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  • Giovedì 3 ottobre 2013

Il nuovo romanzo di Alain Mabanckou

Le prime pagine di "Zitto e muori", che racconta la vita degli africani in Francia e sarà presentato al festival di Internazionale a Ferrara

Giovedì 3 ottobre uscirà per la casa editrice 66thand2nd Zitto e muori, il nuovo libro di Alain Mabanckou, scrittore, poeta e giornalista congolese. Il giorno dopo, venerdì 4 ottobre, il romanzo sarà presentato al festival di Internazionale a Ferrara da Mabanckou insieme con lo scrittore italoalgerino Amara Lakhous, a partire dalle 21 al Chiostro di San Paolo.

In Zitto e muori il giovane congolese Julien Makambo racconta dal carcere il suo arrivo in Francia e la vita a Parigi, dove un trafficante lo ha introdotto alla comunità degli espatriati africani. Dopo un primo periodo tranquillo, Makambo accetta una missione misteriosa propostagli da Bolawa che lo porta a trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato: improvvisamente accanto a lui una ragazza bionda viene spinta già da una finestra e muore. Makambo viene accusato dell’omicidio e arrestato.

Alain MabanckouAlain Mabanckou è nato nel 1966 nella Repubblica del Congo e si è trasferito a Parigi 1989. Dal 2002 vive negli Stati Uniti, dove ha insegnato letteratura francofona alla University of Michigan e poi alla University of California. Nei suoi romanzi, tradotti in quindici lingue, racconta l’Africa contemporanea e la vita della diaspora africana in Francia. Ha vinto numerosi premi, tra cui il Renaudot per Memorie di un porcospino e il Gran Premio dell’Académie française, e ha pubblicato con la prestigiosa casa editrice francese Gallimard. In Italia per 66thand2nd sono usciti Black Bazar, Domani avrò vent’anni, e Zitto e muori, di cui proponiamo di seguito le prime pagine, tradotte da Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco.

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Prologo
Non sono solo in questa cella. La divido con Fabrice Lorient, un francese sulla quarantina, anche lui in stato di detenzione provvisoria per – così mi ha detto – «una cazzata, una cosa da nulla». Non so che cosa intenda esattamente con «una cazzata, una cosa da nulla», ma è talmente sicuro del fatto suo che ha giurato di chiedere un risarcimento per quella detenzione a suo dire illegale.

Fabrice risiede qui da due anni e, a giudicare da quanto è smaliziato, ho l’impressione che padroneggi perfettamente il funzionamento della macchina giudiziaria di questo paese, soprattutto del sistema penitenziario. Ci ha tenuto a redigere lui stesso la sua richiesta di libertà provvisoria, per la quale aspetta con impazienza la risposta, mentre io ho lasciato fare all’avvocato Champollion.

Fabrice è alto, è un bel ragazzo con una muscolatura scolpita, maculata di tatuaggi che riproducono nei minimi dettagli i volti della moglie e del figlio. In un certo senso mi ricorda il mio connazionale Pedro, il mio «fratello maggiore», ma in versione più sportiva. Fabrice tiene ai suoi muscoli più che a ogni altra cosa al mondo, Pedro invece ha la fissazione del look, dei vestiti eccentrici e dai colori accesi. Se il mio compagno di prigionia mi fa pensare tanto a lui è anche perché, da quando dividiamo questa cella, mi sento come a casa, come nel nostro monolocale di rue de Paradis. Lì il capo era Pedro, qui naturalmente è Fabrice che comanda. Innanzitutto perché, come Pedro, è più grande di me e poi perché sta qui da molto prima. E io ho una certa tendenza a onorare il diritto di anzianità, che nella nostra tribù bembe è un dovere sacro. Il fatto che Fabrice sia un bianco non cambia il mio atteggiamento nei suoi confronti, è un «fratello maggiore» anche lui, punto e basta. Il rispetto che gli dimostro lo irrita un po’. Pensa che lo faccio perché voglio mettermi sotto la sua protezione. Su questo è stato molto chiaro fin dal primo giorno:
«Senti, bello, qua io e te abbiamo a disposizione nove metri quadrati in tutto, e se a scuola eri bravo in matematica hai già capito che ci toccano quattro metri quadrati e mezzo a testa. Non voglio problemi con te. Sto solo aspettando tranquillamente di uscire da questo buco per rivedere mia moglie e mio figlio. Quindi i tuoi fratello di qua fratello di là del cazzo con me non attaccano, perché, a quanto mi risulta, io fratelli non ne ho, a meno che mio padre non abbia messo le corna a mia madre! Ad ogni modo io sono figlio unico, e ci tengo a restarlo! Afferrato il concetto?».

Siccome non rispondevo, ha continuato:
«Un’altra cosa, prima o poi mi devi dire che hai fatto veramente. Mica ci si finisce così, per caso, in questo bel posticino, un motivo c’è sempre. Ne ho sentite dire di cotte e di crude sul tuo conto dalle guardie, qualche ora prima che arrivassi. Secondo loro sei un delinquente incallito, e se stavamo ai tempi della ghigliottina tu saresti stato sicuramente il primo della lista».
Ha fatto una pausa, poi, rendendosi conto di aver passato il segno, ha farfugliato:
«Dicono che sei coinvolto in quella storiaccia della biondona di rue du Canada! Ne hanno parlato alla televisione e sui giornali, sei stato tu, eh? L’hai accoppata tu, quella povera ragazza del XVIII arrondissement, vero? Cazzo, divido questo loculo con un accoppatore professionista».
Visto che continuavo a non rispondere, ha brontolato:
«Comunque non c’è fretta, prima o poi verrai tu stesso a dirmelo. Sì, voglio sentirlo dalla tua viva voce».
È stato allora che ho iniziato a scrivere questo diario…

Chiamatemi «José Montfort»
Mi chiamo Julien Makambo. Nelle settimane immediatamente successive al mio arresto, e anche parecchio prima che mi beccassero, la mia bella faccia e il mio altro nome, José Montfort, sono stati ogni giorno in prima pagina su quasi tutti i quotidiani di Francia e Navarra. Nella lingua che parliamo nel Congo- Brazzaville, il lingala, Makambo significa «guai». Non so come gli è saltato in testa ai miei genitori di mettermi un nome così, un nome che peraltro non è neanche quello della buonanima di mio padre, tantomeno quello di un’altra persona di famiglia. Ormai sono convinto che il nome influisce sul destino di chi lo porta. Se quel venerdì 13 non fossi andato con Pedro al ristorante L’Ambassade a conoscere un tipo che veniva da Brazzaville e che lui definiva «molto importante», forse non mi troverei da un anno e mezzo in questa cella di Fresnes, in detenzione provvisoria. E invece eccomi qua, quando uno si chiama Makambo le cose non sono mai così semplici.

***

Ogni volta che vengono a prelevarmi dalla cella per gli interrogatori col giudice istruttore o per i colloqui con l’avvocato che mi hanno assegnato d’ufficio, mi viene quasi voglia di chiedere ai secondini perché sono così tanti a scortarmi, manco fossi il famigerato Guy Georges, l’assassino che terrorizzava tutta Parigi Est violentando e uccidendo giovani donne nei parcheggi. Non sono neanche uno di quei serial killer che si vedono nei film americani e che vengono rinchiusi a Alcatraz. Quelli sono guardati a vista sette giorni su sette, ventiquattr’ore su ventiquattro, non hanno nessuna speranza di essere rimessi in libertà e non potranno mai riprendere il loro malefico progetto di distruzione del genere umano, cosa che invece Guy Georges faceva ogni volta che usciva di prigione. Cito il nome di questo criminale perché un detenuto che sta in una cella in fondo al corridoio un giorno mi ha detto che gli assomiglio e che con la mia «faccia strana» – sono parole sue – anche un cieco direbbe a colpo sicuro che sono un assassino nato, un assassino della stessa risma di quelli che si vedono sul grande schermo. Discorsi come questo, ovviamente, mi mandano in bestia. La gente è troppo condizionata dal cinema e non sa che il più delle volte quelli che fanno questo tipo di film si limitano a prendere un fatto di cronaca nera che ha scioccato l’opinione pubblica, lo ritoccano un pochino, aggiungono la musica per creare l’atmosfera e nelle prime scene ci mostrano una famiglia della classe media che vive in un quartiere tranquillo con dei bei bambini simili ai nostri. Da un flashback in bianco e nero capiamo che l’assassino ha avuto un’infanzia difficile, che ha cominciato a fare a pezzi topi e scoiattoli nel giardino di casa prima di trasferire le sue pulsioni criminali sulla società. Questo odioso personaggio si insinua nell’appartamento passando dalla porta sul retro, attraversa il salotto mentre la famigliola dorme profondamente e massacra tutti con la freddezza di una macchina programmata per uccidere.

Terminata l’opera, si dilegua, ma subito riprende la sua attività diabolica in un altro quartiere, lasciandosi dietro una serie di indizi che i poliziotti, disorientati, riusciranno a collegare soltanto mesi o addirittura anni più tardi. Io non ho niente a che fare con tutto ciò. La mia vita non è un film e la mia storia appartiene alla realtà. Oltretutto ho sempre avuto paura del sangue, e questa fobia è all’origine di certi miei comportamenti che, se non dessero credito a quanto hanno sentito dire a proposito del delitto di rue du Canada, alcuni troverebbero ridicoli. Al ristorante, per esempio, non ordino mai carne al sangue e neppure guardo nel piatto di chi la mangia, altrimenti mi viene la nausea e comincia a girarmi la testa. Il ketchup, la granatina e le arance rosse mi danno il voltastomaco. I cadaveri mi fanno paura; il primo che ho visto da vicino è stato proprio quello della ragazza di rue du Canada.

Quando il magistrato di sorveglianza ha disposto la mia detenzione provvisoria, la mia mente ha registrato soltanto il termine «provvisoria», perché mi lasciava intravedere uno spiraglio, mentre alla parola «detenzione» associavo l’immagine di una pesante porta metallica sprangata dall’esterno. I mesi passavano, gli interrogatori si susseguivano, e a volte gli inquirenti mi trascinavano sul luogo del delitto per ricostruire la scena. Mi mostravano anche foto di persone che non avevo mai visto in vita mia. Sul conto dei cinque connazionali con cui dividevo l’appartamento di Pedro in rue de Paradis, nel X arrondissement, magari un paio di cose le potevo anche dire, ma quando mi trovavo davanti certe facce di perfetti sconosciuti non potevo che fare scena muta. Volevano che identificassi quei tizi, che dicessi in che rapporti ero con loro e se sapevo dove si trovavano. Io spazzavo via le foto col dorso della mano, il che esasperava il giudice istruttore e mandava in bestia il mio avvocato. Siccome mi facevano sempre le stesse domande, davo sempre le stesse risposte, e loro le annotavano come se sentissero per la prima volta fatti che invece erano già registrati nero su bianco nei loro fascicoli e scrupolosamente archiviati nei loro terminali. Dopo un po’ cominciavo a dare segni di cedimento e non capivo più se ero il personaggio di un film americano o se mi trovavo nella vita reale. Nonostante l’insistenza degli inquirenti le mie risposte non cambiavano di una virgola. Ero diventato un pappagallo, ma non recitavo mai quello che loro cercavano in tutti i modi di farmi dire solo per incastrarmi definitivamente. Alcune domande erano a trabocchetto:

«Dunque, siamo d’accordo sul fatto che lei sapeva cosa sarebbe successo quel giorno in quel palazzo e che ha agito con piena cognizione di causa?» insinuava il giudice istruttore.
E io, sfinito per la lunghezza dell’interrogatorio, gli rispondevo con calma:
«Signor giudice, a questa domanda ho già risposto un istante fa…».

C’era anche una psichiatra con i capelli grigi e ricci, che portava un paio di occhiali da vista enormi, simili alle ruote di una bicicletta usata. Il nome non me lo ricordo, ma che importa. Parlava un francese semplificato, mi guardava con commiserazione e cercava nelle espressioni della mia faccia e nel mio modo di muovere le mani o le gambe qualche segno che confermasse la sua diagnosi. E che dire degli esercizi grotteschi che mi imponeva e che mi facevano assomigliare a un pinguino solitario sperduto sui ghiacci? Alla fine era giunta alla conclusione che ero perfettamente consapevole delle mie azioni e aveva respinto l’idea che fossi un soggetto influenzabile, un soggetto che rischiava di farsi coinvolgere da altri individui in imprese criminali. A suo avviso le mie azioni erano ponderate, e io non ero affetto da nessuna forma di infermità mentale.

Nel frattempo passavano i mesi e quella che doveva essere una cosa «provvisoria» si prolungava all’infinito: in una situazione come la mia solo un ingenuo avrebbe continuato a non capire che ormai era dentro e che ci sarebbe rimasto fino al giorno, tutt’altro che imminente, del processo. Il mio avvocato, l’avvocato Champollion – che non mi sta per niente simpatico –, mi aveva assicurato che, fino a un’eventuale sentenza di condanna, avrei goduto della presunzione d’innocenza. Secondo lui, per il momento, si trattava di una semplice misura preventiva. Però ancora oggi, tutte le volte che ci parlo, si mostra piuttosto evasivo e mi fa la paternale grattandosi la pelata:
«Signor Montfort, la legge ha una sua logica. Voglio dire che non basta gridare ai quattro venti la propria innocenza, bisogna anche provarla. E le prove non le trovano mica gli immigrati che puliscono le strade di Parigi all’alba. La cosa richiede un lavoro lungo e faticoso, e il suo non è l’unico processo in lista d’attesa in questo paese».

Detesto il modo in cui mi parla. Non sono suo figlio, e tantomeno quel genere di negro dell’epoca coloniale a cui bisognava spiegare le parole difficili con i sinonimi. Se l’è dimenticato che ho fatto il liceo e che ho preso la maturità? Quando è morto mio padre ho dovuto interrompere gli studi per aiutare mia madre e mia sorella. Sono orgogliosissimo del mio livello di istruzione, della mia passione per i libri, della mia vivacità intellettuale, e tutti quelli che mi conoscono, non lo dico per vantarmi, confermano che nella nostra comunità, qui a Parigi, io spicco per intelligenza e cultura. Anche la psichiatra ha detto di essere rimasta positivamente colpita dal mio Qi e ha riconosciuto che si trovava di fronte a un individuo le cui capacità intellettive erano di gran lunga al di sopra della media.

Ritengo invece che sia stato un po’ eccessivo, da parte sua, arrivare alla conclusione che tendo sistematicamente a negare le mie responsabilità. Proprio io che sono di una lealtà esemplare nei confronti della mia gente e che sono sempre stato pronto a rischiare la vita per gli altri.