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  • Sabato 19 ottobre 2013

Il centenario di Vasco Pratolini

Il servizio militare secondo lo scrittore fiorentino, in un estratto dal suo romanzo Metello

Il 19 ottobre 2013 ricorre il centenario della nascita di Vasco Pratolini, lo scrittore fiorentino che è stato uno degli esponenti principali del neorealismo. Pratolini (morto a 77 anni nel 1991) ha scritto fra l’altro Metello, Il quartiere, Cronache di poveri amanti e Le ragazze di San Frediano, e ha collaborato alle sceneggiature di Paisà di Roberto Rossellini e di Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti. Metello, che è il primo romanzo della trilogia Una storia italiana, si occupa della storia del mondo operaio, delle lotte sindacali e dei conflitti di classe nell’Italia di fine Ottocento attraverso la storia del protagonista Metello Salani, un giovane operaio edile. In questo estratto dal libro, pubblicato da Rizzoli nella BUR insieme agli altri suoi romanzi più importanti, Pratolini racconta l’esperienza del servizio militare di Metello a Napoli.

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L’età che va dagli anni ventuno ai ventiquattro, è decisiva per la vita di un uomo, per un figlio di popolo in specie. Egli si è definitivamente licenziato dall’adolescenza; ha conosciuto l’amore, la fatica, il dolore e tutto sembra averlo irrobustito. Il suo sangue è una rosa che stioppa; la sua ansia di vita morde i giorni come il bambino morde la mela. Egli ha fiducia in se stesso, e negli uomini, anche se crede di diffidarne, come nelle cose che tocca, nei colori che vede. La natura, di cui egli è una forza, coi suoi turbamenti e tentazioni, comunque lo esalta. Ha interessi, affetti, ideali che assorbono interamente i suoi entusiasmi, le sue ritensioni, e la sua fede. Quale che sia. E quali che siano la sua educazione, la sua levatura mentale, le sue risorse morali, siccome il suo corpo è sano e l’assiste, egli ha il mondo nel pugno, l’avvenire davanti a sé, un destino a cui non suppone di potersi sottrarre. È a questo punto che la patria lo chiama per compiere il servizio di leva. Lo arresta nel suo slancio, brucia la strada alle sue spalle, eleva un muro sul suo avvenire. Al suo ritorno, con un’esperienza che non potrà in nessun modo agevolarlo tanto è estranea alla realtà e alle esigenze della vita civile, egli dovrà ricominciare daccapo.

Sarà stato, nel migliore dei casi, come prigioniero dentro un pozzo, diciamo dentro un vaso di spirito, un acquario. Nei tempi di pace, si fa il soldato come da ragazzi si fa una malattia. E la si offre alla Patria, al cui nome non possiamo restare insensibili. Durante alcuni anni, la nostra vita si ferma, vegeta, il nostro corpo suda e ingrassa, la «sboba» lo nutre. Il nostro cervello si piglia questa lunga vacanza. Per minuscoli che fossero stati fino allora i nostri pensieri, essi abbracciavano fatti e cose diversi, li agitavamo, se ne tiravano delle conclusioni. Ora, la prima regola che ci viene imposta è di non avere un’opinione, un punto di vista, un’iniziativa personali. Trascorre questo giorno sterminato, fatto di tre anni, di millenovantacinque albe e tramontar di sole, tra una sveglia, un rancio, un’adunata, una marcia, un’ispezione. I nostri problemi sono tutti lì: le pezze da piedi, la gavetta da lavare, le scarpe la baionetta le giberne da lustrare, il meccanismo di caricamento e sparo, nuovo modello ’91, il giuramento da mandare a memoria, la branda o i «castelli» da rassettare, pancia in dentro e petto in fuori, il sergente il maresciallo il tenente il capitano: secondo plotone terza compagnia; e poi: battaglione reggimento divisione… Siamo stanchi, la sera, più di quando si lavorava. E coi soldi che mancano, dove si deve andare? La cinquina se ne va in un’ora, c’entrano dieci sigarette e un litro di vino. A Napoli c’è il Vesuvio, si vede di lontano, c’è Posillipo, Mergellina, Santa Lucia, il Vomero è una collina, luoghi più che conosciuti sentiti dire. Esci di caserma, ti fermi alla prima bettola e ci trovi l’ora della ritirata. O vai in villa comunale dove vengono le serve, ma bisogna essere di bocca buona, essere nati e rimasti contadini. Le amicizie, che si fanno tra commilitoni, sembra non debbano mai finire: siamo in realtà tanti condannati che contano «meno cento, meno novantanove, meno novantotto» i giorni che li separano dalla libertà. Allorché il treno ti riporta in congedo, ogni sussultare delle ruote sulle rotaie ti fa dimenticare una di quelle amicizie che pareva avessero a durare tutta la vita. Ne scordi, di lì a un mese, perfino il nome. «Mascherini? ci ho fatto il soldato insieme. Dov’è andato a finire? Un ragazzo in gamba.» Non hai altro da dire. Hai servito la patria, ti sei affezionato a un tenente o un capitano: questo ti resta; non sei scontento, è la tua laurea di uomo; è una costumanza ed è un dovere che non ti dispiace di aver rispettati, scuoti la testa e sorridi. Ora, a tu per tu con la vita di prima, scopri di dover ricominciare tutto daccapo.

Metello, come lui diceva, «scontò» trentasei mesi e non si sottrasse alla norma; anche nella sua vita, furono tre anni su cui venne tirato un frego. Conobbe Napoli per disteso, ma nell’unica direzione che dalla caserma dei Granili conduce fino a Bagnoli: una marcia ripetuta mesi e mesi, con lo zaino affardellato pesante venti chili, e due «alt»: alla Torretta e poi ad Agnano. Si arrivava sfiniti, si crollava su un prato, e si rientrava; altri quindici chilometri, questa volta tutta una tirata. Il signor maggiore camminava in testa, batteva il frustino sui gambali. Col timore d’essere mandati in Abissinia: c’era stata Dogali, Adua: si tendeva l’orecchio ogni mattino, dalla camerata, alla voce dello strillone, e si guardava negli occhi il sottufficiale di giornata. Si scampò. Anche si scampò di venir distaccati in Sicilia a dar la caccia a quei banditi: fu mandata, del suo reggimento, una sola compagnia, la terza, e tornarono, del resto, tutti vivi. Gli si ventilò la possibilità che in quanto muratore dovesse passare dalla Fanteria al Genio e di essere trasferito a Vicenza, all’altro capo d’Italia, ma era in carcere in quei giorni, per via della lettera di Pescetti, e ci rimase. In prigione, a Napoli e in fanteria.

Ora, lo tenevano d’occhio. Erano state chieste a Firenze le informazioni secondo le quali egli era un «socialista anarchico», uno schedato. Il sergente gli disse: «Tu, coi tuoi precedenti, te li sogni i gradi di caporale».

Egli rispose, ma non per spregio, gli sembrò di dire una cosa spiritosa: «Diventar “caporale” non è mai stata la mia ambizione».

Usciva allora di prigione e ci tornò per una terza settimana.

Questo gli risparmiò di far parte dei plotoni che dovettero caricare gli scioperanti pastai riunitisi sulla piazza di Gragnano; già gli avevano tolto l’onore di sfilare in parata per la festa dello Statuto. Ma anche, siccome era muratore, lo misero al lavoro: c’era sempre una crepa sul muro, un davanzale, uno scalino da rattoppare.

Napoli fu per Metello il Rettifilo, via Toledo, piazza Plebiscito, e via Sergente Maggiore, via de’ Fiorentini, quando gli sembrava di non aver altro da fare e si voleva prendere una distrazione. Non soltanto la mancanza di denaro, ma la divisa un poco lo umiliava; e dové adattarsi a quelle domestiche della villa comunale, seppure non erano, per lui che aveva avuto Viola, proprio il suo tipo. Col tempo, fece ghega insieme a un livornese, uno di Cascina, un fiorentino di porta Romana: Mascherini, che negli anni dipoi non seppe mai dove fosse finito. Leoni, quello di Cascina, riceveva denaro, suo padre era mobiliere, ed egli era tirato ma finiva per offrire. Fu un sodalizio che durò a lungo: si frequentarono le bettole di Forcella, del Vasto e del Pendino, rioni che chiamano sezioni, come chi dicesse Sezione San Niccolò o Madonnone. Ebbero a che fare con la gente, per quei vicoli traversi o tutti in salita, dove la miseria e la sporcizia erano pari all’animazione che vi si trovava. Entrarono, piuttosto che in via Sergente Maggiore, in alcuni di quei «bassi», dietro una sottana: ragazze tutte more di capelli, dai volti appassiti e i grossi seni. I bambini giocavano al di là della tenda. Non ci si toglieva nemmeno le mollettiere. Poi magari si restava a cena con tutta la famiglia, si diventava amici, ci tenevano in conto di figlioli: era gente come noi, come il livornese che non viveva meglio dietro la Darsena, come Mascherini che aveva il babbo fiaccheraio. E un po’ ci si vergognava. Si vuotavano le tasche dell’ultimo soldino, come per farci perdonare. Cose trapassate nella memoria, viste e vissute da dentro la campana.

Erano avventure di Vico Gelso e Conte di Mola, nomi di un’intricata e irricostruibile topografia: a due passi, comunque, da via Toledo e dal Castello. Più in là c’era «basciopuorto», e poi Borgo Loreto: ci stava la «guapparia», non ci si poteva passare, se la ronda ti c’incontrava erano dieci di semplice e cinque di rigore. Si preferiva, certe sere, teatro San Ferdinando dove c’era Pulcinella. Anche se si capiva poco di quel che diceva, la trama resultava chiara: Pulcinella faceva ridere come Stenterello perché come Stenterello aveva sempre fame.

Questo era il suo ricordo di Napoli, dove pure risiedé tre anni: tante immagini di un tempo in cui spontaneamente si era persuaso di non dover pensare ma saltare alla sbarra, marciare, ramazzare, mettere i tacchi uniti e la baionetta in prospettiva a due palmi dal naso, durante il «presentat’arm»! Delle sue avventure degli ultimi tempi, in compagnia del livornese, di Leoni e Mascherini, già allora si perdeva il sapore, e il rimorso: la disciplina della caserma, le cancellava. Ed avevano sempre la preoccupazione, non c’era giorno che un superiore non glielo ricordasse, di essere picchiati e spogliati ad indugiare in uno di quei «vichi». Perciò non tornarono quasi mai dentro lo stesso «basso» e non andavano mai più di due volte dietro la medesima sottana.

S’imparò, anche, a mangiare cose che non s’eran mai mangiate, che seppure si conoscevano, si disprezzavano e che quella gente, al contrario, inseguiva dandosi daffare tutta una giornata: le «maruzze» ch’erano arselle ma d’una diversa specie, le pannocchie di granturco lessate, i piedi di porco. Costoro n’eran ghiotti, forse perché erano sempre stati più poveri e meno raffinati di noi. «È tutto dire.» E s’imparò, infine, la loro lingua. Gli sembrò che quel dialetto non avesse più misteri: provavano in branda, prima del «silenzio», divertiti, a ripassarne il vocabolario, una trentina di parole, ma si poteva avere e dir tutto con quelle sole: iammo ’ncoppa abbascio; guaglio’ picceré paisà; appiccia stuta arapi scetete cucchete; aiza pava chiano-chià chedé; mammeta patete sora frate; ricchione mazzo purchiacca; pummarola pizza panzarotto cazone; jettasanghe vieneaccà chitevvivo vaffammocca fetentone; songo stongo numefido ’nguajato. Altre ancora, di cui mai compresero il significato, e che di volta in volta gli venivano rivolte come dei complimenti, come delle ingiurie: ’npiso scapucchiò cavulicchiò ranciofellò.

Mascherini diceva: «Viva Garibaldi che ci ha rimescolato».

E un giorno la campana si solleva, l’acquario si prosciuga, si esce dal vaso di spirito, sei congedato e torni a respirare. Lentamente il cervello riesce a connettere più distesi pensieri, ma la libertà appena riconquistata, subito propone, e in termini inconfutabili e crudeli, il bisogno del pane e del lavoro. C’è tutto da ricominciare, con tre lire in tasca e il vecchio vestito di borghese, che ora ci va stretto ed ha perduto la sua tinta originale. A Firenze, cosa l’aspettava? Egli voleva credere che sarebbe stato facile riavere il posto in cantiere e potere affittare una camera, disporsi all’avvenire. Intanto, allontanandosi da Napoli, guardandola un’ultima volta dal finestrino del treno, fece questa riflessione: «Se non venivo qui a fare il soldato, chissà il mare quando l’avrei conosciuto».

E fu, senza ch’egli se lo dicesse, un modo di consolarsi e di pensare che dopotutto, anche dall’esperienza più negativa e più vieta, qualcosa si riesce sempre a salvare.

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Foto: Pratolini negli anni Settanta
(LaPresse)