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  • Lunedì 6 maggio 2013

Andreotti nel “Memoriale Moro”

La discussa e violenta accusa contro la Democrazia Cristiana trovata tra i documenti scritti da Moro durante il sequestro

Testo tratto dal “Memoriale Moro”, l’insieme di documenti raccolti dalle Brigate Rosse e che furono ritrovati in diverse circostanze tra il 1978 e il 1990. La documentazione, frutto di un interrogatorio delle BR a Moro durante la prigionia, fu resa pubblica dalla Commissione Stragi nel 2001.

Il periodo, abbastanza lungo, che ho passato come prigioniero politico delle Brigate Rosse, è stato naturalmente duro, com’è nella natura delle cose, e come tale educativo. Debbo dire che, sotto la pressione di vari stimoli e soprattutto di una riflessione che richiamava ciascuno in se stesso, gli avvenimenti, spesso così tumultuosi della vita politica e sociale, riprendevano il loro ritmo, il loro ordine e si presentavano più intelligibili. Motivi critici, diffusi ed inquietanti, che per un istante avevano attraversato la mente, si ripresentavano, nelle nuove circostanze, con una efficacia di persuasione di gran lunga maggiore che per il passato. Ne derivava un’inquietudine difficile da placare e si faceva avanti la spinta ad un riesame globale e sereno della propria esperienza, oltre che umana, sociale e politica. Guardando le cose nelle tensioni e nelle contraddizioni di questi ultimi anni, veniva naturale il paragone, come un ricordo di giovinezza, all’epoca, ormai lontana, nella quale per la maggior parte di noi si era verificato un passaggio quasi automatico all’emergere di una nuova epoca storica, dall’esperienza dell’azione cattolica, che era di quasi tutti noi democratici cristiani, alla esperienza propriamente politica. A questo nuovo modo di essere noi giungemmo con una certa ingenuità, freschezza e fede, come se il cimentarsi con i grandi problemi dell’ordine sociale e politico fosse, con qualche variazione, lo stesso lavoro che si faceva nelle sedi dell’Azione Cattolica. L’animo era dunque questo aggiornare la vecchia (e superata) dottrina sociale cristiana, ormai in rapida evoluzione, alla luce del Codice di Malines e di quello di Camaldoli; dare alla proprietà, di cui allora si parlava ancora con un certo rilievo, un’autentica funzione sociale; sviluppare in armonia con la tradizione popolare del Partito una politica nella quale davvero gli interessi popolari, con le molteplici istituzioni collaterali, fossero dominanti.
La struttura era meno rigogliosa, ma più semplice ed umana. Il tipo di società, prevalentemente agricola, che si andava delineando meglio rispondeva alla ispirazione cristiana che era al fondo della cultura da cui rinasceva il partito popolare e nasceva la D.C. Quest’epoca vede perciò facili (anche se talvolta effimere) aggregazioni, il fiorire del collateralismo, il mondo cattolico come un campo culturalmente e psicologicamente omogeneo che assume una posizione di rilievo nella vita nazionale, assicura una certa mediazione d’interessi, la continuità della vita sociale e politica del Paese. E’ l’epoca nella quale la successione tra gruppi dirigenti avviene con facilità, nell’ambito della stessa matrice cattolica e senza accanite lotte di potere.

E’ la stessa integrazione europea e in genere occidentale, pur con taluni indubbi benefici, che complica questi schemsoi, subordina, mano a mano, la linea popolare del partito ad esigenze d’integrazione plurinazionale, in definitiva laicizza e rende moralmente più complesso il tessuto sociale e politico del Paese. La maggiore intesa con i partiti laici mette in luce questa novità e pone esigenze nuove alla D.C. Afflusso dunque di ceti laici, di opportunismi, di clientele. La maggior ricchezza della vita sociale pone al partito maggiori funzioni di rappresentanza, di guida, di organizzazione e ramificazione interna e perciò con correnti aventi ciascuna il proprio compito ed adeguatamente finanziate spesso dai ceti economici e sociali che dall’adempimento di quelle funzioni dovrebbero trarre profitto. La lotta interna al partito scade a lotta di potere, perdendosi le caratteristiche ideali delle correnti come organi della dialettica democratica. Il Capo corrente è il gestore dei propri interessi e di quelli del gruppo, in condizioni di spartirsi il potere, nel governo e soprattutto nel sottogoverno. La mole del partito sovrasta, ma in un [crescente] frantumamento che rende [molto difficile] (o puramente clientelare) la più alta funzione di guida politica nel partito e nel governo. In quelle condizioni evidentemente le posizioni si cristallizzano.

Chi ha non cede quello che ha, non desidera farne parte agli altri. In effetti si corrode il circuito dell’innovazione democratica sia nel Paese per la lunga e invariata gestione del potere pur nel mutare delle alleanze, sia nel partito dove gruppi di potere ora si scontrano ora si sorreggono a vicenda e traggono motivo di singolare durevolezza dalla gestione del potere fine a se stesso. Frattanto [matura] l’esigenza d’integrazione, necessaria per costituire uno Stato solido, e dai partiti si attendono cose che essi non son in grado di dare né nella forma della primitiva e più semplice organizzazione né in quella piuttosto sclerotizzata che abbiamo innanzi descritta. Da qui la spinta a costruire un nuovo tipo di partito: un partito sensibile a spunti culturali, tecnocratico, piuttosto indifferente sul piano ideologico, nutrito di concrete esperienze internazionali. Questo nuovo tipo di organizzazione dovrebbe essere in grado di assolvere le funzioni per le quali oggi i partiti, e segnatamente quello della D.C., mostrano di essere incapaci. Da qui tutto il gran parlare, e un po’ anche fare, in vista dell’indispensabile rinnovamento della D.C. Essa dovrebbe essere: partito aperto nelle strutture interne senza chiusure egoistiche e d’interessi di gruppi, arbitri del potere questi ultimi e tesi a detenerlo in qualsiasi forma il più a lungo possibile; partito aperto verso gruppi sociali aderenti o anche solo simpatizzanti; maggior peso attribuito agli eletti nelle Assemblee rappresentative di vario livello; arricchimento ed approfondimento dei rapporti internazionali in società fortemente integrate al di là del livello puramente nazionale. Sono tutti buoni propositi enunciati insieme ad altri, senza contestazione, nel Congresso di Roma, dal quale Zaccagnini venne elevato alla carica di Segretario dalla stessa Assemblea congressuale. Tenuto conto che al Congresso si andò già con una mozione contenente principi innovativi e che fu successivamente rielaborata, come previsto, nel corso di un’Assemblea organizzativa, si dovrebbe pensare che questa essenziale opera di ammodernamento degli uomini, delle strutture, delle norme statutarie, dei modi di condotta sociale, dovrebbero essere già da tempo largamente realizzati.

Ed invece solo una piccola parte delle nuove norme, quelle sul tesseramento, è stata approvata, altre sono, per cosi dire, a mezza strada, altre non hanno neppure cominciato il loro cammino. Tutta l’innovazione, la modernizzazione, l’europeizzazione di cui si parlava, si limita ad un fisiologico rinnovamento dei gruppi parlamentari ed alla presenza di un qualificato gruppetto di tecnici dell’economia in Senato. Troppo poco di fronte all’enorme cumulo di novità che la vita di oggi porta con sé e diventa fatalmente novità e serietà di compiti dei partiti.

Il movimento giovanile ha ripreso vita dopo tre anni dallo scioglimento disposto dall’On. Fanfani e fa fatica a tenere il passo. Il lavoro culturale ristagna. Resta, senza nulla dentro, la sigla di un centro di alti studi. Molte delle iniziative più apprezzabili sono opera di singoli, mentre scarsa è l’opera che ogni partito, specie quello di maggioranza relativa, dovrebbe svolgere, per dare un segno di presenza qualificata nell’enorme campo dei mass media, dell’editoria e dei giornali. Il tutto avviene senza serio coordinamento che faccia del partito uno strumento unitario di orientamento della vita sociale. Siamo dunque più di fronte ad un organo di opinione che ad un fatto organizzativo vitale e ricco di contenuto. Il Partito continua e continuerà per qualche tempo a mobilitare ceti sociali, senza alternative in presenza di un partito comunista la cui ambiguit&agrav costituisce ostacolo ad un pieno e maggioritario inserimento nella vita nazionale, di un partito socialista troppo piccolo, ancora ai primi passi ed alle prime prove e di partiti minori che perpetuano la tradizionale frammentazione politica del Paese e non riescono a riscattarsi dalla limitatezza dello spazio politico mediante efficienza, modernità, aderenza alle esigenze dello Stato, ricchezza d’intuizione umana e sociale.

Ma, in presenza di queste condizioni, manca ad un partito come la D.C., il quale dovrebbe avere radici robuste nel substrato economico, sociale, culturale del Paese, di essere non soltanto presente, ma di farsi valida portatrice delle esigenze profonde della vita nazionale. Vive, bisogna pur dirlo, in mancanza di meglio, con velleità innovatrici più che innovazioni reali, lasciando aperto il problema dei rapporti con il Partito Comunista, rimasto a mezza strada tra il vecchio e il nuovo, premuto da un lato da una sinistra intransigente cui non riesce a proporre una politica organica e pienamente persuasiva, dall’altro [da]i rapporti precari e non privi d’imbarazzo con quelli che sono oggettivamente i suoi Partners e cioè D.C. e Partito Socialista. Nell’analisi critica che stiamo conducendo, suscitata dalla vicenda della quale siamo protagonisti, va toccato per un momento il tema dei finanziamenti e quello della consistenza, struttura, capacità d’iniziativa del Partito. I finanziamenti non sono mai mancati alle forze politiche italiane, pur proporzionati alle ridotte esigenze che caratterizzavano all’inizio la loro opera. Poi, per le notate ragioni oggettive, si sono andate ingrandendo, sia per quanto riguarda i partiti, sia per quanto riguarda le loro naturali articolazioni, le correnti. Il problema è attenuato, ma non chiuso dal finanziamento pubblico.

Il fenomeno in verità riguarda diverse forze politiche e non solo la D.C. Resta però un problema particolarmente presente e particolarmente sentito in questo partito, sia per le sue dimensioni ed esigenze, sia per lo spirito il quale, anche come retaggio di un’antica tradizione dovrebbe animare, ed in parte anima, specie i giovani militanti, posti in contrasto tra il rigore della coscienza ed alcune esigenze di servizio. E ciò si sente specie con riguardo al passato. Si d&agrav il caso che quando vengono evocati temi di questo genere, la reazione delle giovani generazioni non è mai indulgente, come se, dinanzi a nuove sensibilità, l’antica legge di necessità giustificatrice della ragion di partito non valesse più. La si indica come un segno dei tempi, una spinta al miglioramento cui non bisogna mai rinunciare a sperare. Bisogna però dire realisticamente che il tema continua a pesare come uno dei dati più rilevanti della problematica politica di oggi. I Partiti e la D.C. in particolare sono di fronte a molteplici esigenze cui provvedere, dando la sensazione di un continuo rappezzamento, giorno dopo giorno, di un tessuto che minaccia di non andare a posto, come dovrebbe, con i crismi della piena legalità.

L’avvilente vicenda dell’Italcasse, che si ha il torto di ritenere meglio dimenticabile di altre, la singolare vicenda del debitore Caltagirone, che tratta su mandato politico la successione del direttore generale, lo scandalo delle banche scadute e non rinnovate dopo otto o nove anni, le ambiguità sul terreno dell’edilizia e dell’urbanistica, la piaga di appalti e forniture, considerata occasione di facili guadagni, questo colpisce tutti, ma specie i giovani e fa di queste cose, alle quali la D.C. non è certo estranea, uno dei grandi fatti negativi della vita nazionale. Dispiace che si parli di democratici cristiani, per dire di visitatori di castelli e porti del sig. Cruciani o come di coloro che lo presentarono, lo accreditarono, lo scelsero per alti uffici, senza avere l’onestà di dire che l’ordine sulla base del quale il Presidente dell’Iri faceva la sua scelta era un ordine politico del quale egli non portava la responsabilità. Non piace che di democratici cristiani si parli, per i giorni oscuri della strage di Brescia, come coloro che talune correnti di opinione in città non consideravano, in qualche misura, estranei, suscitando, in chi scrive, una reazione di onesta incredulità. Non piace che su questo terreno, magari solo per deboli indizi, si parli di connivenze e indulgenze dell’autorità e di democratici cristiani.

Non piacciono dunque tante cose che sono state e saranno di amara riflessione. Ma è naturale che un momento di attenzione sia dedicato all’austero regista di questa operazione di restaurazione della dignità e del potere costituzionale dello Stato e di assoluta indifferenza per quei valori umanitari i quali fanno tutt’uno con i valori umani. Un regista freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana. E questi è l’On. Andreotti, del quale gli altri sono stati tutti gli obbedienti esecutori di ordini. Il che non vuol dire che li reputi capaci di pietà. Erano portaordini e al tempo stesso incapaci di capire, di soffrire, di aver pietà. L’On. Andreotti aveva iniziato la sua ultima fatica ministeriale, consapevole delle forti ostilità che egli aveva già suscitato e continuava a suscitare tra i gruppi parlamentari, proprio con un incontro con me, per sentire il mio consiglio, propiziare la mia modesta benevolenza, assicurarsi una sorta di posizione privilegiata in quello che sarebbe stato non l’esercizio di diritti, ma l’adempimento di un difficile dovere. Io, in quel momento, potevo scegliere e scegliere nel senso della mia innata, quarantennale irriducibile diffidenza verso quest’uomo, sentimento che è un dato psicologico che mi sono sempre rifiutato, ed ancor oggi mi rifiuto, di approfondire e di motivare.

Io, pur potendolo fare, non scelsi, preferendo rispettare una continuità, benché di valore discutibile, e rendere omaggio ai gruppi di opposizione a Zaccagnini, i quali, auspice Fanfani, lo avevano a suo tempo indicato, forse non prevedendo che in poche settimane sarebbe stato già dalla parte del vincitore. Mi ripromisi quindi di lasciargli fare con pieno rispetto il suo lavoro, di aiutarlo anzi nell’interesse del Paese. Questa collaborazione era poi subito incominciata, perchè fui io a consigliare l’On. La Malfa d’incontrarlo, come egli desiderava. Desidero precisare per quanto riguarda l’On. Fanfani, altra personalità evocata come possibile candidato nel corso della crisi, che io credetti sinceramente fare interesse dello Stato ed interesse personale insieme ch’egli non lasciasse la prestigiosa carica parlamentare (che, tra l’altro, gli cedetti, rinunziando alla Presidenza della Camera, come era già avvenuto altre volte), per assumere la Segreteria del Partito della D.C. Questi sono dunque i precedenti. In presenza dei quali io mi sarei atteso, a parte i valori umanitari che hanno rilievo per tutti, che l’On. Andreotti, grato dell’investitura che gli avevo dato, desideroso di fruire di quel consiglio che con animo veramente aperto mi ripromettevo di non fargli mai mancare, si sarebbe agitato, si sarebbe preoccupato, avrebbe temuto un vuoto, avrebbe pensato si potesse sospettare che, visto com’erano andate le cose, preferisse non avere consiglieri e quelli suoi propri inviarli invece alle Brigate Rosse. Nulla di quello che pensavo o temevo è invece accaduto.

Andreotti è restato indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria. Se quella era la legge, anche se l’umanità poteva giocare a mio favore, anche se qualche vecchio detenuto provato dal carcere sarebbe potuto andare all’estero, rendendosi inoffensivo, doveva mandare avanti il suo disegno reazionario, non deludere i comunisti, non deludere i tedeschi e chi sa quant’altro ancora. Che significava in presenza di tutto questo il dolore insanabile di una vecchia sposa, lo sfascio di una famiglia, la reazione, una volta passate le elezioni, irresistibile della D.C.? Che significava tutto questo per Andreotti, una volta conquistato il potere per fare il male come sempre ha fatto il male nella sua vita? Tutto questo non significava niente. Bastava che Berlinguer stesse al gioco con incredibile leggerezza.

Andreotti sarebbe stato il padrone della D.C., anzi padrone della vita e della morte di democristiani e no, con la pallida ombra di Zaccagnini, dolente senza dolore, preoccupato senza preoccupazione, appassionato senza passione, il peggiore segretario che abbia avuto la D.C. Non parlo delle figure di contorno che non meritano l’onore della citazione. On. Piccoli, com’è insondabile il suo amore che si risolve sempre in odio. Lei sbaglia da sempre e sbaglierà sempre, perché è costituzionalmente chiamato all’errore. E l’errore è, in fondo, senza cattiveria. Che dire di Lei, On. Bartolomei? Nulla. Che dire, on. Galloni, volto gesuitico che sa tutto, ma, sapendo tutto, nulla sa della vita e dell’amore. Che dire di Lei, On. Gaspari, dei suoi giuramenti di Atri, della Sua riconoscenza per me che, quale uomo probo, volli a capo dell’organizzazione del Partito. Eravate tutti lì, ex amici democristiani, al momento della trattativa per il governo, quando la mia parola era decisiva. Ho un immenso piacere di avervi perduti e mi auguro che tutti vi perdano con la stessa gioia con la quale io vi ho perduti. Con sono non serviranno a molto, finchè ci sarete voi. Tornando poi a Lei, On. Andreotti, per nostra disgrazia e per disgrazia del Paeo senza di voi, la D.C. non farà molta strada.

I pochi seri e onesti che ci se (che non tarderà ad accorgersene) a capo del Governo, non è mia intenzione rievocare la grigia carriera. Non è questa una colpa. Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, On. Andreotti, è proprio questo che Le manca. Lei ha potuto disinvoltamente navigare tra Zaccagnini e Fanfani, imitando un De Gasperi inimitabile che è a milioni di anni luce lontano da Lei. Ma Le manca proprio il fervore umano. Le manca quell’ insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserve, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Durerà un pò più, un pò meno, ma passerà senza lasciare traccia. Non Le basterà la cortesia diplomatica del Presidente Carter, che Le dà (si vede che se ne intende poco) tutti i successi del trentennio democristiano, per passare alla storia. Passerà alla triste cronaca, soprattutto ora, che Le si addice. Che cosa ricordare di Lei? La fondazione della corrente Primavera, per condizionare De Gasperi contro i partiti laici? L’abbraccio-riconciliazione con il Maresciallo Graziani? Il Governo con i liberali, sì da deviare, per sempre, le forze popolari nell’accesso alla vita dello Stato? Il flirt con i comunisti, quando si discuteva di regolamento della Camera? Il Governo coi comunisti e la doppia verità al Presidente Carter? Ricordare la Sua, del resto confessata, amicizia con Sindona e Barone? Il Suo viaggio americano con il banchetto offerto da Sindona malgrado il contrario parere dell’Ambasciatore d’Italia? La nomina di Barone al Banco di Napoli? La trattativa di Caltagirone per la successione di Arcaini? Perché Ella, On. Andreotti, ha un uomo non di secondo, ma di primo piano con Lei; non loquace, ma un uomo che capisce e sa fare. Forse se lo avesse ascoltato, avrebbe evitato di fare tanti errori nella Sua vita. Ecco tutto. Non ho niente di cui debba ringraziarLa e per quello che Ella è non ho neppure risentimento. Le auguro buon lavoro, On. Andreotti, con il Suo inimitabile gruppo dirigente e che Iddio Le risparmi l’esperienza che ho conosciuto, anche se tutto serve a scoprire del bene negli uomini, purché non si tratti di Presidenti del Consiglio in carica.

E molti auguri anche all’On. Berlinguer che avrà un Partner versatile in ogni politica e di grande valore. Pensi che per poco soltanto rischiava di inaugurare la nuova fase politica lasciando andare a morte lo stratega dell’attenzione al Partito Comunista (con anticipo di anni) ed il realizzatore, unico, di un’intesa tra democristiani e comunisti che si suole chiamare una maggioranza programmatica parlamentare, riconosciuta e contrattata. Per gli inventori di formule, sarà in avvenire preferibile essere prudenti nel pensare alle cose. Questa essendo la situazione, io desidero dare atto che alla generosità delle Brigate Rosse devo, per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della libertà. Di ciò sono profondamente grato. Per quanto riguarda il resto, dopo quello che è accaduto e le riflessioni che ho riassunto più sopra, non mi resta che constatare la mia completa incompatibilità con il partito della D.C. Rinuncio a tutte le cariche, esclusa qualsiasi candidatura futura, mi dimetto dalla D.C., chiedo al Presidente della Camera di trasferirmi dal gruppo della D.C. al gruppo misto. Per parte mia non ho commenti da fare e mi riprometto di non farne neppure in risposta a quelli altrui.