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  • Martedì 13 agosto 2013

Che si dice di Jeff Bezos

Il Washington Post è andato a cercare dipendenti, colleghi e vecchi conoscenti del suo nuovo proprietario

di Antonio Russo – @ilmondosommerso

Jeff Bezos, CEO and founder of Amazon, is illuminated by a display screen at the introduction of the new Amazon Kindle Fire HD and Kindle Paperwhite in Santa Monica, Calif., Thursday, Sept. 6, 2012. (AP Photo/Reed Saxon)
Jeff Bezos, CEO and founder of Amazon, is illuminated by a display screen at the introduction of the new Amazon Kindle Fire HD and Kindle Paperwhite in Santa Monica, Calif., Thursday, Sept. 6, 2012. (AP Photo/Reed Saxon)

Lunedì 6 agosto il gruppo editoriale americano Washington Post Company ha annunciato di aver venduto il Washington Post – il giornale più importante del gruppo, e uno dei più famosi quotidiani al mondo – a Jeff Bezos, fondatore e amministratore delegato della società di e-commerce Amazon, per 250 milioni di dollari (meno dell’1 per cento del patrimonio stimato di Bezos). La proprietà del Post passerà dalla famiglia Graham – a capo del giornale da quattro generazioni – a Bezos, che diventerà l’unico proprietario, e che in una lettera alla redazione ha confermato l’accordo e descritto il futuro prossimo del giornale.

Certamente ci saranno dei cambiamenti nel Washington Post, nei prossimi anni: è necessario, e sarebbe accaduto con o senza la nuova proprietà. Internet sta trasformando quasi ogni aspetto del business dell’informazione: sta abbreviando il ciclo delle notizie, esaurendo le vecchie fonti di guadagno a lungo affidabili, e permettendo nuovi modelli di concorrenza, alcuni dei quali riducono o eliminano del tutto i costi di raccolta delle informazioni. Non ci sono mappe per orientarsi, e tracciare il percorso non sarà facile. Avremo bisogno di inventare, che vuole dire che avremo bisogno di sperimentare.

«Al momento, il miglior modo per scoprire le sue ragioni è guardare nel suo passato», è scritto di Bezos in un lungo articolo pubblicato in apertura di homepage del Washington Post due giorni dopo la notizia e firmato da Peter Whoriskey (ma preparato da un gruppo di sei giornalisti): che – a partire dai racconti di colleghi, vecchi amici, dipendenti ed ex dipendenti di Bezos – ha raccolto informazioni sul passato del nuovo proprietario, cercando di ricavarne un ritratto personale e un’idea dei suoi pensieri. Bezos ha 49 anni, una moglie – MacKenzie Bezos, scrittrice – e quattro figli.

Che tipo è
Dai racconti messi insieme dai giornalisti del Washington Post – che sembrano molto interessati al carattere del loro nuovo capo e al suo rapporto con i dipendenti in Amazon – Jeff Bezos appare un uomo «spietato» con i suoi concorrenti e molto duro con gli impiegati che non ritiene all’altezza. Una persona molto curiosa e attratta dai grandi progetti, un uomo d’affari determinato che ama prendersi dei rischi: aveva appena lasciato il suo posto da vicepresidente di una società di Wall Street, quando nel 1994, a trent’anni, fondò in un garage a Seattle quella che poi sarebbe diventata Amazon. Daniel Hillis, scienziato statunitense, amico di Bezos, ha detto al Washington Post: «una delle cose che lo rende diverso è che ha sempre la mente proiettata nel futuro, ha una certa visione di come vorrebbe che fosse il mondo, un’idea di come lo vorrebbe migliore».

Ma su Bezos non la pensano tutti allo stesso modo, specialmente tra i suoi ex colleghi: secondo alcuni di loro, le sue richieste incessanti e i suoi rimproveri a volte sfociano in umiliazioni ai danni dei dipendenti. E anche sulle sue motivazioni e ambizioni ci sono opinioni discordanti tra i suoi ex collaboratori. Shel Kaphan – un ingegnere informatico oggi sessantenne, che fu il primo impiegato di Amazon nel 1994 – ha detto al WP: «certamente Bezos sa come portare avanti un’azienda e prendersene cura, ma io l’ho anche visto rovinare la gente in tante occasioni». E riguardo all’acquisto del Washington Post, Kaphan – che lasciò Amazon quando il suo ruolo fu ridimensionato – ha aggiunto: «mi dispiacerebbe molto vedere il giornale convertito in un megafono aziendale ultraliberal».

Un altro ex dipendente di Amazon – Paul Davis, il secondo in ordine di tempo, e ingegnere informatico anche lui – ha commentato diversamente la notizia: «se qualcuno pensa veramente che Bezos sia spinto dall’avidità e dal desiderio gretto di aumentare le sue ricchezze, direi che è fuori strada». Per quanto incredibile sia stato il successo ottenuto da Bezos negli ultimi venti anni, Davis ritiene che le sue attuali motivazioni non siano diverse da quelle che nel 1994 lo spinsero a fondare Amazon, e crede che Bezos sia la stessa persona di allora: «straordinariamente intraprendente, capace di scrollarsi di dosso ogni ambiguità morale, e sempre fissato con i grandi obiettivi e con i grandi progetti».

«Bezos sa anche essere un grandissimo stronzo», ha detto una delle prime impiegate di Amazon, Ellen Ratajak, riferendosi principalmente alla “testardaggine irrazionale” del suo ex capo con i suoi dipendenti. Ma Ratajak ha poi aggiunto: «Ha dimostrato di avere cuore, proprio alla luce dei principî dei suo lavoro: non voleva soltanto soddisfare i clienti e fidelizzarli, voleva deliziarli».

Le idee di Bezos sono biasimate in modo più unanime tra molti dei suoi concorrenti: nel corso degli anni, a fronte del grande successo con i clienti, le politiche aziendali di Amazon hanno spesso suscitato le critiche di molti editori che, scrive il WP, ancora vedono in Bezos un “bullo” che ha ridotto i loro ricavi e che ha anche giocato sporco contro la concorrenza, sfruttando alcuni vantaggi fiscali.

Un aneddoto dell’infanzia
Jeff Bezos è sempre stato un tipo sveglio, fin da piccolo. Come esempio della sua passione per la matematica e per i calcoli, il Washington Post ha ripreso un aneddoto di quando Bezos era bambino: un giorno – mentre era in macchina con i nonni, sul sedile posteriore – calcolò a mente l’aspettativa di vita di sua nonna, fumatrice, considerando il numero di sigarette che fumava ogni giorno. Aveva sentito dire che ogni tirata di sigaretta sono due minuti di vita in meno, e dopo qualche operazione aritmetica bussò alla spalla della nonna e le disse: «calcolando due minuti per ogni tirata, in totale ti sei tolta nove anni di vita». La nonna si mise a piangere, e più tardi il nonno lo prese da parte e gli disse: «Jeff, un giorno capirai che è più difficile essere gentili che intelligenti».

Tre anni fa, al termine di un discorso di commiato all’Università di Princeton (la sua università di provenienza) in cui citò proprio questo episodio, Bezos rivolse ai laureati queste domande: «Agirai senza rischi o sarai un po’ sfrontato? Quando si farà dura, ti arrenderai o sarai ostinato? Sarai una persona cinica o una persona propositiva? Sarete intelligenti a spese degli altri o sarete gentili con gli altri?»

Ci sono altri episodi, raccontati dal Washington Post, che attestano l’ingegno e la stravaganza del piccolo Bezos: un giorno la madre lo trovò con un cacciavite in mano mentre cercava di smontare la culla; un’altra volta, da ragazzo, costruì in garage un fornello a energia solare con della carta stagnola e un ombrello (trascorreva molto tempo a riparare e inventare oggetti). Era anche un fanatico di Star Trek, e quando giocava fuori con gli amici voleva fare la parte del signor Spock, del capitano Kirk o del computer («il computer?», gli chiedevano perplessi gli amici).

Gli anni del liceo e dell’università
Durante gli anni delle scuole superiori – dopo un lavoro estivo in un McDonald’s – creò con la sua fidanzata di allora un campo estivo per ragazzi portati per le materie scientifiche, al prezzo di 150 dollari per due settimane: i ragazzi studiavano argomenti come i buchi neri, scrivevano qualche programma elementare su computer Apple, e leggevano passaggi da I viaggi di Gulliver, Dune e La collina dei conigli. Un amico di Bezos dei tempi del liceo ha detto al Washington Post: «Non era un nerd – passava facilmente da un giro di amici a un altro – ma era un tipo molto competitivo e voleva a tutti i costi essere il primo della classe».

Nell’annuario di Princeton del 1987 – anno della sua laurea – Bezos citò, accanto alla sua foto, una frase di Ray Bradbury: «L’universo ci dice no, e noi in risposta gli spariamo contro una sventagliata di carne e gridiamo sì!». Si laureò col massimo dei voti in ingegneria informatica, ma inizialmente si era iscritto a fisica, e aveva poi cambiato indirizzo in corso quando si era reso conto di non essere abbastanza bravo («una delle cose più importanti che mi ha insegnato Princeton è che non sono abbastanza intelligente per essere un fisico», disse poi).

Un ex collega universitario di Bezos, Andy Fleischmann – che oggi è un deputato Democratico in Connecticut – descrive Bezos come una persona molto curiosa e conferma sostanzialmente la versione del vecchio compagno del liceo: «da trenta o quaranta anni circola quest’immagine comune dello studente appassionato di computer come una specie di nerd che vuole parlare soltanto di codici e di programmazione, ma Jeff non ha mai incarnato questo stereotipo in alcun modo: a lui interessavano un sacco di cose”.

Bezos e Amazon
Al Washington Post alcuni dei primi dipendenti di Amazon hanno detto che all’inizio pensavano che sarebbero stati l’equivalente virtuale di una libreria indipendente, e non che Amazon avrebbe minacciato l’esistenza stessa delle librerie. «Ancora oggi quando entro in una libreria chino la testa dalla vergogna», ha detto uno di loro (che ha chiesto di rimanere anonimo). Ma Bezos aveva sempre puntato a un progetto molto più grande di quanto non credessero i suoi collaboratori. Una volta, per festeggiare la prima giornata in cui raggiunsero 5 mila dollari di vendite in un solo giorno, un dipendente voleva organizzare un barbecue con tutti i colleghi, ma Bezos rispose: «Dovevamo essere migliori e più grandi di così. Dovevamo fare di più».

Bezos ha sempre cercato di assumere persone molto intelligenti, raccontano alcuni ex impiegati: a volte chiedeva ai candidati quale punteggio avessero ottenuto al SAT (un test attitudinale richiesto per l’ammissione ai college negli Stati Uniti). «Preferiva assumere persone brillanti e lasciarle lavorare liberamente», ha detto al Washington Post uno dei primi dipendenti di Amazon: «conoscevo un responsabile del servizio clienti che aveva un dottorato in qualcosa come bioingegneria».

Amazon ha anche attraversato momenti molto difficili – sia durante i primissimi anni, quando l’azienda stentava a ricavare profitti (pur a fronte di grandi fatturati), sia in seguito alla bolla delle dot-com, nel 2001 – e anche in quei momenti Bezos ha sempre dimostrato grande fiducia e grande coraggio. I dipendenti erano molto preoccupati, come anche gli investitori (nel 1997 Amazon era entrata nel mercato azionario), e le grandi catene di vendita di libri sembravano poterla tenere a bada: all’epoca Amazon aveva 150 impiegati e le librerie Barnes & Noble ne avevano 30 mila. Bezos convocò una riunione con tutti i dipendenti e disse: «sentite, dovreste svegliarvi ogni mattina non con la preoccupazione dei nostri competitor – che comunque non ci daranno mai soldi – ma preoccupati per i nostri clienti».

(Luca Sofri intervista Jeff Bezos, nel 2000)

Oggi Amazon ha più di 90 mila dipendenti, e l’anno scorso ha registrato 61 miliardi di dollari di fatturato (anche se i profitti negli ultimi trimestri, dice il Washington Post, sono stati relativamente scarsi).

Gli articoli sulle condizioni di lavoro in azienda 
Nel 2011 e nel 2012, alcuni giornali locali criticarono per diverse settimane le condizioni di lavoro all’interno dei magazzini di Amazon in Pennsylvania, Arizona, Kentucky e Washington. Al Morning Call, quotidiano di Allentown (Pennsylvania), alcuni dipendenti di Amazon raccontarono che la temperatura all’interno dei locali dei magazzini – dove non erano installati i condizionatori – superava i 37 °C. Altri dipendenti raccontarono anche delle condizioni molto dure a cui erano sottoposti gli impiegati: l’efficienza veniva regolarmente monitorata e registrata, e chi non riusciva a raggiungere gli obiettivi prefissati veniva subito licenziato.

Dapprima Amazon non rispose alle domande dei giornalisti, e negò l’accesso all’azienda; poi rispose al giornale in tre righe, garantendo che le condizioni di lavoro erano sicure. Quando anche il Seattle Times – quotidiano di Seattle, sede storica di Amazon – uscì con delle domande simili a proposito delle sedi di Washington, Amazon dimostrò maggiore apertura: a un giornalista fu permesso di entrare in due diversi magazzini, e un dirigente rispose alle domande sulle condizioni di lavoro in azienda.

Secondo Richard L. Brandt, autore di una biografia non autorizzata su Jeff Bezos (One click: La visione di Jeff Bezos e il futuro di Amazon), Bezos è una persona piuttosto schiva con i giornalisti, e preferisce parlare soltanto con alcuni giornalisti della stampa specializzata piuttosto che con quelli dei quotidiani. Di solito è lui a programmare le interviste, quando gli torna più comodo, come quando Amazon lancia dei nuovi servizi: «non sono i giornalisti a scegliere lui, è lui a scegliere loro», scrive Brandt.

Le posizioni politiche di Bezos
Nei prossimi giorni, scrive il Washington Post, l’attenzione dei media ricadrà – forse come mai prima d’ora – sull’orientamento politico di Bezos, in qualità di nuovo proprietario del Washington Post. Dai registri pubblici risulta che dal 1996 (cioè da quando risiede nella contea di King, Washington, quella di Seattle) Bezos ha votato soltanto 8 volte su 27. Il WP racconta anche di alcune donazioni di Bezos che potrebbero aiutare a saperne di più sulle sue posizioni politiche: una volta lui e la moglie donarono 2,5 milioni di dollari a favore dei matrimoni gay nello Stato di Washington, e in un’altra occasione Bezos versò 100 mila dollari per contrastare una tassa sui redditi alti.

Alla fine del 2010 Bezos prese anche posizione su una vicenda che coinvolse Wikileaks: a novembre, Wikileaks cominciò a utilizzare il servizio di hosting online di Amazon per diffondere documenti segreti, ma dopo aver ricevuto una telefonata dalla Commissione del Senato per la Difesa nazionale e gli Affari governativi, Amazon chiuse il contratto con Wikileaks per «violazione delle condizioni di utilizzo del servizio».

Gli altri affari e interessi di Bezos
Jeff Bezos possiede una società di ricerca spaziale chiamata Blue Origin, impegnata nello sviluppo di tecnologie che consentano di ridurre i costi dei viaggi spaziali: la società ha collaborato con la NASA in diverse occasioni, e ha ricevuto sempre dalla NASA un finanziamento di 3,7 milioni di dollari nel 2009 e un altro da 22 milioni nel 2011. «Sono molto interessato all’esplorazione spaziale – disse una volta Bezos a un suo dipendente – ma la verità è che ci vorrà ancora qualche anno, e Amazon mi sembra una cosa interessante da fare nel frattempo».

Ad aprile di quest’anno Bezos ha investito parecchi soldi su Business Insider – un giornale online di finanza e tecnologia diretto da Henry Blodget, suo vecchio amico – che grazie al capitale immesso da Bezos ha raggiunto un fondo complessivo di 5 milioni di dollari. Blodget, ex analista finanziario, divenne famoso alla fine degli anni Novanta come esperto di new economy: fu proprio lui nel 1998 a prevedere l’imminente crescita di Amazon, a dispetto della diffidenza degli osservatori dovuta alle grosse perdite economiche dell’azienda in quei primi anni di attività.

Tempo fa Bezos ha anche investito milioni di dollari su un progetto di Daniel Hillis, un suo amico scienziato: si chiama “Orologio del Lungo Presente” ed è un orologio che dovrà funzionare per 10 mila anni. Ha una lancetta che fa tic una volta all’anno, un braccio dei secoli che avanza ogni cento anni, e un cucù che viene fuori ogni mille anni.

La lettera di Weingarten a Bezos
Gene Weingarten – giornalista storico del Washington Post, vincitore del Pulitzer nel 2008 e nel 2010 – ha scritto e pubblicato sul giornale una lettera di benvenuto indirizzata al nuovo proprietario. «Ho letto che i 250 milioni che hai pagato per questo giornale rappresentano circa l’1 per cento del tuo patrimonio netto, cosa che rende questo tuo investimento importante e rischioso come lo sarebbe per me l’acquisto di una Honda Civic del 2003», scrive Weingarten, che poi si dimostra abbastanza fiducioso sulla possibilità di Bezos di riuscire a trovare il modo di rendere finalmente proficuo e redditizio il giornalismo convenzionale (nella lettera di qualche ora prima, a nome di tutta la famiglia Graham, Donald Graham – amministratore delegato di Washington Post Co. – aveva indirettamente ammesso di non essere riuscito a venire a capo del problema, e di non avere risorse sufficienti per affrontare le gravi perdite di profitti del giornale).

Weingarten cita a Bezos un episodio del 1982 – per lui abbastanza istruttivo – in cui le strade di Bezos e di Weingarten già si incrociarono (“è chiaro chi abbia vinto, poi”). All’epoca Weingarten lavorava al Tropic, il magazine domenicale del Miami Herald, e l’editore chiese alla redazione di scrivere qualcosa sui vincitori del Cavaliere d’Argento, un premio annuale riservato ai migliori studenti dell’area di Miami e finanziato dalla Knight-Ridder, società editrice proprietaria dello stesso Miami Herald (che, secondo Weingarten, scriveva di questa premiazione sempre con toni acritici e autocelebrativi). Weingarten e gli altri redattori del Tropic rifiutarono la storia: «eravamo un piccolo magazine che stava cercando di costruirsi un’identità forte e combattiva, e diventare i leccapiedi dell’azienda non era nei nostri piani».

L’editore ci rimase male e li rimproverò, ma accettò la scelta. Uno dei vincitori di quella edizione del Cavaliere d’Argento ignorata dal Tropic era proprio Jeff Bezos, allora diciottenne. Weingarten lo ha letto su Wikipedia, e aggiunge: «avevamo ragione noi, Jeff, ma soprattutto aveva ragione l’editore a permetterci di rifiutare». In seguito il Tropic si ritagliò un pubblico di lettori molto fedeli ed entusiasti, e i giornalisti e fotografi del Tropic vinsero due Pulitzer (e altre due volte arrivarono in finale), e tutto questo, scrive Weingarten, «accadde perché le persone sopra di noi si fidavano di noi, anche controvoglia, e ci guardavano le spalle».

Weingarten conclude così la lettera: «ovviamente sei un ottimo uomo d’affari, e dicono che tu sia un visionario. Spero che tu abbia una visione chiara di dove condurre questa straordinaria “azienda”. E mentre lo fai, ricordati di ribellarti a quelli sopra, e trattar bene quelli sotto» (“kick up, kiss down” è il ribaltamento di un’espressione idiomatica: in inglese, kiss up significa fare il leccapiedi).

«E scusa per il Cavaliere d’Argento. Ma avevamo ragione noi»

foto: AP Photo/Reed Saxon