Le dimissioni di Giovanni Leone

Avvennero 35 anni fa, in seguito ad accuse che poi si rivelarono false: furono le prime di un Presidente della Repubblica

di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca

Il 15 giugno del 1978, un giorno in cui a Roma pioveva, il Presidente della Repubblica Giovanni Leone firmò l’atto ufficiale delle dimissioni – le prime volontarie di un Presidente della Repubblica – e, dopo i saluti dovuti al protocollo, lasciò il Quirinale, rifiutando qualunque cerimonia. Erano in pochi, comunque, ad essere venuti per salutarlo. Le sue dimissioni arrivarono in seguito a una serie di insinuazioni, accuse e attacchi della stampa e del Partito Radicale, che erano andati avanti per mesi. Negli anni successivi la gran parte di quelle accuse si rivelò infondata. Nel 1998 Marco Pannella ed Emma Bonino gli chiesero ufficialmente scusa. Leone sarebbe morto tre anni dopo.

In realtà ci fu un caso, particolare, di dimissioni dalla carica di Presidente della Repubblica prima di quelle di Leone. Antonio Segni si dimise da Presidente, con cinque anni di anticipo sulla scadenza naturale del mandato. Segni era stato eletto nel 1962, e nel 1964 venne colpito da una grave trombosi cerebrale, che portò i presidenti della camere e il presidente del consiglio a firmare l’atto che decretava il suo “impedimento temporaneo”. Nonostante la gravità della malattia non vennne dichiarato “l’impedimento permanente”, che avrebbe portato a una nuova elezione immediatamente. Segni firmò le sue dimissioni volontarie poche settimane dopo l’ictus, il 6 dicembre 1964. Anche Sandro Pertini, nel 1985, e Francesco Cossiga, nel 1991, si dimisero dalla carica, entrambi con pochi giorni o settimane dalla scadenza naturale del mandato.

Chi era Giovanni Leone
Giovanni Leone nacque a Napoli il 3 novembre del 1908 e morì a Roma il 9 novembre del 2001. Fu un avvocato penalista, professore di diritto penale e un giurista molto importante. Fu deputato all’Assemblea Costituente, poi per tre volte alla Camera, e fu eletto nove volte senatore. Scrisse un manuale di diritto penale molto diffuso e nel 1955 contribuì a riscrivere il vecchio codice di procedura penale, il cosiddetto codice Rocco, che era in vigore dagli anni ’30. Per potere continuare a insegnare, negli anni ’30, fu iscritto al partito fascista. Nel 1944 si iscrisse alla Democrazia Cristiana, un partito nel quale rimase fino al suo scioglimento.

Nonostante fosse uno dei dirigenti più importanti della DC, molto popolare sopratutto a Napoli, Leone non fece mai parte di nessuna corrente e questo, secondo molti testimoni dell’epoca, finì sempre per danneggiarlo. Leone era percepito come un “notabile”, una figura prestigiosa, lontana dalle lotte di partito, a cui era possibile affidare incarichi che richiedessero una certa indipendenza, ma che spesso erano anche più simbolici che altro.

Leone fu presidente della Camera dal 1955 al 1963 – Francesco Cossiga lo definì il miglior presidente della Camera di sempre. Fu due volte presidente del Consiglio, ma sempre di quei governi che la stampa definiva “balneari”, cioè governi di transizione, poco importanti e che avevano soltanto il compito di portare il paese alle elezioni successive. Il primo fu dal giugno al dicembre del 1963, il secondo dal giugno al dicembre 1968.

Presidente della Repubblica
L’elezione di Leone alla presidenza della Repubblica è stata la più lunga della storia: per eleggerlo furono necessari 23 scrutini e 15 giorni. All’inizio delle votazioni, il 9 dicembre 1971, Amintore Fanfani era il candidato ufficiale della DC. Fanfani aveva numerosi nemici all’interno del partito e per sei scrutini consecutivi i “franchi tiratori”, ovvero i parlamentari che votavano diversamente dalla linea decisa dal gruppo, bloccarono la sua elezione. Su una delle schede, che Fanfani esaminava una ad una in quanto presidente del Senato, era scritto: «Nano maledetto, non sarai mai eletto». Per i primi sei scrutini e poi di nuovo all’undicesimo, Fanfani venne candidato senza mai riuscire a ottenere la maggioranza.

La DC rimase senza un candidato fino al ventunesimo scrutinio, mentre i suoi componenti si incontravano in maniera frenetica per cercare di mettersi d’accordo su un nome. La persona scelta fu Leone, una figura terza, lontana dagli scontri interni al partito e che poteva mettere d’accordo tutti quanti. In realtà anche Leone non fu facile da eleggere. Furono necessari due scrutini e i voti del MSI, cioè i voti di quelli che all’epoca si chiamavano apertamente “i fascisti”. Questo appoggio diventò un problema che Leone si sarebbe portato avanti a lungo.

La sua presidenza venne subito etichettata come una scelta conservatrice: oltre che a Fanfani, Leone era stato preferito anche ad Aldo Moro, considerato più vicino alla sinistra. In realtà Leone fu un presidente piuttosto equilibrato e lontano dal suo partito di appartenenza – uno dei motivi per cui negli anni successivi sarebbe stato, di fatto, abbandonato. Un altro motivo che gli alienò le simpatie della sinistra – anche di quella della DC – fu che  il 14 ottobre del 1975 inviò un messaggio alle Camere in cui chiedeva con toni molto accorati una riforma della Costituzione – che secondo lui non era più in grado di tutelare la libertà e la giustizia sociale – e l’attuazione delle sue norme che chiedevano di regolamentare con leggi apposite il diritto di sciopero e le organizzazioni sindacali.

Le critiche
Leone fu presidente della Repubblica durante gli anni più duri del terrorismo e della contestazione. Sotto il suo mandato ci furono la strage di Brescia e quella del treno Italicus. Proprio nei mesi delle sue dimissioni Aldo Moro venne rapito e assassinato: Leone fu sempre favorevole alla trattativa con le Brigate Rosse e scrisse alla famiglia di Moro che aveva «la penna pronta» per firmare la grazia ai brigatisti che i rapitori di Moro volevano liberare per mettere fine al sequestro.

Nel clima di quegli anni, Leone rappresentava per molti il simbolo del presidente di destra, pronto ad avallare derive autoritarie. A partire dal 1975 Leone venne criticato in maniera sempre più feroce, soprattutto sulla stampa ma anche al cinema: come ad esempio nel film a episodi del 1976 Signore e signori, buonanotte.

Molte critiche riguardavano il fatto di essere un gaffeur. Dal punto di vista personale, Leone era un personaggio abbastanza spontaneo e sopra le righe. Giulio Andreotti raccontò ad esempio che poco dopo la sua elezione si trovava con Leone a una commemorazione di Mazzini. Poco prima di entrare nella sala, davanti a numerosi giornalisti e altre personalità, Leone lo prese per il braccio e gli sussurrò: «Ho sentito dire che Mazzini porta jella. Tié!», facendo il gesto delle corna. Sempre il gesto delle corna venne immortalato in una famosa foto in cui Leone rispondeva a un contestatore che gli aveva urlato «Leone a morte!»

Altre critiche gli arrivarono per la condotta della moglie, Vittoria Leone, che aveva vent’anni meno di lui e compariva spesso sulle riviste di moda femminile, e per quella dei suoi figli. Queste e molte altre vennero raccolte in un libro dalla giornalista dell’Espresso Camilla Cederna. Giovanni Leone: la carriera di un Presidente, pubblicato nei primi mesi del 1978, vendette 700 mila copie in pochi mesi.

Già da tempo diversi settimanali, tra cui soprattutto L’Espresso, portavano avanti una campagna molto dura nei confronti di Leone, fatta di vignette dissacranti e commenti severi. Leone era in sostanza accusato di essere un presidente di destra, con tendenze autoritarie e amicizie poco limpide. Non gli era stato perdonato l’essere stato eletto con i voti del MSI e anche il suo messaggio alle Camere del 1975 era stato interpretato come una richiesta di riformare la Costituzione in senso autoritario.

Lo scandalo Lockheed
Mentre la sinistra attaccava Leone con forza e la DC stentava a difenderlo, scoppiò lo scandalo Lockheed. L’azienda americana produttrice di aeroplani rivelò nel 1976 a una commissione del Senato americano che aveva corrotto politici e funzionari di diversi paesi per spingerli a concederle importanti commesse. Tra questi paesi c’era anche l’Italia, che aveva acquistato dalla Lockheed alcuni grossi aerei da trasport C-130. Secondo le indagini della commissione del Senato americano, le trattative con il governo italiano erano avvenute nel 1968. Erano stati coinvolti come mediatori i fratelli Lefebvre, molto amici di Leone, oltre a uomini delle forze armate, ministri della Difesa e persino il presidente del Consiglio.

Fu possibile scoprire che nello scandalo fosse coinvolto anche un presidente del Consiglio – all’inizio non fu possibile capire quale – perché nel 1976 la Lockheed consegnò il “cifrario” con cui decrittare i suoi messaggi in codice. In uno dei messaggi c’era scritto che alcune tangenti erano state pagate ad “Antelope Cobbler” (antilope ciabattina). I due termini, nel cifrario, stavano per “Italia” e “primo ministro”, e nel 1968 i presidenti del consiglio italiani erano stati due: Mariano Rumor e Giovanni Leone. Le speculazioni su chi fosse dei due si concentrarono immediatamente su Leone per due motivi: era un amico personale dei fratelli Lefebvre, indagati come mediatori nell’affare, e quel nome in codice lasciava aperte molte speculazioni.

Ad esempio, ipotizzò qualcuno, “Cobbler” poteva essere una trascrizione sbagliata di “Gobbler”. L'”antilope ciabattina” così sarebbe diventata “mangiatore di antilopi”, cioè il leone. Altri ancora dissero che, durante una visita negli Stati Uniti, Leone si soffermò in un negozio ad osservare alcune scarpe di antilope. Erano tutte ricostruzioni false. “Antelope Cobbler”, decretò la Corte Costituzionale (chiamata a giudicare sui ministri) era probabilmente Mariano Rumor, che però non venne mai messo formalmente in stato di accusa, mentre Leone fu dichiarato estraneo ad ogni episodio poco chiaro. Nel 1998, in occasione del suo compleanno, arrivarono anche le scuse del partito Radicale, che fu uno dei più critici nei suoi confronti.

Le dimissioni
Sia i giudizi di diffamazione contro L’Espresso e Cederna, sia il giudizio sul caso Lockheed arrivarono troppo tardi. Nel giugno del 1978 mancavano sei mesi a Leone per finire il suo mandato: la DC aveva ormai cessato di difenderlo dagli attacchi, mentre il PCI si sentiva sorpassato a sinistra dalla stampa. Il 14 giugno la direzione del PCI decise di richiedere formalmente le dimissioni del Presidente della Repubblica, un gesto mai avvenuto fino ad allora.

Quella sera Andreotti e Zaccagnini si recarono da Leone. Qui le ricostruzioni divergono: secondo Andreotti (lo ripeté anche nel corso di una recente intervista per il programma La Storia siamo noi), se Leone avesse chiesto un sostegno la DC glielo avrebbe dato, ma era lui stesso ad aver deciso che la pressione era troppo alta per continuare a mantenere la carica. Secondo molti altri, i leader della DC aggiunsero le loro pressioni a quelle del PCI e della stampa e in sostanza invitarono anche loro Leone a lasciare la presidenza. Dopo aver registrato un discorso per la televisione, firmò l’atto ufficiale delle dimissioni e, accompagnato soltanto dalla moglie, lasciò da solo il Quirinale.