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  • Giovedì 4 aprile 2013

Da Aleppo

Giuseppe Pace è stato nella città siriana devastata dalla guerra civile

di Giuseppe Pace

Ad Aleppo i ragazzini ti guardano dai lati della strada, spesso seduti: chi dietro bombole del gas in vendita, chi accanto a pacchetti di sigarette americane impilate come un castello di carte, chi, quelli più grandi, forse 18 anni, forse, a far da sentinella, bandana nera in testa, pantaloni verde militare e fucile steso sulle ginocchia. E famiglie con bambini per mano, vecchi, tantissimi vecchi, e donne dentro lunghe tuniche e solo l’ovale del viso scoperto.

Aleppo, lunghi viali entrando in città da nord, condomini tutti uguali che sfilano, molti crivellati, anneriti, con parti crollate sotto i bombardamenti, molti in piedi e quasi indenni. Traffico senza regole, auto e furgoncini parcheggiati dove capita, fusti di carburante orizzontali, benzina o gasolio non raffinati che spaccano motori e basta. Posti di blocco dell’Esercito siriano libero (Esl), con anche donne bardate di nero, fori solo per occhi e bocca e armi in mano. Piazze che traboccano di taksi gialli in attesa, ingorghi e clacson sempre in azione.

Avvicinandosi al centro, sulla sinistra almeno 500 metri di case completamente rase al suolo. Un intero rione spazzato via, almeno cento bambini morti e ancora corpi sotto le macerie, racconta un uomo seduto sulla soglia della sua palazzina rimasta a metà: quella mancante ha ucciso la moglie, il figlio e la sua sposa, col matrimonio celebrato sette giorni prima. “Hanno bombardato alle dieci di sera”, ricorda l’uomo, che prega. Arrivano altre persone, venute fuori dal nulla, una vecchia signora piange e dice: “Bashar ci dà questo”, e fa segno alle macerie tutto intorno. Bashar al-Assad, solo Assad per noi occidentali, solo Bashar nei discorsi dei siriani, presidente della Siria rinnegato da una parte del suo popolo, un Paese dilaniato da due anni di guerra civile, da quando scoppiarono le primavere arabe.

Un conflitto che sinora ha fatto oltre 30 mila morti. L’esercito regolare da una parte, i ribelli dell’Esl dall’altra. Questi ultimi controllano il territorio che da Aleppo – città divisa in due, la parte sud, quella più elegante e dell’alta borghesia, è infatti nelle mani dell’esercito fedele ad Assad – arriva al confine con la Turchia: e dalla Turchia siamo entrati in Siria il mattino di domenica 2 aprile, abbiamo fatto 150 chilometri dopo essere partiti dal campo profughi di Bab al Salam, piazzato subito dopo il confine turco a Kilis. Giù, lungo la strada D850 che nasce in Turchia e punta a sud, dentro la Siria, poi vie secondarie, alcune asfaltate altre no, per attraversare A’zaz, Tlalil, Marea, poi paesi senza nome o anche solo gruppi di case in mezzo alla campagna sconfinata, verdissima, fino ad Aleppo.

Aleppo, dove adesso, a metà pomeriggio, in centro, avanzando in auto a passo d’uomo, i tonfi secchi e sordi di esplosioni in cielo, un colpo duro alla portiera, e un altro: i pugni di due soldati dell’Esl contro la lamiera, sono giovani, urlano e ci fermano. Dentro alla macchina sono con una collega di Piazzapulita (La7), Francesca Mannocchi, poi ci sono una ragazza siriana, giornalista anche lei, ha studiato in Italia e ci fa da traduttrice (col marito ci ha messo in contatto con l’Esl per arrivare fino ad Aleppo) e davanti due uomini, la nostra scorta. I due soldati vogliono il cellulare con cui scattavo le foto: phone phone phone, urla quello dei due che comanda. Temono che escano immagini che rivelino obiettivi per l’esercito regolare. Non si calmano, gridano minacciosi, la punta del fucile dentro l’abitacolo. Anche i nostri due accompagnatori sembrano meno sicuri, faticano a calmare i due ragazzi armati. Devono consegnare loro i documenti, e questo mai era successo nei posti di blocco precedenti, quando bastava un abbraccio. Poi un foglio lungo e stretto che il guidatore tira fuori dalla tasca sembra convincerli: forse un lasciapassare firmato da qualcuno, l’autorizzazione dell’Esl, non lo sappiamo. Ci dicono che possiamo ripartire. Finalmente.

Ma si resta in una città vorticosa che ti leva l’aria, il cielo una minaccia costante di morte di cui però nessuno si cura. Il rumore di raffiche, ancora esplosioni: basta, decidiamo di tornare indietro, di lasciare Aleppo. I nostri accompagnatori provano a convincerci che non è successo nulla di allarmante, che i missili Scud dei regolari sono caduti lontano, ma sanno di non essere convincenti. Poi, da loro, quasi una ammissione: “Vedete cosa ci ha fatto Bashar? Ci ha fatto passare la paura. Non abbiamo più paura, viviamo come se tutto questo fosse normale”.

Campo profughi Bab al Salam
Da qui siamo partiti. Nel campo vivono 13 mila persone, siriani scappati dalla guerra civile, siriani che odiano Bashar. Gli uomini dell’Esl governano qui e il territorio che arriva fino ad Aleppo. In due giorni, a Bab al Salam i ragazzi dell’associazione italiana ‘Time4Life’ hanno distribuito centinaia di chili di aiuti per i tantissimi bambini presenti: latte in polvere, medicinali, biberon, creme, vestiti. Un medico dentista, sempre dell’associazione, ha curato decine di profughi. La Farnesina il giorno dell’arrivo, venerdì, aveva inviato una lettera dicendoci di non entrare nel campo, causa la presenza, già subito dopo il confine turco, di “bande armate” fuori controllo che puntavano “a rapire cittadini stranieri”.

A Bab al Salam, dentro le tende (molte dell’Alto commissariato delle nazioni Unite per i rifugiati, Unhcr) le famiglie vivono in condizioni molto difficili. Nel campo nessun servizio igienico. Manca l’acqua corrente. Nelle stradine interne, fango, polvere, rifiuti, pozzanghere di liquame verde, larghe e lunghe. Leishmaniosi e malattie della pelle per i bambini, pidocchi, zecche. Ma anche tanta dignità e decoro, con più di una persona che ti invita nella sua tenda per bere tè o caffè al cardamomo.

Al Press office del campo, gli uomini dell’Esl non volevano farci proseguire in territorio siriano: sui giornali italiani era uscita la foto di un bambino-soldato ad Aleppo che affermava di combattere nelle fila dell’Esercito siriano libero. Un enorme danno di immagine per loro a livello internazionale, una bugia, sostenevano, una foto costruita ad arte. E noi eravamo giornalisti italiani… Alle fine si convincono solo dopo averci requisito una delle due videocamere, quella in vista, quella non nelle borse.

A’zaz
È la prima città che si incontra dopo Bab al Salam. Sembra deserta. Ad accoglierti la moschea sventrata dai missili dell’esercito regolare. La vita di A’zaz si sviluppa ai lati della strada principale: un susseguirsi di rimesse vuote con la poca merce disponibile sistemata davanti (frutta, verdura, sigarette, bombole di gas a pochi centimetri dalle auto in corsa, carburante), venditori che non vendono nulla e guardano solo, artigiani che dovrebbero aggiustare auto e moto non riparabili, che quando si fermano è per sempre. Una scena che sarà la stessa a ogni centro abitato: macerie, polvere, macchine vecchie che ammorbano l’aria di benzina clandestina, carretti trainati da vecchi cavalli, pezzi di motore esposti come fossero preziosi pezzi di ricambio. Nei paesi solo le farmacie sono aperte dentro negozi normali, con scansie e scatole ordinate.

Tlalil
Un altro paese fantasma. Gli abitanti raccontano che ogni tre-quattro giorni arrivano gli Scud lanciati dall’esercito di Bashar e che negli ultimi sei mesi sono morte dieci persone. Il responsabile del villaggio, Mustafa’ Abdujabar, ci guida da una famiglia di contadini ai margini dell’abitato, alcune case collegate da giardini interni sassosi e sconnessi. Qui l’ultimo missile in ordine di tempo è caduto vicinissimo alle case e la parete esterna di quella principale, quella che dà sul viottolo d’ingresso, è crollata, seppur non del tutto; il pezzo rimasto, poche file di mattoni, ha salvato i bambini che giocavano nella stanza. Il vecchio della famiglia mostra il Corano danneggiato da schegge e detriti e alterna la spiegazione di ciò che è successo ai ringraziamenti ad Allah: è grazie alla sua volontà che i bambini si sono salvati, un altro segnale che bisogna resistere, del fatto che sono dalla parte giusta. “Non abbiamo paura di morire- afferma Mustafa’- vogliamo continuare a combattere fino alla vittoria. Anche se moriamo tutti non è un problema. Vogliamo solo che Bashar se ne vada”.

Marea
Pochi chilometri e siamo a Marea. Qui sei mesi fa l’esercito regolare ha bombardato lo stabile degli uffici dell’anagrafe e la scuola. Sono morti 5 bambini e molti sono rimasti feriti gravemente. Entri nelle aule direttamente dai muri sventrati, macerie ovunque, in piedi sono rimasti i muri portanti, con incassate le lavagne, e quelli che danno sul giardino interno, quelli con sopra le scritte che inneggiano ancora ai messaggi di Stato di prima della guerra civile: la grandezza di Assad, l’esempio siriano, la luce che da esso promana.

L’ospedale sotto terra contro gli Scud di Bashar
Lungo la strada si susseguono insediamenti abitati. Distese di campi. Bambini in strada che si spostano solo di fronte agli ultimatum dei clacson, pecore che avanzano lente, donne e anziani. L’uomo al volante ferma l’auto, dice che dobbiamo cambiarla. Prima però ci porta a un condominio, ci fa scendere attraverso una discesa che sembra porti a cantine, rimesse. Invece è l’ingresso di un ospedale: “Lo abbiamo costruito sottoterra per sfuggire agli Scud di Bashar”, spiega Tarek (niente cognome), il responsabile della struttura. Un uomo giovane che parla a voce bassa, sembra avere l’aria rassegnata ma non si ferma mai, lui va avanti. Ci lascerà fare solo qualche foto dentro, non fuori: niente immagini del luogo, niente nomi della località in cui si trova, non possono correre il rischio di essere scoperti e bombardati. “Abbiamo realizzato questo ospedale nel 2011- racconta- è il solo nel raggio di chilometri e ogni volta che arrivano gli Scud si presentano trenta-quaranta persone per farsi curare, senza contare i morti. Assistiamo più di cento persone ogni giorno, è un ospedale aperto a tutti, nessuna preclusione, facciamo entrare membri dell’Esl e altri, donne, bambini, anziani, gente povera, tutti, e tutti i servizi sono gratuiti. Abbiamo attrezzature che funzionano ma ci mancano gli specialisti, abbiamo solo 5 medici generici in servizio, fare esami o operare nella sala chirurgica è un problema, ripeto, ci mancano i medici specializzati, molti se ne sono andati e quelli che potremmo assumere vogliono almeno mille dollari al mese, impossibile per noi. Questo ospedale costa un milione di lire siriane al mese e da tre mesi non paghiamo gli stipendi. Siamo alla ricerca di associazioni o organizzazioni che possano sostenerci, non solo soldi, qualcuno che condivida la gestione e i servizi da erogare”. Ma non c’è solo questo: “Noi non vogliamo mandare persone a curarsi in Turchia. Quando succede, quando vengono trasferite, nel giro di poco muoiono e tornano cadaveri, corpi spesso aperti e poi ricuciti davanti”.

Hanno creato una sala per i casi urgenti, un ambulatorio di primo soccorso, hanno la Tac, gli strumenti per gli esami del sangue e possono fare trasfusioni, così come esiste una sala operatoria ben attrezzata. In caso di lungodegenze, i parenti vengono accolti. Ma i locali sono bui, le norme igieniche è impossibile rispettarle, i muri sono umidi e vi sono infiltrazioni: me è un ospedale sotto il livello della strada, non si può davvero pensare di poter fare di più.

Industrial City – Sheikh Najar (Aleppo)
Percorriamo strade parallele alla numero 214. I posti di blocco dell’Esl si intensificano ma la nostra scorta mostra spesso grande affidabilità e familiarità con i soldati ribelli. Lungo le strade sempre bambini, greggi di pecore, vecchi e uomini seduti in cerchio a consumare il pranzo. Finché non arriviamo all’immensa area industriale a nord-est di Aleppo, la Industrial City – Sheikh Najar. Viali immensi che incrociano perpendicolari, corsie larghe, banche, fabbriche e stabilimenti dappertutto, ma tutti fermi. Le persone in alcuni edifici ci abitano, sedute su balaustre che diventano terrazze improvvisate, uomini che sembrano camminare sui muri. Case improvvisate divenute sistemazioni abituali. È la città industriale alle porte di Aleppo, architettura imponente e squadrata, un impero però che non produce più forza, potenza, ricchezza. “Quando il regime ha abbandonato il terreno ha rubato tutto, sono rimasti solo i fabbricati. Non appena possibile, l’Esl cercherà di riportare le persone a lavorarci dentro”, spiega chi ci accompagna.

L’ingresso della città industriale, poco dopo l’arco trionfale che ne sancisce il confine, è presidiato dall’ennesimo posto di blocco dell’Esercito siriano libero: un pick up con un lanciarazzi montato sopra, fittoni in mezzo alla strada, una strettoia obbligatoria, ti devi fermare: un giovane con un passamontagna nero e la divisa, altri a volto scoperto, tre baci di saluto con l’autista e via libera, passate. Più avanti, un altro alt obbligatorio, davanti al centro direzionale, gli uffici da cui veniva gestita l’intera Industrial City. Tre giovani, due di Aleppo e uno di Darah, sotto Damasco, venuto per combattere. Sono vestiti normalmente, jeans e camicia. Dentro il casotto che fa loro da posto di guardia, quattro fucili e due pistole: “Se serve spariamo. Allah è con noi”.

Aleppo
La meta del nostro viaggio. Quasi la città simbolo della guerra civile in Siria. Ci siamo arrivati dopo aver percorso strade spesso improbabili a velocità pazzesche anche in un autodromo regolare, con i due uomini che ci hanno scortato che cambiavano sim telefoniche di continuo, fumavano senza smettere mai e tenevano musica araba a tutto volume nell’abitacolo. Misure di sicurezza, ma anche un mondo a parte per isolarsi dall’esterno, da tutto ciò che non puoi vedere sempre, o anche solo ascoltare. Non so chi abbia più ragione o torto in questa guerra, che chi vive qui dice durerà così per anni, eserciti come duellanti infiniti. I due uomini che ci hanno portato fino ad Aleppo e che ci riporteranno indietro, al campo di Bab al Salam, spesso sorridono, offrono sigarette e non vogliono soldi. A pochi chilometri dal confine turco, prima di lasciarci, uno di loro ha voluto a tutti i costi che entrassimo nella sua casa, a consumare tè e il loro caffè. Sono arrivati tutti i componenti la famiglia, molti bambini, bellissimi, coi loro occhi da adulti dentro facce da piccoli.