il ministro degli Esteri saudita ha accusato il CdS di adottare “doppi standard” a seconda delle situazioni e di non voler risolvere le crisi in Palestina e in Siria. Lo scorso fine settimana, scrive il Wall Street Journal, il capo dell’intelligence saudita ha detto ad alcuni diplomatici europei che il suo paese è pronto a ridimensionare (al ribasso) la cooperazione con gli Stati Uniti nel processo di trasferimento delle armi e addestramento militare ai ribelli siriani, un piano su cui gli americani sembrano avere investito parecchio.

Per mettere un po’ di ordine a quello che è successo tra Stati Uniti e Arabia Saudita, e capire perché per gli americani è fondamentale avere l’appoggio dei sauditi in Medioriente, Max Fisher del Washington Post ha spiegato le 8 questioni che interessano entrambi i paesi e che potrebbero metterli uno contro l’altro (le prime sei, dice Fisher, sono brutte notizie, con le ultime due le cose migliorano). Sintetizzando i punti di Fisher, e riducendoli a 4:

1. L’Egitto: i sauditi erano strettissimi alleati di Hosni Mubarak, destituito con la cosiddetta “Primavera araba”; poi sono stati forti oppositori dei Fratelli Musulmani di Mohamed Morsi, ex presidente egiziano deposto da un colpo di stato militare il 3 luglio scorso. E ora appoggiano il nuovo governo, che di fatto è in mano ai militari. Gli Stati Uniti hanno condiviso con l’Arabia Saudita solo l’appoggio a Mubarak e non tutto il resto.

2. L’Iran: dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista in Iran, Stati Uniti e Arabia Saudita si sono opposti al regime religioso di Teheran, aggressivo verso l’Occidente e con i paesi sunniti mediorientali e nemico degli americani. Con le recenti aperture diplomatiche del nuovo presidente iraniano, Hassan Rouhani, gli Stati Uniti hanno iniziato a negoziare con l’Iran un accordo sul nucleare (l’Iran dice di volerlo sviluppare solo per scopi civili, la comunità internazionale crede invece che voglia costruire armi atomiche), a cui i sauditi si sono opposti fermamente.

3. La Siria: le posizioni più distanti tra Arabia Saudita e Stati Uniti si sono registrate dopo l’attacco chimico compiuto quasi certamente dalle forze governative di Assad lo scorso 21 agosto a Damasco, la capitale della Siria. I sauditi avrebbero voluto un’azione più decisa da parte degli americani, che comprendesse un intervento militare a favore dei ribelli, ma gli americani hanno temporeggiato e adottato soluzioni finora intermedie, tra cui il piano di trasferimento delle armi ai ribelli su cui l’Arabia Saudita ha detto di voler ridimensionare la sua cooperazione.

4. Sul resto: americani e sauditi hanno meno ragioni di collaborare tra loro su alcuni fronti, come l’Iraq (dove non c’è più il nemico comune Saddam Hussein) o il petrolio (gli Stati Uniti importano sempre meno dal Medioriente, e l’Arabia Saudita vende molto più greggio ai paesi asiatici, soprattutto alla Cina). Rimangono alcune ragioni di collaborazione, che mantengono in vita l’alleanza: si tratta delle politiche comuni contro il terrorismo di al Qaida, che sta rinascendo in diversi paesi dell’area, e della cooperazione in Yemen, che da alcuni anni è considerato uno “stato fallito” e terreno adatto per la diffusione dei movimenti estremisti.

Foto: Il segretario di stato statunitense John Kerry e il ministro degli Esteri saudita Saud bin Faisal bin Abdul Aziz Al Saud, in una conferenza stampa a Jeddah, il 25 giugno 2013 (STR/AFP/Getty Images)