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  • Giovedì 4 aprile 2013

Cambiamo la scuola

La storia del liceo di Brindisi che si fa i libri da solo, e altre innovazioni reali e possibili raccontate nel nuovo libro di Riccardo Luna

di Riccardo Luna

Per fortuna anche la scuola sta cambiando. Anzi, non per fortuna. Sta cambiando perché tanti docenti, studenti, famiglie, e anche bidelli perché no?, si sono dati da fare per salvarla e in qualche caso sono addirittura riusciti a portarla nel futuro.

Se proprio dobbiamo indicare un giorno dopo il quale la scuola ha iniziato a cambiare e un luogo dove il futuro è arrivato prima, quel giorno è una mattina di febbraio del 2009 e il luogo è l’Istituto Tecnico Industriale “Ettore Majorana” di Brindisi. Il preside Salvatore Giuliano era appena tornato da una missione istituzionale a Boston: era uno dei due italiani scelti dalla multinazionale dei microprocessori Intel per partecipare al progetto Teacher of the Future, insegnante del futuro. Nella sala conferenze di un grande albergo dove si erano svolti gli incontri e poi nei giorni finali trascorsi nelle aule del Massachusetts Institute of Technology, Giuliano era rimasto colpito non tanto dalla tecnologia, in molti casi ancora rudimentale rispetto a quella odierna (il laptop verde One Laptop per Child di Nicholas Negroponte era stato lanciato proprio da quelle parti qualche anno prima), ma dallo spirito collaborativo fra docenti e studenti che la tecnologia abilita. Giuliano si rese conto che bastava un computer collegato alla rete per far cadere il muro che spesso si alza fra la cattedra di chi insegna e i banchi di chi impara: un altro modo di insegnare e di imparare era possibile.

E così quando è tornato nel suo ufficio di dirigente scolastico, una palazzina grigia alla periferia di Brindisi, il giovane preside ci ha pensato un po’ su, poi ha convocato alcuni professori, i più influenti, e ha chiesto loro: «Sentite, e se dal prossimo anno scolastico i libri di testo li scrivessimo noi?». Ora non si può capire l’allegra follia di questa domanda senza conoscere prima Salvatore Giuliano. È nato a Latiano, un paesino del Brindisino da poco assurto al rango di città. Il nonno si chiamava Salvatore e non era naturalmente il famoso bandito siciliano ucciso dai carabinieri in uno scontro a fuoco nel 1950. Era un calzolaio. Il papà aveva fatto mille lavori per mantenere la famiglia ed era finito addirittura primario di radioterapia. La mamma ha sempre avuto la passione per il teatro e qui si spiega una certa teatralità del figlio, che infatti per un lungo periodo, a tempo perso, ha fatto l’attore battendo i teatrini pugliesi e ancora oggi si presenta dicendo di essere “uno scampato alla legge Basaglia”, quella che chiuse i manicomi.

È un folle dichiarato, insomma, ma come lo intendeva Steve Jobs: folle e affamato di innovazione. Un Commodore 64 ricevuto in dono quando era ragazzo gli accese la scintilla del programmatore. Poi una laurea in economia, i concorsi a cattedra e – nel 2007 – la nomina a preside. Il più giovane d’Italia. Nell’inverno del 2009 Giuliano aveva 40 anni, poteva accontentarsi e godersi la rapida carriera, e invece ponendo ai colleghi la domanda certamente provocatoria «se dal prossimo anno i libri li scrivessimo noi?» il giovane preside si stava giocando la reputazione e quindi anche il proprio futuro professionale.

(Il blog di Riccardo Luna)

Quella domanda sfida apertamente uno dei capisaldi della istituzione scolastica: il libro di testo. Quell’oggetto di carta firmato da un esperto riconosciuto della materia, vidimato da un vero editore, adottato dai docenti dopo una scelta accurata, comprato dalle famiglie degli studenti e poi studiato passo passo dai ragazzi per tutto l’anno scolastico. Il libro di testo è la scuola come la conosciamo. Ma il preside Giuliano evidentemente aveva in mente un’altra scuola: puntava in primo luogo a sollecitare i docenti ad assumere un ruolo più attivo nei riguardi dei testi scolastici, molto più attivo. Scrivendoli direttamente: non da soli, naturalmente, ma assieme ad altri colleghi, un pezzo ciascuno e poi il resto addirittura con gli studenti stessi durante l’anno scolastico, secondo un metodo collaborativo che si richiama moltissimo alla cultura della rete e al modo in cui ogni giorno viene alimentata la più grande enciclopedia del mondo, Wikipedia. Certo, Wikipedia non è sempre attendibile come l’Enciclopedia Britannica o la Treccani e questo non è un aspetto trascurabile per una istituzione scolastica: come dicono persino i cultori del web, come il direttore del Knight Center for Digital Media Entrepeneurship Dan Gillmor, «Wikipedia è probabilmente il posto migliore dove cominciare una ricerca e quello peggiore dove finirla». Ma era proprio questo focus sulla ricerca collettiva che piaceva a Salvatore Giuliano: l’istruzione non doveva più essere un dogma calato dall’alto ma un processo da compiere assieme.

Oltre a questo il preside di Brindisi puntava a trovare subito le risorse per disporre di una strumentazione adatta a una scuola che vuole stare al passo con la storia: voleva poter dare finalmente un computer ad ogni studente.

«Dai, facciamoli noi!», si rispose da solo quella mattina superando il comprensibile imbarazzo dei presenti e spiegò il suo piano per cambiare la scuola a costo zero. Questo: se i docenti scrivono assieme i libri di testo che poi vengono stampati e rilegati attrezzando una piccola copisteria accanto alla presidenza, alle famiglie i libri costano in tutto 35 euro l’anno invece di 350, e con i soldi risparmiati i genitori possono comprare un computer portatile per i figli. Avere un computer per ogni banco non è un vezzo o una moda tecnologica: è lo strumento per portare la scuola nel futuro consentendo una didattica più interattiva, partecipata, personalizzata. Parlando anche a scuola il linguaggio digitale dei ragazzi che oggi invece vivono ogni mattina la sensazione di un viaggio all’indietro nel tempo. La scuola in cui entrano quando suona la campanella è ancora in tutti i sensi “la scuola dei cancellini” dei loro genitori. Solo che nel frattempo è invecchiata: le rughe su un viso possono donare fascino, le crepe sui muri no. Sono un segno inequivocabile di abbandono, la prova provata di quanto poco sia considerata importante in questo paese l’istruzione.

Questa storia di un computer per ogni banco non è nuova: se ne parla da un decennio almeno. E solo adesso, dopo una iniziale mitizzazione, sta affrontando alcune allarmate voci critiche che vengono dal mondo della scuola: ci sono docenti che lamentano un aumento della distrazione degli studenti per colpa della troppa tecnologia presente in classe (come se altrimenti fossero invece tutti attenti e motivati davanti ad un foglio di carta…). Non è questa la sede per una risposta approfondita alla questione cognitiva, ma il tema non lo eluderò. Ora però è importante ricordare che l’obiettivo di digitalizzare la didattica, non solo in Italia, si è sempre fermato davanti al problema dei fondi: ok, sarebbe bello, ma chi li paga i computer? Gli studenti italiani sono quasi otto milioni, anche volendo immaginare delle convenzioni, si arriva ad una cifra di circa due miliardi e mezzo di euro. È evidente: non ci sono i soldi per dare un pc a tutti. La risposta del preside Giuliano rovescia l’equazione impossibile con una incognita imprevista: i computer per gli studenti li possono pagare le famiglie con quello che risparmiano sui libri di testo.

Questa impostazione presenta non pochi e piccoli problemi dal punto di vista della autorevolezza della didattica: chi garantisce la qualità di quello che viene insegnato ai ragazzi? I grandi editori scolastici sono in prima linea ad evidenziare i rischi formativi del libro di testo fai-da-te non solo per tutelare un settore che impiega migliaia di persone e produce degli utili importanti. La questione è tuttora apertissima e ci vorrà del tempo, con ulteriori approfondimenti, per far pendere la bilancia da una parte o dall’altra; ma qui mi interessa intanto mettere in luce la possibilità di un singolo individuo di attivare dal nulla una rete di persone che riescono davvero a cambiare cose che sembravano immutabili.

Tre mesi più tardi, il 19 maggio del 2009, il collegio dei docenti del “Majorana” di Brindisi rinunciava solennemente ad adottare nuovi libri di testo e, basandosi sulla legge sulla autonomia scolastica che consente ad ogni istituto di prendere, appunto, iniziative autonome, varava il progetto bookinprogress, letteralmente “libro in evoluzione”, un libro che non si finisce mai di scrivere perché si aggiorna durante l’anno scolastico con il contributo del lavoro fatto in classe. Per rendere possibile questa svolta, però, i professori del “Majorana” avrebbero trascorso l’estate a preparare i testi base in cinque materie: diritto ed economia, chimica, matematica, italiano e storia.

Le famiglie degli studenti approvarono compatte la nuova impostazione e a settembre ogni ragazzo aveva il proprio computer portatile (oggi un tablet). Nel frattempo, utilizzando una parte dei fondi della provincia per le spese telefoniche e la pulizia dei locali, la scuola era stata connessa a Internet a banda larga. Insomma, in un colpo solo il “Majorana” era diventato una scuola dell’altro mondo. Con le lezioni fatte anche via Skype per gli assenti, gli esperimenti di laboratorio in diretta web e gli studenti che a casa possono rivedersi la videolezione tutte le volte necessarie ad apprendere, «perché non andiamo tutti alla stessa velocità, qualcuno ci mette un po’ di più e non va lasciato indietro», dice Giuliano.

Quanto è costato tutto questo? La risposta è: nulla. Neanche un euro ci è voluto, spiega con orgoglio il preside quando glielo chiedono. In realtà dire “nulla” non è esatto: è costato il tempo dei docenti, ci è voluto il loro entusiasmo, la loro disponibilità. Diciamolo meglio: la loro generosità. E in cambio cosa hanno avuto? Sarebbe bello e giusto se avessero avuto un riconoscimento del ministero dell’Istruzione, un punteggio in graduatoria o anche solo una medaglietta da mostrare ai nipotini: «Guarda, tuo nonno un giorno ha reso la scuola di questo paese un po’ migliore». Magari la medaglietta arriverà. In compenso i docenti hanno avuto subito qualcosa che vale molto di più: hanno ritrovato la gioia di insegnare, l’emozione di reinventarsi invece di lasciarsi andare, il piacere di sentirsi stimati e apprezzati dagli studenti. E oltre a ciò è successa una cosa straordinaria, la più importante forse, se una scuola si valuta soprattutto da come riesce a formare i cittadini di domani. Nei test nazionali di italiano e matematica gli studenti del “Majorana” hanno ottenuto una valutazione di circa dieci punti superiore alla media nazionale. Che vuol dire? Che sono diventati più bravi: la tecnologia e la nuova didattica circolare invece che ex cathedra hanno aumentato la loro disponibilità ad impegnarsi e quindi il livello di apprendimento finale. E questo non è accaduto a Milano o a Roma, o in un borghesissimo liceo di una ricca città di provincia. È accaduto in un anonimo istituto tecnico industriale di Brindisi, vicino al tacco dello stivale, dove dieci anni fa arrivavano i barconi con gli immigrati albanesi.

Perché le rivoluzioni fanno così: a volte iniziano dove meno te l’aspetti.

Pensate per un istante se questa strada del “Majorana” nella primavera del 2009 l’avessero adottata tutte le altre diecimila scuole d’Italia. Avremmo avuto la più grande riforma dai tempi di quella del ministro Giovanni Gentile, nel 1923, senza bisogno di una legge né di uno stanziamento di denaro pubblico. Non poteva accadere, naturalmente, che partissero tutti assieme: anche per il Big Bang all’inizio c’è voluto un bosone. Ma il “bosone” di Salvatore Giuliano deve avere dentro una energia notevole visto che tre anni dopo c’erano già una ottantina di istituti affiliati al progetto brindisino e i libri li facevano in progress docenti sparsi in tutta Italia incontrandosi tre volte l’anno e lavorando in rete.

Vedremo se sarà proprio quella la strada della scuola di domani oppure se prevarrà la difesa del valore del libro di testo autoriale, sebbene in formato digitale e quindi comunque meno costoso. In ogni caso non è vero che in quell’anno nelle scuole italiane non è successo niente altro. Non parlo di piazze, cortei e appassionati movimenti che puntualmente in autunno ricompaiono per poi sparire col Natale. Parlo di qualcosa di nuovo da costruire. Cambiamenti veri. Viste da qui, oggi, che un po’ di tempo è passato, le storie che sto per raccontarvi assomigliano ad altrettanti lampi di futuro. Per accorgertene dovevi essere fortunato come per le stelle cadenti e guardare il cielo illuminarsi proprio in quel momento. È stato tutto abbastanza imprevedibile e casuale. Non c’è stata una strategia unitaria. Nessuno sapeva quello che gli altri stavano facendo e non c’erano cronisti a documentare quei gesti apparentemente velleitari che erano assieme di ribellione e di speranza. I cronisti di solito stanno al ministero dell’Istruzione, in quel monumentale edificio bianco di viale Trastevere a Roma, dove il titolare di turno nell’anno 2009 presentava mirabolanti piattaforme web che nessuno o quasi avrebbe usato perché realizzate con i piedi; annunciava l’acquisto massiccio di lavagne elettroniche multimediali che in molti casi verranno utilizzate come appendiabiti nei corridoi visto che senza la rete internet servono a poco; oppure regalava alle scuole connessioni wifi che il ministero intanto aveva pagato circa dieci volte il prezzo di mercato. Sì, avete letto bene: dieci volte il prezzo di mercato. Tutto questo si chiama innovazione-di-facciata e va molto di moda, serve a guadagnare qualche titolone sui giornali, ad avere una intervista nei tiggì ma non cambia il mondo: al massimo, in qualche caso, cambia il conto corrente degli interessati e insinua negli altri la sensazione – dannosa ma comprensibile – che la tecnologia in fondo non serva. Anzi, sia uno spreco da tagliare.

Cambiamo tutto! è il nuovo libro di Riccardo Luna, edito da Laterza. Luna ha 48 anni, è stato direttore dell’edizione italiana del mensile Wired dalla sua fondazione nel 2008 al 2011, e oggi scrive su Repubblica, sul Post e su Chefuturo!, soprattutto di innovazione e rivoluzioni digitali.