L’economia del bluff

Francesco Maggio spiega nel suo libro come è nata la crisi attuale, e spiega chi ha fatto le cose sbagliate tra economisti, banche e finanzieri

di Francesco Maggio

Spiazzò non pochi Giulio Tremonti durante il vertice informale del G7 a Washington il 9 ottobre 2010. A margine dei lavori dei ministri finanziari e dei governatori dei sette Paesi più industrializzati del mondo l’allora ministro dell’Economia, senza mezzi termini, denunciò che la speculazione era tornata a imperversare sui mercati di tutto il mondo: «La speculazione è a piede libero» disse, «sono tornati i bankers, occupano gli hotel più costosi, fanno feste e ricevimenti a base di champagne. La loro presenza è palpabile nelle operazioni sui derivati, nei super bonus ai manager. Come prima della crisi. Peggio di prima». E poi aggiungeva: «Si è confuso tra ciclo economico e crisi e, nel gestire la crisi, scambiandola per un ciclo, si è fatta la scelta di salvare la speculazione che stava dentro le banche».

In effetti, i piani anticrisi messi a punto dai Paesi più esposti non erano andati troppo per il sottile perché, soprattutto dopo il fallimento, a metà settembre 2008, della banca d’affari Lehman Brothers, l’ipotesi che venisse giù il finimondo e la finanza mondiale andasse a rotoli era considerata molto realistica. Si decise quindi di non badare a spese. Basti pensare agli Stati Uniti che il 3 ottobre 2008 vararono, con tutte le incertezze cui faremo cenno tra poco, il Tarp (Troubled Asset Relief Program), un maxipiano da ben 700 miliardi di dollari per salvare banche, assicurazioni e case automobilistiche.

Il lancio di ciambelle di salvataggio così “inaffondabili” aveva però, evidentemente, convinto molti speculatori, anche quelli che in un primo momento avevano mantenuto un  basso profilo, che l’intenzione dei governi di non permettere più il fallimento delle grandi istituzioni finanziarie poteva trasformarsi per loro in un formidabile salvacondotto per tornare a scorazzare sui mercati. E infatti alcuni dati si rivelavano inequivocabili in proposito: nei primi nove mesi del 2010 in tutto il mondo risultavano collocate obbligazioni spazzatura (i famosi junk bond in cui era specialista Gordon Gekko, indimenticato protagonista del film Wall Street, che a fronte di rischi molto alti possono garantire ritorni altrettanto elevati) per un importo complessivo di 275 miliardi di dollari (contro i 163 miliardi del 2009) e la differenza del loro rendimento rispetto ai titoli di stato americani era di 625 punti base (6,25%), mentre prima dello scoppio della crisi, a giugno 2007, ammontava a 250 punti base (2,5%).

Eccolo dunque l’anno fatidico della svolta, il “tornante della storia”: il 2007. E, in particolare, la calda estate in cui tutto prende inizio e si materializza il gigantesco bluff che getterà nel panico l’economia dell’intero pianeta. Se fino ad allora la metafora della farfalla era considerata ancora soprattutto solo una suggestiva immagine delle interconnessioni della globalizzazione, evocate dal suo battito d’ali capace di causare una tempesta dall’altra parte del mondo, stavolta la realtà si faceva carico di dimostrare che era tutto vero. Facendo assumere all’amabile volatile le sembianze, decisamente meno romantiche, dei mutui subprime. Ossia, mutui bancari particolarmente rischiosi in quanto concessi a una clientela poco affidabile (l’espressione significa, letteralmente, al di sotto dell’ideale).

Correva, infatti, l’agosto del 2007 quando l’americana Federal Reserve (Fed), la Banca Centrale Europea (Bce) e altre banche centrali cominciarono a iniettare un’immensa massa di liquidità sui mercati per impedire che, a causa del crollo del mercato immobiliare statunitense, gli istituti di credito più esposti nel settore dei mutui fallissero e i rubinetti del credito all’improvviso si chiudessero.

C’è anche chi fa risalire la data d’inizio del grande crash a un episodio specifico e a un giorno ben preciso. Alcuni indicano il 3 agosto di quell’anno, quando il commentatore della rete televisiva CNBC Jim Cramer, appare sugli schermi e urla: «Qui è Armageddon. Sul mercato del reddito fisso è l’Apocalisse. Cosa aspetta la Fed a tagliare i tassi?». Altri, invece, si spingono al 6 agosto, data in cui l’American Home Mortage, una tra le più importanti aziende americane indipendenti nel settore del finanziamento per la compravendita di immobili, avvia le procedure di fallimento, dichiarando di essere rimasta vittima del crollo del mercato immobiliare statunitense che aveva colpito molti sottoscrittori dei subprime. Altri ancora propendono per il 9 agosto, giorno in cui, a sorpresa, la Banca centrale europea fa affluire 95 miliardi di euro nel sistema bancario dell’area euro per cercare di tamponare la stretta creditizia provocata dai suddetti mutui.

Su un punto, tuttavia, la diagnosi apparve subito condivisa: il virus che stava contagiando l’economia mondiale si annidava nella finanza “creativa” e spregiudicata che aveva spadroneggiato, praticamente ovunque, fin troppo a lungo. E il suo ceppo originario aveva nome e cognome: mutui subprime, appunto.

Che questi strumenti finanziari fossero destinati a diventare (tristemente) famosi lo intuirono presto persino i linguisti dell’American Dialect Society, i quali “elessero” Subprime parola dell’anno 2007, preferendola addirittura a Facebook: «Quando vedi società finanziarie perdere miliardi di dollari con qualcosa come i mutui subprime» spiegò la portavoce dell’associazione di linguisti, «devi riflettere sulla loro importanza».

Furono invece ben pochi a riflettere, tra gli addetti ai lavori della finanza e dell’economia, sui possibili sbocchi nefasti ai quali un ricorso forsennato e spasmodico a strumenti finanziari sempre più sofisticati avrebbe potuto condurre.

Ma vediamo, per sommi capi (e lo stretto indispensabile dei pur necessari “tecnicismi”), cosa era successo perché in una manciata di anni, indicativamente dal 2000 in avanti, soprattutto per via della politica monetaria fortemente espansiva dell’allora capo della Fed Alan Greenspan, fosse stato possibile cadere in un baratro così profondo.

Tutto comincia quando le banche, confidando in una crescita senza soste del mercato immobiliare, iniziano a concedere mutui anche a chi non ha effettive possibilità di restituire il prestito. Certi istituti arrivano persino a regalare un’auto ai loro clienti e a posticipare l’inizio del pagamento delle rate di un paio di anni. Le banche però nel frattempo non se ne stanno con le mani in mano nell’attesa di riscuotere le rate del mutuo bensì, come si suol dire, decidono di “portarsi avanti”, cartolarizzandoli. In pratica, vendendoli: li impacchettano a migliaia dentro speciali obbligazioni “salsiccia” (denominate ABS, Asset backed securities) e poi le collocano sul mercato. Nel biennio 2006/2007 i prezzi delle case, però, cominciano a scendere e i tassi di interesse a salire. Ne consegue che qualcuno non riesce più a pagare le rate dei mutui contratti e il rumore di qualche scricchiolio già si avverte. Le banche a quel punto si trovano davanti a un bivio: fermarsi, accusare perdite tutto sommato modeste e adottare condotte più prudenti. Oppure fare, come in effetti faranno, l’esatto contrario e “rilanciare” con l’obiettivo di rientrare delle esposizioni e, inoltre, guadagnarci pure. Reimpacchettano quindi le obbligazioni ABS in altre obbligazioni sempre più rischiose (denominate CDO, Collateralized debt obligations) che poi, a loro volta, vengono ulteriormente impacchettate in altri strumenti finanziari, tra cui i “letali” derivati Cds (Credit default swap), vere e proprie «armi finanziarie di distruzioni di massa» come le ha definite Warren Buffet, uno degli uomini più ricchi del mondo, che consistono in una specie di polizza assicurativa contro i rischi di non restituzione di un capitale obbligazionario. Insomma, una sorta di bomba atomica a orologeria, visto che il giro d’affari virtuale raggiunto oscilla tra i 30 e i 60 trilioni di dollari (cioè tra cifre iperboliche che vanno dai 30.000 ai 60.000 miliardi di dollari ) e che sul quel “rischio di non restituzione” gli operatori possono scatenarsi sui mercati e alimentare le speculazioni più spinte, fino a farlo collassare. Anche perché tutto avviene di solito al telefono tra operatori, c’è poco di scritto tranne un modulo standardizzato di appena cinque pagine (denominato Confirmation for use with the credit derivatives phisical settlement matrix) inviato alla controparte per posta ordinaria e non esiste alcuna autorità preposta a vigilare sull’esito e la correttezza delle operazioni. Per cui non si può sapere mai quanti Cds vengono davvero scambiati e l’opacità che ne consegue rappresenta il terreno più fertile per alimentare il panico sui mercati.

Già a questo punto si può intuire come la macchina fosse andata pericolosamente fuori controllo e che dei mutui subprime originari si fosse persa ogni traccia su un mercato dove ormai circolava di tutto e di più. Ma non era ancora finita. Le banche infatti, non di rado, per far “girare” meglio Abs e Cdo, ne acquistavano in notevole quantità attraverso società ad esse collegate ma tenute fuori dai bilanci, che si finanziavano attraverso l’emissione di obbligazioni di breve durata, rimborsabili settimanalmente (commercial paper). Quando però sono cominciate le turbolenze nessuno voleva più acquistare i commercial paper per cui queste società collegate alle banche si sono trovate sull’orlo del fallimento. Sono allora dovute intervenire le banche stesse e la crisi si è allargata a macchia d’olio agli istituti di credito e, quindi, alle borse che sono crollate. Così, quello che all’inizio poteva rivelarsi “solo” lo scoppio seppur assordante di una bolla immobiliare, con epicentro a Miami come individuò il Nobel per l’economia Joseph Stgilitz (in particolare a The Club, una torre di 125 metri e 43 piani affacciata sulla baia, i cui proprietari quasi contemporaneamente smisero di pagare il mutuo) divenne presto un cataclisma economico-finanziario planetario senza precedenti. Basti pensare che negli Stati Uniti nel 1929, data simbolo di tutte le crisi economiche, i debiti in sofferenza ammontavano al 160 per cento del Prodotto interno lordo (fino a salire al 260% nel 1932). Nel 2008 si arriverà al 365 per cento del Pil senza tener conto dell’”atomica derivati”.

Le cause di un disastro di simile portata sono, evidentemente, molteplici, concatenate e certo non agevoli da individuare. Men che meno, va subito aggiunto visti gli immeritati onori di cui a lungo si sono pregiati, da parte di tanti economisti che, come li ha raffigurati in un efficace ritratto l’intellettuale francese Jaques Attali, si rivelano «sempre in grado di spiegare domani perché ieri dicevano il contrario di quanto è capitato oggi». E difatti, tranne rare e lodevoli eccezioni, non ne hanno “azzeccata” una in questa crisi, come lo stesso Stiglitz rimarcherà:

«Una parte non indifferente della colpa spetta agli economisti di professione. Hanno rassicurato i regolatori fornendo modelli di mercati che si auto-regolavano, si auto-correggevano ed erano efficienti. Regnava sovrana l’ipotesi del mercato efficiente. Oggi l’economia è andata a rotoli insieme, si può sperare, al paradigma economico che prevaleva negli anni prima della crisi. I cattivi modelli portano a cattive politiche, per esempio le banche centrali si sono occupate soprattutto di piccole inefficienze economiche dovute all’inflazione, senza badare a quelle ben maggiori dovute alle disfunzioni dei mercati finanziari e alle bolle dei prezzi degli asset. D’altronde i modelli dicevano che i mercati erano sempre efficienti. Fatto degno di nota, i modelli macroeconomici standard non comprendevano neppure un’analisi adeguata delle banche». 

Ad ogni modo non c’è dubbio che a finire sul banco degli imputati sia stata in primis l’avidità senza limiti dimostrata da manager e banchieri che con le loro perniciose condotte hanno minato le stesse regole democratiche della convivenza. Come ammonisce, infatti, l’ex presidente della Consob Guido Rossi, se all’arricchimento personale si accompagna la deresponsabilizzazione, si svuota il concetto di cittadinanza e la classe dirigente non partecipa più dei destini della società:

«Un tempo i dirigenti delle aziende incassavano un premio economico che era sorretto da una legittimità: la loro ricchezza era commisurata ai risultati che offrivano agli azionisti, ai dipendenti, all’insieme della società che beneficiava della creazione di benessere e occupazione. Oggi lo spettacolo che offre il capitalismo è ben diverso. I dirigenti uccidono le aziende, distruggono valore azionario, gettano sul lastrico i dipendenti e se ne escono dopo essere stati premiati con buonuscite sempre più generose. Si arricchiscono dopo aver impoverito la collettività. Il fenomeno va ben oltre la sfera dell’economia, spezza una regola fondamentale della democrazia rappresentativa. C’è un tradimento dei doveri della classe dirigente». 

Urge, quindi, correre al più presto ai ripari con azioni mirate e risolutive, è stato il monito che si è sentito più di frequente giungere da più parti. Ed è ovviamente scontato convenirvi. Se non fosse che proprio una continua e diffusa evocazione del senso di urgenza ha contribuito in questi anni a far avvitare la crisi attuale su se stessa, come quel taglialegna di un noto apologo del gesuita indiano Antony De Mello che «stremato dalla fatica, continuava a sprecare legna ed energia tagliando la legna con un’accetta spuntata perché diceva di non avere il tempo per fermarsi ad affilare la lama».

Fuor di metafora, sul senso di urgenza perenne sono stati costruiti paradigmi (e fortune) manageriali che oggi mostrano in tutta la loro clamorosa evidenza la propria infondatezza. Come si può allora immaginare di liberarsene d’un tratto? Mancano del tutto i presupposti, a partire da quelli culturali. L’analisi del sociologo Zygmunt Bauman è ineccepibile al riguardo:

«Al giorno d’oggi la prassi manageriale di provocare un’atmosfera di urgenza o di presentare come stato d’emergenza una situazione probabilmente normale è considerata un metodo molto efficace, spesso il metodo preferito, per persuadere chi viene gestito ad accettare tranquillamente anche cambiamenti drammatici che colpiscano al cuore le sue ambizioni e prospettive o il suo stesso stile di vita. “Dichiara lo stato di emergenza e continua a comandare” sembra essere la ricetta manageriale sempre più in voga per esercitare un dominio indiscusso e far passare gli attacchi più spiacevoli e devastanti al benessere dei dipendenti, o per liberarsi della forza-lavoro che non si vuol più tenere….Forse nemmeno l’apprendimento e l’oblio sfuggono alle conseguenze della “tirannia del momento”, favorita e istigata dal continuo stato di emergenza, e del tempo perso in una successione di “nuovi inizi” disparati e apparentemente (ma ingannevolmente) scollegati tra di loro». 

Se, quindi, un’intera classe dirigente ha fatto le sue fortune propinando e assecondando la “tirannia del momento”, come può oggi risultare credibile quando invoca interventi urgenti per uscire dalla crisi nella quale essa stessa si è cacciata, ma soprattutto ha cacciato i cittadini? Non ne ha autorevolezza, cultura, spessore, visione.

Una testimonianza eloquente, in tal senso, l’ha offerta agli sgoccioli del suo mandato Henry Paulson, dal 3 luglio 2006 al 20 gennaio 2009 segretario al Tesoro dell’amministrazione Bush ed ex numero uno della banca d’affari Goldman Sachs, durante la cui permanenza al vertice riuscì ad accumulare bonus per centinaia di milioni di dollari. Il suo piano di salvataggio della finanza americana, il Tarp cui si è accennato prima, si rivelò così pieno di falle (all’inizio doveva servire a riacquistare dalle banche i titoli tossici, poi per acquistare partecipazioni azionarie e nazionalizzare parzialmente gli istituti di credito, poi ancora per fare entrambe le cose) che George Soros, finanziere discusso quanto filantropo generoso, ne commentò non senza sarcasmo lo scontato insuccesso:

«Il piano di salvataggio di Paulson era stato pensato male; anzi non era stato pensato affatto. Stranamente, il segretario al Tesoro non era preparato alle conseguenze della sua decisione di consentire il fallimento della Lehman Brothers. Quando il sistema finanziario è venuto giù è corso al Congresso senza avere uno straccio di idea su come usare i soldi che chiedeva di concedere. Aveva solo un’idea rudimentale, mettere in piedi qualcosa di simile alla Resolution Trust Corporation degli anni ’80, l’ente federale istituito con il compito di acquisire e mettere in liquidazione le attività delle società di credito edilizio finite in bancarotta. Paulson ha chiesto una discrezionalità assoluta, immunità penale compresa. Come prevedibile il Congresso ha rifiutato di concedergliela».

È arrivato, quindi, davvero il tempo di un taglio netto con il pensiero sbrigativo assurto a dogma che tutto comprime e semplifica. E che ha trovato finora in economia, sul piano dell’accumulazione della ricchezza attraverso il ricorso a una finanza “allegra” e irresponsabile, il terreno più fertile, con le conseguenze che tutti noi abbiamo sotto gli occhi.

Suggerirebbe, a questo punto, l’economista Jean Paul Fitoussi che «per restituire più etica al capitalismo conviene approfittare dell’attuale momento di rottura negativa per rompere anche concettualmente con un passato dottrinale che ci ha condotti alle gravi turbolenze di oggi». Ben detto, verrebbe subito da aggiungere, è un consiglio utile che però, per essere accolto, comporta una riflessione trasversale che trovi il modo, per dirla con le parole del filosofo della complessità Edgar Morin, «di far interagire frammenti di sapere diversi all’interno di una nuova prospettiva». Il mondo economico è pronto a compierla?

Quando è stato chiesto al decano della Borsa di Milano Isidoro Albertini un commento su come si potesse uscire dalla crisi originata dai mutui subprime, questi rispose: «In un modo o nell’altro se ne uscirà, ma certamente con un enorme prosciugamento della ricchezza mondiale». Al che la giornalista, nel chiudere il pezzo, aggiunse: «Che dire? Speriamo che si sbagli». Trovai una forzatura tale aggiunta a un concetto, invece, ben più ricco di implicazioni. E mi venne in mente una lontana “profezia” che il grande polemista Leo Longanesi nel 1957, esattamente mezzo secolo prima che scoppiasse la tempesta perfetta dei subprime, aveva formulato sul nostro Paese: «La miseria è ancora l’unica forza vitale del paese e quel poco o molto che ancora regge è soltanto frutto della povertà. Quando l’Italia sarà sopraffatta dalla finta ricchezza che già dilaga, noi ci troveremo a vivere in un Paese di cui non conosceremo più né il volto né l’anima».

Naturalmente tutti ci auguriamo che la povertà venga estirpata da ogni angolo d’Italia e della Terra. Ma ciò che qui conta è la provocazione intellettuale di Longanesi, l’invito ad andare al fondo delle cose, al cuore delle questioni, a coglierne le più recondite sfumature, a non fermarsi alle righe ma a soffermarsi anche su ciò che traspare tra le righe. Chi l’ha detto, dunque, che «un enorme prosciugamento della ricchezza globale» sia un male assoluto se l’accumulo della ricchezza dovesse continuare a rimanere disgiunto da un’equa redistribuzione della stessa?

Lo aveva capito molto bene anche un altro raffinato intellettuale, Edmondo Berselli, che chiude il suo libro uscito postumo L’economia giusta proprio con un riferimento alla povertà:

«Occorre accingerci a costruire una cultura, forse non della povertà, bensì della minore ricchezza. Di un benessere più limitato, sapendo che questo minor benessere si ripercuoterà su ogni aspetto della nostra vita…Dovremo adattarci ad avere meno risorse. Meno soldi in tasca. Essere più poveri. Ecco la parola maledetta: povertà. Ma dovremo farci l’abitudine. Se il mondo occidentale andrà più piano, anche tutti noi dovremo rallentare. Proviamoci, con un po’ di storia alle spalle, con un po’ d’intelligenza e d’umanità davanti».

Già, proviamoci. Ma a condizione che si faccia prima chiarezza su tutti fronti. Che si vadano, cioè, a “vedere le carte” di chi ha bluffato razzolando male, chi predicando bene, chi facendo entrambe le cose.

Bluff Economy è l’ultimo libro di Francesco Maggio, economista, professore universitario e collaboratore del Post