La terra di Wounded Knee

Il luogo di un massacro di nativi americani del 1890 è stato messo in vendita, riaprendo vecchie questioni

Nel 1890 a Wounded Knee, nel South Dakota, centinaia di indiani americani furono massacrati in quello che fu uno degli ultimi scontri delle guerre indiane. Da qualche mese, James Czywczynski ha messo in vendita il terreno su cui avvenne il massacro, che possiede da più di 40 anni. Czywczynski ha fissato un prezzo di 3,9 milioni di dollari. Molto più dei 7.000 dollari che vale secondo gli indiani Sioux della tribù Oglala, alcuni dei quali discendenti degli indiani uccisi che abitano ancora intorno a Wounded Knee.

Il New York Times, che ha raccontato la storia, scrive che il caso ha fatto riemergere antichi rancori per le ingiustizie subite dai nativi americani. Ma ha anche mostrato le divisioni che attraversano la comunità degli Oglala, una delle più povere di tutti gli Stati Uniti. Alcuni cercano di preservare le tradizioni e ritengono che ogni sfruttamento economico sia un sacrilegio nei confronti degli antenati, mentre altri ritengono che il turismo e gli investimenti siano l’unico modo di salvare la tribù.

Gli autori del massacro, nel 1890, furono i membri di un reparto americano già molto celebre nelle guerre indiane: il 7° reggimento di cavalleria, conosciuto anche come il 7° cavalleggeri. Soprannominati “Garry Owen” dal nome del loro inno (un’antica marcia irlandese), furono comandati dal 1866 al 1876 dal colonnello George Armstrong Custer. Il 7° cavalleggeri, tra la fine della Guerra di Secessione e l’inizio delle guerre indiane, fu responsabile di diverse stragi di nativi americani, fino a quanto, nel 1876, non si scontrò con le forze molto superiori dei capi indiani Toro Seduto e Cavallo Pazzo. La battaglia, una delle più celebri della storia americana, prese il nome di Little Big Horn. Il reggimento venne quasi distrutto e Custer venne ucciso.

Quattordici anni dopo, nel 1890, le guerre indiane erano ormai arrivate alla fine. Le insurrezioni indiane erano state represse e la gran parte delle tribù indiane si trovavano chiuse nelle riserve. All’inizio dell’anno, un nuovo culto messianico si diffuse tra gli indiani. Veniva chiamato la Ghost Dance (danza dello spirito) e aveva messo in allarme le autorità di alcuni stati americani. Il timore era che dietro al culto potesse covare una nuova insurrezione: i profeti della Ghost Dance predicavano il ritorno di Gesù sotto forma di indiano americano e il ritorno delle mandrie di bisonti, fondamentali per il modo di vivere degli indiani e cacciati fin quasi all’estinzione.

Gli agenti indiani, cioè i funzionari governativi che avevano il compito di trattare con le tribù, sconsigliarono di agire direttamente contro il nuovo culto, ma l’esercito americano decise ugualmente di procedere al disarmo forzato di tutti gli indiani. Il 29 dicembre, in South Dakota, il 7° cavalleggeri sorprese un gruppo di 500 Sioux, tra cui circa 150 giovani armati, che avanzava nella neve alta.

Il gruppo venne circondato dal reggimento, che era armato anche di quattro mitragliatrici. Secondo le ricostruzioni successive, mentre i soldati americani procedevano al disarmo ci fu un piccolo scontro con un indiano che non voleva consegnare il suo vecchio fucile, sostenendo di averlo «pagato molto». Mentre un soldato cercava di strapparglielo dalle mani partì un colpo accidentale, scatenando la reazione dei soldati americani che circondavano il gruppo.

Le mitragliatrici cominciarono a sparare sugli indiani accerchiati, in mezzo ai quali c’erano anche i cavalleggeri che li stavano disarmando. Alcuni indiani provarono a rispondere al fuoco, ma la maggior parte fuggì. In molti, a quanto pare, furono inseguiti e uccisi quando ormai lo scontro era terminato. Il bilancio del massacro è incerto: si parla di 150 o forse 300 Sioux morti. Morirono anche 25 soldati americani e 39 furono feriti, quasi tutti dal fuoco amico.

Oggi, accanto al cimitero, c’è un piccolo centro per visitatori di una sola stanza, gestito da un nativo americano che tiene una bandiera americana appesa al contrario e indossa un cappello con scritto FBI, che sta per full blooded indian, “sangue indiano puro”. Il proprietario sostiene che il suo trisnonno possedeva quella terra prima che fosse espropriata dai bianchi. Ma altri indiani sostengono che la sua rivendicazione è falsa e che cercare di guadagnare sfruttando la vicinanza con il cimitero è un sacrilegio.

Per gli indiani di Wounded Knee la terra del massacro non deve essere venduta, se non a loro e per un prezzo simbolico. Ma su tutto il resto sono divisi. Secondo alcuni la terra va preservata come un santuario: sfruttarla o guadagnarci in qualunque modo sarebbe sbagliato, mentre secondo altri sarebbe necessario costruire almeno un museo vero e un piccolo motel, per attirare qualche turista.

La Contea di Shannon, che comprende l’area del massacro e la vecchia riserva di Pine Ridge dove abitano molti nativi americani tra cui anche diversi discendenti del massacro, è una delle più povere degli Stati Uniti. Il 53,3% degli abitanti vive sotto la soglia di povertà, la percentuale più alta di tutto il paese. Quelli che sostengono che la tribù dovrebbe investire nel territorio sottolineano che già oggi, per guadagnarsi qualcosa da vivere, molti nativi vendono souvenir e altri oggetti in alcune bancarelle della zona.

I 40 acri messi in vendita finirono a proprietari non indiani probabilmente alla fine del ‘800, quando il governo disegnò le riserve e mise in vendita gli ampi terreni che le circondavano. Czywczynski comprò la terra nel 1968 e costruì un museo e un piccolo mercato. Nel 1973 abbandonò la zona, dopo che un gruppo di nativi assaltò la cittadina distruggendola completamente. Czywczynski sostiene che prova a vendere la terra alla tribù degli Oglala da 30 anni, ma i nativi non hanno i soldi oppure si dividono tra chi vuole comprare e chi non vuole comprare. Ora, a 74 anni, Czywczynski ha deciso che se entro il 1 maggio gli Oglala non acquisteranno il terreno lo metterà all’asta al miglior offerente.