Le prime pagine di “Mandami tanta vita”

Il nuovo romanzo di Paolo di Paolo, tra i dodici finalisti del Premio Strega: è ambientato a Torino, nel 1926, e parla di due studenti e una valigia scambiata per sbaglio

di Carlotta Caroli - Caffeina

Capita nei film: un tale scambia la propria valigia con un altro tale e da quello scambio si apre un mondo. Capita pure nel libro di Paolo di Paolo Mandami tanta vita, pubblicato a marzo da Feltrinelli. Moraldo, arrivato a Torino per una sessione d’esami nel febbraio del 1926, scopre di avere scambiato la sua valigia con quella di uno sconosciuto. Prima di ritrovare quella benedetta valigia, la sua vita continua tra di filosofia e caricature, tra l’ammirazione segreta per un coetaneo che dalla società è considerato già “arrivato”, e l’ispirazione provocata da una fotografa imprendibile. La vita di Moraldo continua tra aspirazioni, amore, risposte che non arrivano. Di seguito le prime pagine del romanzo, uno dei dodici finalisti del Premio Strega: una storia appassionata e commossa sull’incanto, la fatica, il rischio di essere giovani.

***

Fidarsi della prima impressione può portare fuori strada. Comunque, per lui, era stata antipatia. Istintiva, quasi feroce. Si era voltato, come tutti i presenti, per il chiacchiericcio insistente in fondo all’aula. La lezione su Dante durava già da un’ora, la noia lievitava insieme ai versi. L’impettito professore, con gli occhi fissi sul libro – la sagoma di un’upupa, la testa stretta e un pennacchio di capelli bianchi – commentava ostinato a voce bassa, gareggiando in monotonia con lo scroscio della pioggia. Poi dev’essere caduto un libro a terra: il rumore ha spezzato di colpo la voce e una terzina incomprensibile del Purgatorio. Allora l’upupa ha finalmente alzato gli occhi piccoli come spilli, e li ha visti.
Un gruppo di tre o quattro seduti alle ultime file – discutevano per fatti loro già da parecchio – aveva cominciato a sghignazzare. Prego lorsignori, ha scandito l’upupa ruotando il collo a scatti, verso destra e poi verso sinistra, se non fossero interessati alla lezione, di volere abbandonare l’aula. A questo punto il più smilzo – svettava per altezza, con una nuvola di ricci chiari sulla testa – si è alzato di colpo, ha raccolto il libro che poco prima aveva fatto cadere e l’ha infilato in una tasca già sformata della giacca. Al collo portava una cravattina a nodo fisso e i polsini di celluloide, sul naso un paio di occhiali tondi che in quella luce grigia brillavano. Sulle labbra, un sorriso malizioso, quasi di scherno.
Illustre professore, ha spiegato, in verità si tratta di un’azione di protesta contro la sua persona, oltre che del tentativo di svegliare dal sonno la sua platea. Molti hanno nascosto le risate portandosi la mano alla bocca. È passato un interminabile minuto di silenzio. Il professore guardava fisso davanti a sé, come raggelato. Ha aperto la bocca senza che ne uscisse alcun suono. Poi, le prime parole sono state Quasi smarrito. Cominciava con questa ammissione la sua replica alla protesta?Nell’aula persisteva il silenzio assoluto, a cui perfino la pioggia pareva essersi arresa. Quasi smarrito, ha ripetuto l’upupa, ma non era altro che il seguito della terzina dantesca interrotta Quasi smarrito, e riguardar le genti/ che ’n Sennaàr con lui superbi fuoro. Superbi, aveva detto? Una semplice coincidenza. Alla terzina successiva il gruppo dei provocatori aveva già lasciato l’aula.
Moraldo era rimasto impressionato. La faccia di quel giovane l’aveva indispettito e riempito – lo avrebbe ammesso a fatica, storcendo la bocca – di curiosità. Quel tizio era antipatico, sì, inutile girarci intorno. Sicuro di sé, sprezzante: un ragazzino pallido cresciuto troppo in fretta, nervoso nei movimenti, il pomo d’Adamo sporgente. Avrebbe poi scoperto che lui e il suo piccolo clan venivano dalla facoltà di Legge, e che ogni tanto passavano da Lettere come uditori. Lui, il capo, aveva appena fondato una rivistina seriosa: ne aveva lasciata qualche copia sparsa sugli ultimi banchi. Si dava un gran da fare tra conferenze, libri, discorsi di politica. C’era chi li chiamava, lui e i suoi amici, l’Accademia dei Patiti.
Le voci di corridoio riportavano notizie tendenziose e strambe: quei pazzi si incontrano la mattina all’alba per leggere Kant. Gente ridicola! Una congrega di arrivisti, hanno scelto i professori giusti a cui stare dietro. Il bello è che hanno pure lo stomaco di indossare i panni dei ribelli. Qualcuno giurava di aver visto il ragazzo dai capelli ricci, nell’altra facoltà, tenere lezione di Economia politica, accanto al professor Einaudi che lo benediceva con gli occhi.
Moraldo sulle prime alzava le spalle, non diceva niente, oscillava fra perplessità e attrazione. Ma ci pensava a lungo: una vita simile – così energica, così determinata, così chiara – non l’avrebbe forse portato via dal limbo in cui sostava? Avrebbe potuto una buona volta opporre con fierezza qualcosa ai dubbi di suo padre.
Carissimi genitori – avrebbe finalmente scritto per lettera, alla svelta – io sto bene e così spero di voi, gli impegni mi trattengono qui in città anche nel fine settimana, non potrò pertanto raggiungere Casale, ho cominciato a collaborare con le pagine letterarie di una rivista autorevole, partecipo a conferenze e sto stringendo buone relazioni con alcuni colleghi d’ingegno e con diversi docenti della mia facoltà.
Sognava di avere indietro il calore e l’approvazione che fin lì gli erano mancati. Hai uno zio che è medico – se n’era discusso per molte cene –, sei sicuro che studiare Lettere sia la scelta giusta? Mancava solo che gli indicassero la strada del seminario. Suo fratello più grande, una volta, per scherzo l’aveva detto Se nascevi donna, eri suora Moralda, puoi giurarci. Suora Moralda ci raccomandi alla Vergine con le sue preghiere. Stròzzati, gli aveva risposto.
Però quando era uscita la sua firma sul “Monferrato” per la prima volta, aveva avuto – almeno per mezz’ora – la sensazione che le cose potessero cambiare. Appena presa la copia in edicola, si era messo a correre come il vento verso il negozio di suo padre, sfrecciava con il cuore in gola a mezzo metro da terra. Davanti alla vetrina si era bloccato di colpo. Piantato come un chiodo nel pavé di via Roma, assisteva a una scena che nella stessa giornata, in sua assenza, poteva ripetersi anche dieci o quindici volte. Come un evento sconvolgente e nuovo, guardava il padre chinarsi ai piedi di un cliente per aiutarlo a calzare un paio di scarpe. Che cosa c’era di strano? Niente, era la più abituale e insignificante delle situazioni. Ma questo padre in gilet e camicia, con la pancia grossa, che piegandosi traballava come una vecchia foca, questo padre era il suo. I baffi quasi bianchi a mezzo palmo dal ginocchio di uno sconosciuto. C’era qualcosa di servile che lo feriva, in quella postura.
Aveva atteso che il cliente uscisse, per non rischiare di essere presentato. Si era vergognato di suo padre, e questo era tutto. Così, annunciandogli la propria firma sul giornale, non era stato soccorso dall’entusiasmo che lo faceva correre solo un quarto d’ora prima. Si era limitato a riferire, con un tono distratto, che era uscito un suo commento – l’aveva chiamato così, commento – alla mancata elezione in parlamento del benemerito sindaco di Pontestura, aggredito l’anno prima da un gruppo di squadristi mentre rientrava in bicicletta. I contadini, sentendo urlare, quel giorno erano riusciti a fargli scorta nell’ultimo tratto di strada. Come va interpretata questa sconfitta? quali ne sono le ragioni? erano le domande di Moraldo prima della firma. Era orgoglioso del piglio polemico. E anche dell’attacco della lettera: Sono un giovane che segue con interesse le vicende politiche locali. Ma il padre, seguitando a chiudere e impilare scatole, si era limitato a dirgli, alzando il mento verso la copia del giornale tra le mani di Moraldo, Lascialo lì.

Aveva avuto una gran voglia di piangere. Si era calato il berretto fin quasi sugli occhi, indeciso se chiudersi dentro al Cine Mondial per svagarsi con due film d’avventura, o andare verso via Capello e senza dare nell’occhio spiare gli strani movimenti sui marciapiedi, la bella ragazza dai capelli rossi detta la Losna con la sua stufetta di carbone acceso, oppure in via dei Grani dove, per stare mezz’ora con una, bastavano dieci lire. Non trovava il coraggio, svoltava nelle traverse, tornava al punto di partenza. Si sentiva sporco, ed era talvolta l’unico modo per stare meglio, cioè peggio.

Era il tempo delle lettere. Planavano come stormi sopra le città di mattina presto. Le buste si bagnavano di pioggia e poi si gonfiavano, fino a diventare scrigni. Non ti scriverò più perché sarebbe troppo tardi – Arrivo martedì o mercoledì – Avrei un mucchio di cose da raccontarti – Mi sono giunte questa mattina le tue parole – Se mi scrivi, fallo presto, perché la tua lettera non vada poi perduta.
A volte custodivano ciocche di capelli, banconote, rischiando sempre di perdersi, di tornare indietro, con un segno brutale che cancellava il nome del destinatario. Le grafie, i francobolli, le timbrature, talvolta la ceralacca e perfino le macchie di giallo, le gocce di profumo: questo era ciò che le faceva uniche, inconfondibili come volti umani. Gli anni di guerra le avevano rese vitali, preziose come poche cose al mondo: potevano brillare a lungo nelle cucine buie, tenere con il fiato sospeso le madri fino al prossimo segno di vita dei figli. La vita era anche questo – scrivere lettere, aspettarle. C’era gente che tossiva per ore, o piangeva, poi stendeva la carta velina contro una finestra, per sapere quello che non c’era scritto. C’erano frasi d’amore mascherate sotto caratteri esotici, per aggirare la censura domestica, padri e madri sospettosi e in allerta. C’erano gli auguri e c’erano i lutti, i vecchi che morivano, i bambini che nascevano, c’erano sempre, sempre, le malattie, e qualcuno da mettere al corrente. A volte, da giovani, bastava la bellezza formale e senza scopo di mettere in cima al foglio il nome di un luogo e una data. E un’ora esatta del pomeriggio, se era per amore. San Bernardino di Trana, 14 agosto 1920, ore 18. Cercare qualcuno, gettare un amo. Illustrissimo signor professore, una cosa che sempre mi fa meravigliare di Lei è la prontezza e l’ordine del rispondere a tutte le lettere, anche alle mie. Nascevano da lontano sodalizi e dissidi, dialoghi lunghissimi e accaniti che non temevano i chilometri, né le catene montuose, i mari, quando la geografia li prevedeva. Il punto, il più delle volte, era semplicemente questo, dire a qualcuno Sono qui, sono vivo. Sono arrivato, sono salvo. Domani parto, non sono morto. Ti confermo che il treno arriva giovedì alle dieci e un quarto. E il treno in effetti arrivava, con un leggerissimo ritardo.
Questo, per esempio, è partito da Alessandria, sotto un cielo coperto, il secondo di febbraio. La temperatura sfiora lo zero – mattina presto, prestissimo, l’ultimo tratto è stato una galleria di nebbia e luce fioca. Moraldo non ha fatto che pensare Quest’inverno mi ha dichiarato guerra, va tutto in malora. La giacca ha avuto il tempo di sgualcirsi, le mani hanno sfregato gli occhi, poi si sono messe in cerca di una scatola di pastiglie per la gola. Non servono a niente! Tu prendile lo stesso, gli ha raccomandato sulla porta la madre in vestaglia, sentinella dei sonni, dei risvegli e delle partenze, stanotte ti ho sentito tossire. Prima di dormire per qualche ora, da lei si era fatto aggiustare i baffi, come pretende suo padre la domenica mattina.
Porta Nuova ha lo scheletro e il cuore di ferro. Gli ombrelli, le bombette; un vecchio zoppica tenendosi a due bastoni, un ragazzino cammina con la testa bassa come per non essere riconosciuto. L’odore è di fuliggine e cuoio, si deposita con l’aria umida sui colletti delle giacche. È ancora buio, ancora per poco, e si gela. Piazza Carlo Felice, fuori, è una vasca di luce appena più chiara, sui toni dell’argento e del viola.
Moraldo sente la valigia stranamente più leggera. All’inizio di via Roma è punto da un dubbio, ma lo scaccia e va via veloce, scorrendo le vetrine dei negozi eleganti di confetti e di liquori ancora chiusi. Da un albergo un uomo grasso esce con “La Stampa” aperta tra le mani. Moraldo cerca i centesimi nelle tasche, al primo chiosco di giornali ne prende una copia. Dalla prima pagina è scomparsa l’unica notizia che gli sta davvero a cuore, quella del Plus Ultra, l’idroplano in volo sopra l’Atlantico. Il nome esotico della destinazione – Pernambuco – Moraldo se lo è ridetto almeno cento volte: come quando, leggendo Salgari, ripeteva nomi di fiori che credeva inesistenti. Sciambaga, mussenda, nagatampo. Bastava pronunciarli a voce alta, per sentirsi subito altrove.
A piazza Castello i lampioni si spengono, sopra steli ricamati come le vesti scure delle signore. I vetturini fumano accanto alle carrozze, i ragazzi passano a gruppi di tre, di quattro, sono macchie nere nel chiarore della piazza tagliato dalle biciclette. Il tram, fermo al capolinea, pare che tremi dal freddo. Imboccando via Po, che corre spedita verso il fiume, Moraldo sarà di nuovo assalito dal rancore. Una corrente nervosa che spinge contro le pareti del collo e alle tempie, rende i passi e i gesti meccanici, come quelli delle marionette Colla. Quando una mendicante rannicchiata sotto i portici gli tenderà la mano, lui affretterà l’andatura, rischiando di scivolare su un velo di ghiaccio. Da un caffè sulla sconfinata piazza Vittorio arriveranno le parole di una canzone, Sei triste, non ti capisco, io non so che cosa cerchi, io non so che vuoi di più.
Al diavolo, penserà Moraldo. Non sarà tristezza: dentro quel clima si può anche stare bene. Sarà rabbia. Sarà l’ostinazione violenta con cui si cerca chi ci ha tradito, sbattendo le porte di molte stanze vuote. Permetterà a quel silenzio di bruciargli ancora. Gli sembrerà di non riuscire a liberarsene, perché tornerà tutto. Torneranno gli avverbi di quella stupida lettera che ha scritto, rimasta senza risposta. Torneranno per primi gli avverbi e poi tornerà la rabbia. Francamente, studentescamente mi presento, gli aveva scritto una volta per tutte, scegliendo la grafia più attenta e più elegante che poteva, dopo avere combattuto a lungo con sé stesso, dopo essersi chiesto per un intero pomeriggio, fermo a un angolo di via Bertola come una spia, se cominciare con Egregio – formale, freddo, distaccato – oppure con Caro amico. Caro, sì.

Francamente, studentescamente mi presento. Credo che il mio spirito consuoni al tuo.

La frase – gli sembrava perfetta – era piovuta nella sua testa all’improvviso, con le prime gocce di un acquazzone. Tutta la lettera era infantile e bella, le s erano chiavi di violino e le g note musicali, era una letterina entusiasta come i vent’anni e poco più di chi l’aveva scritta. Tuttavia, il destinatario l’aveva ignorata. Che l’avesse ricevuta era sicuro: passato un mese di silenzio, di ritorno a Torino l’aveva imbucata di nuovo, stavolta senza affidarsi alle poste. Mentre la infilava con le proprie dita nella buca delle lettere al numero 60 di via XX Settembre, si era sentito trafitto dallo sguardo sospettoso dei passanti. Ma soprattutto, aveva temuto di veder apparire il destinatario da un momento all’altro: con quella nuvola di capelli ricci, con i piccoli occhiali, pronto a chiedere il motivo di tanta indiscrezione.
Avrebbe dovuto spiegargli, nell’eventualità, molte cose. Tanto per cominciare, che aveva riposto in quelle righe una quantità di attesa che sorprendeva perfino lui. Nella monotonia della sua esistenza, confidava che un gesto, anche insignificante, un gesto da niente fatto con opportuna concentrazione, con la giusta dose di tensione e di speranza, potesse produrre un cambiamento improvviso. Che cosa gli chiedeva, in fondo? Niente di più che una prima stretta di mano, un contatto che aprisse una complicità, un’alleanza. Al primo segnale di interesse, di apertura da parte dell’altro, Moraldo sarebbe stato pronto a far crollare in un colpo le antiche diffidenze, pronto a passare dalla sua parte. Ma i giorni erano trascorsi senza che arrivasse un segno. Aveva ritentato, e ancora niente. La fiducia e la pazienza si erano esaurite in fretta.
Stava diventando un’ossessione? Non perdeva occasione, parlando di lui, di dirne male. Indagava, cercava di sapere, lo derideva. Calcava la mano sapendo che era l’unico modo per placare un po’ la vergogna. Doveva confondersi fra i denigratori, come chi tradisce prima che il gallo canti; riuscire a non avvampare, a sfregarsi le mani guardando altrove.