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  • Martedì 17 settembre 2013

I risarcimenti alle famiglie dei morti di Dacca

Dopo 5 mesi dal più grande disastro industriale del Bangladesh, molti non sono ancora arrivati, spiega BBC

A mourner holds up a portrait of her missing relative (L), presumed dead following the April 24 Rana Plaza garment building collapse, and a bone fragment (R) believed to be from one of the many unidentified remains of killed garment workers, at the scene on the one hundredth-day anniversary of the disaster in Savar, on the outskirts of Dhaka, on August 2, 2013. Hundreds of garment workers staged demonstrations at the site of Bangladesh's worst industrial disaster, demanding compensation for the survivors and a full account of the missing labourers of the April 24, 2013 factory building collapse that killed 1,129 people. AFP PHOTO/ Munir uz ZAMAN (Photo credit should read MUNIR UZ ZAMAN/AFP/Getty Images)
A mourner holds up a portrait of her missing relative (L), presumed dead following the April 24 Rana Plaza garment building collapse, and a bone fragment (R) believed to be from one of the many unidentified remains of killed garment workers, at the scene on the one hundredth-day anniversary of the disaster in Savar, on the outskirts of Dhaka, on August 2, 2013. Hundreds of garment workers staged demonstrations at the site of Bangladesh's worst industrial disaster, demanding compensation for the survivors and a full account of the missing labourers of the April 24, 2013 factory building collapse that killed 1,129 people. AFP PHOTO/ Munir uz ZAMAN (Photo credit should read MUNIR UZ ZAMAN/AFP/Getty Images)

Il 24 aprile scorso più di 1000 persone sono morte a causa del crollo di un palazzo di nove piani a Dacca, in Bangladesh, che tra le altre cose ospitava cinque laboratori adibiti alla lavorazione dei tessuti per alcune società occidentali, come l’italiana Benetton. Dopo cinque mesi molte delle vittime non sono ancora state identificate, e per questa ragione ai loro famigliari è stato negato qualsiasi risarcimento. Come spiega BBC, da mesi il problema più grande per l’identificazione dei morti è la mancanza di un software specifico in grado di abbinare i campioni del DNA raccolti sul luogo del crollo con quelli forniti dai famigliari delle vittime alle autorità bengalesi.

Il problema dell’identificazione delle vittime coinvolge oggi circa 300 famiglie: alcuni parenti dei morti hanno raccontato di avere provato altre strade per riuscire ad ottenere un aiuto finanziario dal governo, senza però riuscirvi. BBC riporta la storia di Babul Soiaal, rimasto vedovo nel crollo del palazzo a Dacca. Soiaal non è riuscito a dimostrare l’identità della moglie con il test del DNA, e ha consegnato alle autorità la busta paga della moglie per provare che era una dipendente di un’azienda che aveva la sua sede nel palazzo crollato a piazza Rana: «Ho fatto una copia di questi documenti e li ho dati al governo e ad altri enti coinvolti, e gli ho detto che in caso di dubbi avrebbero potuto inviare un gruppo di ispettori nella nostra città, per verificare che mia moglie non è mai tornata a casa». I documenti di Soiaal comunque non sono stati sufficienti ad ottenere un risarcimento.

Oltre alle famiglie dei morti, anche molti feriti si trovano oggi in condizioni difficili, senza alcun aiuto finanziario delle autorità bengalesi. Yanoor, una ragazza di 14 anni che secondo i termini dell’accordo industriale del paese non avrebbe dovuto nemmeno lavorare nelle aziende tessili, è stata sottoposta a diverse operazioni alle gambe, senza però ricevere alcun risarcimento né dal governo né dalla compagnia per cui ha lavorato. Il motivo, dice il governo, è che non ci sono prove che dimostrano che queste persone si trovavano nell’edificio a Dacca al momento del crollo.

Il fatto che molte persone, anche ragazzini, lavorassero senza risultare ufficialmente dipendenti delle industrie tessili, ha complicato ancora di più le cose: per queste persone, che vengono considerate manodopera a bassissimo costo, non è nemmeno possibile dimostrare di essere stati presenti nel palazzo di piazza Rana al momento del crollo. In molti sono rimasti esclusi dall’accordo che è stato concluso nel luglio scorso tra settanta grandi catene di distribuzione internazionale e multinazionale dell’industria tessile con i sindacati del Bangladesh: l’accordo prevedeva una sospensione dei lavori fino a che non si fossero messe in sicurezza le fabbriche. Inoltre si stabiliva che durante il periodo di chiusura i lavoratori e le lavoratrici – ovviamente solo quelli che risultavano in regola – continuassero a ricevere lo stipendio per un massimo di sei mesi.

Il problema del governo del Bangladesh, spiega BBC, è soprattutto economico: le autorità stanno risarcendo e aiutando alcune delle famiglie delle vittime grazie a un fondo di aiuti di emergenza, ma non sono in grado di garantire un’assistenza a lungo termine. La situazione del paese era stata spiegata bene da un articolo del Wall Street Journal poco dopo il crollo di aprile. La povertà, diceva il giornale americano, è molto diffusa. Il Bangladesh è di gran lunga il luogo dove la manodopera è più economica: da una parte diverse aziende internazionali, soprattutto nel settore tessile, ci hanno trasferito magazzini o stabilimenti; dall’altra parte moltissime persone ogni anno sono costrette ad andare all’estero per trovare un lavoro dignitoso.

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