Tra chi sta scegliendo il PD

Forze e debolezze di tutti i candidati alla presidenza alla Repubblica che domani potrebbero essere proposti dal partito col pallino in mano

Da giovedì 18 aprile il parlamento italiano comincerà a votare per eleggere il presidente della Repubblica che succederà a Giorgio Napolitano, giunto al termine dei suoi sette anni di incarico. Si vota con scrutinio segreto e nei primi tre scrutini è richiesta la maggioranza di due terzi, mentre dalla quarta votazione in poi basta la maggioranza assoluta. I primi due scrutini (o solo il primo, se bastasse) si svolgeranno giovedì.

(Chi elegge il presidente della Repubblica)

Le discussioni all’interno dei partiti e sui mezzi di informazione a proposito dei possibili candidati sono intense ormai da molti giorni, complice la simultanea necessità di formare un nuovo governo dopo le elezioni che non hanno dato maggioranze chiare, anzi. Ad avere il coltello dalla parte del manico nella scelta del presidente è il partito che detiene la maggioranza degli elettori, ovvero il Partito Democratico, che in teoria avrebbe quasi la maggioranza assoluta per eleggere un presidente di sua scelta dalla quarta votazione, dove avrebbe bisogno di pochi voti in più oltre a quelli del centrosinistra; ma è lontano da quella di due terzi, e per eleggere un presidente in una delle prime tre votazioni ha bisogno di molti altri voti, e una collaborazione forte da parte del PdL o del M5S. Per la cronaca, i grandi elettori sono in tutto 1007: il centrosinistra può contare su 491, il centrodestra su 230, il M5S su 152, i montiani su 71.

Per non parlare naturalmente – numeri a parte – delle ragioni a favore di un’elezione che raccolga maggiori adesioni possibili: ragioni che hanno a che fare sia con l’autorevolezza e il consenso nazionale nei confronti di quello che sarà il Presidente della Repubblica per sette anni, sia con gli interessi dei partiti a costruire intese nella prospettiva dei governi a venire.

A partire da questi calcoli e da questi interessi, aggiungendo i diversi gradimenti che ognuno ottiene nei diversi ambiti che compongono il PD, la sua leadership sta studiando da giorni delle possibili candidature, diffuse dai media in un più ampio calderone di nomi non sempre fondati.

Massimo D’Alema
Il numero uno di fatto della nomenclatura del PD e dei partiti suoi antenati – malgrado non abbia cariche ufficiali – è stato candidato in ballo anche all’elezione del presidente del 2006, e questo rende appena meno dirompente l’eventualità di una sua elezione. Ma non è di certo il presidente conciliante e lontano dei giochi a cui molti pensano di solito: leader molto politico, molto forte, molto di partito, di sicuro non destinato solamente a fare “severi moniti”. Proprio perché molto interno al sistema storico della politica italiana, è meno inviso di altri agli avversari del PdL, perché considerato un autorevole nemico, a differenza di altri candidati che col PdL hanno condiviso solo odio e disprezzo in questi anni: quindi per il PdL è “meno peggio” di Prodi, per dire. Naturalmente è anche malvisto dal M5S, perché organico al sistema tradizionale dei partiti. E divisivo anche all’interno del PD, per quanto rispettato. La ragione per candidarlo, da parte del PD, sarebbe quella di avere un candidato “di bandiera” da presentare alle prime elezioni, per vedere come va e contare le fedeltà: molti degli altri in ballo – tutti a parte Marini – non sono iscritti al PD, e suonerebbe strano – anche se è plausibile che poi accada – che in mancanza di altri accordi il PD presentasse da subito un candidato non “suo”. Perché vinca, però, dovrebbe muoversi deliberatamente una gran parte del PdL (tanto da supplire anche ai potenziali dissidenti nel PD, e se fossero tanti sarebbe un grosso problema, dopo).

Romano Prodi
Prodi è tra le scelte possibili in nome del suo curriculum: ex presidente del Consiglio, autorevolezza internazionale, capace di riunire a suo tempo il centrosinistra in un inedito (prima e dopo) successo elettorale. E soprattutto, popolarità presso buona parte degli italiani di sinistra per avere battuto alle elezioni Silvio Berlusconi e per esserne sempre stato radicale e intransigente avversario (è stato anche sentito come testimone nell’indagine contro Berlusconi sulla presunta compravendita dei voti nel 2006). Di conseguenza, la sua scelta è un’ipotesi che otterrebbe un bellicoso rifiuto dal PdL. Ma anche all’interno del centrosinistra, Prodi ha i suoi critici: in quanto costruttore di una forte corrente politica e di potere (i “prodiani”) molto robusta e combattiva, e quindi malvista da altre simili; in quanto comunque eredità di sistemi giudicati vecchi e da rinnovare; e in quanto titolare di un carattere forte che gli ha fatto guadagnare consensi popolari ma anche molte diffidenze tra dirigenti e parlamentari. D’altro canto è possibile che ottenga i voti di parte degli elettori del M5S, che condividono le ragioni sopra citate della sua popolarità.

Giuliano Amato
Amato viene da una ricca carriera di lungo corso, soprattutto nel Partito Socialista fino a che c’era il Partito Socialista. Al contrario dei due sopra citati, non deve le sue opportunità a una sua forza personale, identità forte, consenso di corrente o consenso popolare, associati anche a speculari inimicizie: Amato è il politico neutrale e navigato che ha attraversato decenni di potere rimanendo quasi sempre “laterale” e comparendo sempre in maniera poco incisiva, anche quando fu presidente del Consiglio tra il 1992 e il 1993 e di nuovo tra il 2000 e il 2001, entrambe le volte solo per un anno. È sempre stato uomo di stato, giurista e studioso, e fu in ballo già nel 2006 come possibile presidente della Repubblica. La sua candidatura da parte del PD otterrebbe di certo il rifiuto del M5S contro un uomo palesemente della “vecchia politica”: ma il PdL – al di là di alcune tensioni con gli ex socialisti del PdL e di vecchie accuse di aver “messo le mani nelle tasche degli italiani” per il prelievo forzoso del 1992 – lo tollererebbe più di altri candidati considerati più ostili. Ma malgrado la sua inclusione di allora nel comitato formativo del PD, è il candidato meno identitario che il PD possa candidare e la sua candidatura potrebbe perdere molti voti all’interno del PD stesso, soprattutto tra i parlamentari più giovani.

Nella prossima pagina: Franco Marini, Sergio Mattarella, Stefano Rodotà, Emma Bonino, Fernanda Contri, Sabino Cassese e l’opzione X.

Franco Marini
Era sembrato che l’intervento di Matteo Renzi aggressivamente critico nei suoi confronti lo avesse messo fuori gioco, qualche giorno fa (che consenso può avere, diceva Renzi, un uomo candidato alle elezioni in deroga allo Statuto del PD e poi bocciato dagli elettori?), ma se ne sta di nuovo parlando molto. Ha 80 anni, è stato sindacalista CISL, democristiano e poi segretario del PPI, e presidente del Senato e ministro. Anche lui viene quindi da una carriera tutta nella politica tradizionale e nei partiti, e non attirerebbe nessun voto da parte del M5S. Ma il suo essere l’uomo meno di sinistra tra questi, e cattolico, lo rende molto più accettabile dal centrodestra. Fu candidato alla presidenza della Repubblica già nel 1999: nel PD è accettato dagli ex democristiani, dai dalemiani e dai giovani turchi più di Amato e Prodi, ma così come Amato convince poco i parlamentari che cercano soluzioni meno “conservatrici” e di mediazione partitica. Renzi e i renziani, con cui è sempre stato aggressivamente critico (tra i più risentiti, assieme a Rosy Bindi, nei confronti della retorica “rottamatrice”), invece non accetterebbero mai di votarlo.

Sergio Mattarella
Ha 72 anni, da democristiano è stato deputato, ministro nei governi De Mita e Andreotti: figlio di Bernardo Mattarella e fratello di Piersanti Mattarella, si dimise da ministro all’approvazione della legge Mammì sulla tv, cosa che potrebbe dargli qualche consenso “anti-berlusconiano”. Ma è un politico di lunghissimo corso – è stato anche vice presidente del Consiglio e ministro nei governi D’Alema e Amato – e la sua candidatura sarebbe proposta dal PD allo scopo di cercare un accordo con il PdL: difficilmente potrebbe convincere il Movimento 5 Stelle, qualcosa potrebbe arrivare dai montiani. Nella sostanza la sua candidatura sarebbe simile a quella di Marini: un navigato esponente cattolico organico al centrosinistra e considerato non ostile dal centrodestra. Oggi è giudice della Corte Costituzionale, dopo essere stato eletto deputato nella Margherita nel 2001 e nell’Ulivo nel 2006. Il suo nome è legato soprattutto al cosiddetto “Mattarellum”, il sistema elettorale in vigore in Italia dal 1993 al 2006.

Stefano Rodotà
Giurista e politico di lunghissimo corso, è stato parlamentare del PCI come indipendente tra gli anni Settanta e Ottanta, nonché il primo presidente del PdS di Occhetto, e anche parlamentare europeo. Ha lasciato incarichi politici di maggiore visibilità negli anni Novanta, quando è stato nominato presidente dell’AGCOM, costruendosi una nuova popolarità come esperto giurista a favore dei diritti civili – ha chiesto più volte la depenalizzazione dell’eutanasia, ha parlato a favore del matrimonio gay – e opinionista critico dei governi di Berlusconi. In questi anni ha sostenuto che l’influsso della Chiesa cattolica rende l’Italia “un laboratorio del totalitarismo moderno” e un mese e mezzo fa ha aderito all’appello della rivista MicroMega per l’ineleggibilità di Berlusconi. Per queste ragioni sarebbe visto almeno con grande scetticismo dal centrodestra, e forse anche per queste ragioni è arrivato terzo alla consultazione online con cui il Movimento 5 Stelle ha scelto il proprio candidato. Le rinunce di Gabanelli e Strada lo hanno reso ufficialmente il candidato del M5S e sarebbe gradito anche a molti nel centrosinistra, anche se per il momento non sembra che il PD voglia indicarlo.

Emma Bonino
Malgrado gli ampi consensi che riceve tra l’opinione pubblica, e il rispetto e sostegno di molti isolati parlamentari del PD, riscuote anche molti risentimenti dentro il centrosinistra da parte di tre fronti: quello più antiberlusconiano che non le perdona l’alleanza col PdL su alcune istanze radicali che la fece eleggere nel 1994 (malgrado poi sia stata ministro nel governo Prodi), quello giustizialista che non ha mai tollerato il garantismo “equidistante” dei radicali e quello cattolico che non accetta le sue storiche posizioni laiciste e abortiste. Troverebbe consensi tra gli elettori del M5S, e anche nel PdL (dove pure tutta la parte più cattolica non la può vedere), ed è quindi il candidato più trasversale che il PD potrebbe proporre (fu candidata del PD alla regione Lazio, perdendo, nel 2010), ma molto debole come sostegno da parte della leadership del partito.

Fernanda Contri, Sabino Cassese
Fernanda Contri ha 78 anni, è giurista e magistrato, è stata ministro durante il primo governo Amato e durante il governo Ciampi, e giudice della Corte Costituzionale (e prima donna a presiederla). Sabino Cassese ha 78 anche lui, anche lui giurista e magistrato, anche lui ministro del governo Ciampi, attualmente giudice della Corte Costituzionale. Le loro candidature riuscirebbero probabilmente a tenere unito il PD – cosa non scontata e che non tutti gli altri candidati garantiscono, come abbiamo visto – e sperare dal quarto scrutinio in poi di ottenere abbastanza voti dal Movimento 5 Stelle o dai montiani, visto che difficilmente potrebbero avere quelli del centrodestra: più che per le loro caratteristiche personali, per il metodo “non condiviso” con cui sarebbero stati scelti.

X
L’opzione X, quella del coniglio dal cappello, o della “carta segreta” di cui parlano alcuni politici e giornalisti, è la riproduzione per il presidente della Repubblica di quanto accaduto per le presidenze di Camera e Senato. Cioè che il PD a un certo punto annunci che il suo candidato è qualcuno a cui nessuno aveva pensato prima, in grado di rappresentare novità e freschezza senza rinunciare a carisma, esperienza e autorevolezza, di tenere unito il partito, di incalzare il Movimento 5 Stelle e di essere difficilmente attaccabile dal centrodestra. È un’ipotesi su cui non si sta lavorando, al momento, ma molto dipenderà dalla piega che prenderanno le votazioni. Senza un accordo tra il PD e il PdL i primi tre scrutini andranno a vuoto, e a quel punto il PD potrebbe sfruttare le sue “mani libere” e il suo vantaggio numerico per alzare l’asticella.

foto: Marco Merlini / LaPresse