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  • Martedì 25 giugno 2013

La Corte Suprema degli Stati Uniti e il voto delle minoranze

Ha dichiarato incostituzionale un pezzo di una storica legge approvata nel 1965 per limitare le discriminazioni elettorali

People wait in line outside the Supreme Court in Washington, Monday, June 24, 2013, as key decisions are expected to be announced. The Supreme Court has 11 cases, including the term's highest profile matters, to resolve before the justices take off for summer vacations, teaching assignments and international travel. The court is meeting Monday for its last scheduled session, but will add days until all the cases are disposed of. (AP Photo/Carolyn Kaster)
People wait in line outside the Supreme Court in Washington, Monday, June 24, 2013, as key decisions are expected to be announced. The Supreme Court has 11 cases, including the term's highest profile matters, to resolve before the justices take off for summer vacations, teaching assignments and international travel. The court is meeting Monday for its last scheduled session, but will add days until all the cases are disposed of. (AP Photo/Carolyn Kaster)

La Corte Suprema degli Stati Uniti si è espressa oggi sul “Voting Rights Act”, una legge che il Congresso degli Stati Uniti approvò per la prima volta nel 1965 per limitare le discriminazioni elettorali nei confronti dei neri, e che è considerata la parte più importante dell’intera legislazione sui diritti civili degli Stati Uniti. La Corte ha deciso per l’abrogazione della Sezione 4 della legge, cioè quella che obbligava nove stati – quelli in cui le forme di discriminazione erano più diffuse o in cui erano presenti le comunità di neri più numerose – a richiedere un’autorizzazione preventiva federale per cambiare la propria legge elettorale: questa era usata infatti spesso come strumento per estromettere i neri dal voto, o per far sì che il loro voto valesse di meno rispetto a quello degli altri.

Gli stati oggetto delle limitazioni – secondo la legge e con alcune eccezioni relative a singole città – sono Alabama, Alaska, Arizona, Georgia, Louisiana, Mississippi, South Carolina, Texas e Virginia.

La Corte non ha messo in discussione il principio dell’assenza di discriminazioni tra bianchi e neri, e dice che la differenza di trattamento dei diversi stati americani aveva una sua razionalità, sia nella pratica che nella teoria, negli anni in cui fu approvata la legge: ma oggi le cose sono cambiate e quindi quella differenza si deve considerare incostituzionale. Il giudice capo della Corte Suprema, John G. Roberts, ha detto che il Congresso se vuole può stabilire nuovi criteri per stabilire una supervisione federale sugli stati in cui il diritto di voto alle minoranze è considerato “a rischio”, ma deve farlo sulla base di dati attuali e non su dati e fatti risalenti a decenni prima, come successe nel 2006, anno in cui fu rinnovata la legge l’ultima volta. Secondo molti analisti, scrive il New York Times, le probabilità che l’attuale Congresso riesca a raggiungere un accordo in questo senso sono minime: di fatto si tratta di un obiettivo legalmente possibile ma politicamente impraticabile, specie finché i repubblicani conservano la maggioranza alla Camera.

La sentenza è stata approvata con 5 voti favorevoli e 4 contrari: la Corte Suprema è a maggioranza repubblicana, e tutti e cinque i giudici conservatori hanno votato a favore dell’abrogazione della Sezione 4 della legge, mentre i quattro giudici liberal hanno votato contro. La Corte non ha toccato invece la Sezione 5, quella su cui la stampa statunitense si era concentrata di più negli ultimi mesi. La Sezione 5 è quella che permette al governo federale di richiedere un’autorizzazione preventiva per la modifica della legge elettorale: ma senza la Sezione 4, la Sezione 5 è sostanzialmente priva di significato, a meno che il Congresso non dovesse decidere di stabilire nuove regole o criteri per far sì che questa regola venga applicata a determinate giurisdizioni.