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  • Giovedì 28 marzo 2013

«È per questo che sto facendo lo sciopero della fame»

La lettera di Zainab al-Khawaja, attivista in Bahrein che si trova in carcere da un mese, che sta facendo il giro di Internet

Bahraini opposition activist Zainab al-Khawaja, daughter of prominent jailed opponent Abdulhadi al-Khawaja, holds her daughter Jude as they sit in a coffee shop in the village of Abu Saiba, West of Manama, on May 29, 2012. Zainab has been released on bail one month after she was arrested and she still faces charges related to organising rallies in Bahrain. AFP PHOTO/MOHAMMED AL-SHAIKH (Photo credit should read MOHAMMED AL-SHAIKH/AFP/GettyImages)
Bahraini opposition activist Zainab al-Khawaja, daughter of prominent jailed opponent Abdulhadi al-Khawaja, holds her daughter Jude as they sit in a coffee shop in the village of Abu Saiba, West of Manama, on May 29, 2012. Zainab has been released on bail one month after she was arrested and she still faces charges related to organising rallies in Bahrain. AFP PHOTO/MOHAMMED AL-SHAIKH (Photo credit should read MOHAMMED AL-SHAIKH/AFP/GettyImages)

Il 24 marzo il celebre giornalista americano Nicholas Kristof ha pubblicato sulla sua rubrica sul New York Times la lettera scritta in carcere da Zainab al-Khawaja, attivista per i diritti umani e prigioniera politica in Bahrein. Al-Khawaja ha 29 anni, si trova in carcere dal 28 febbraio e il 17 marzo ha iniziato lo sciopero della fame per protestare contro il divieto di incontrare i familiari, tra cui la figlia di tre anni. Si tratta di una punizione dovuta al rifiuto di al-Khawaja di indossare la divisa dei detenuti, dato che – spiega nella lettera – non ha commesso alcun crimine.

Al-Khawaja fa parte di una famiglia di attivisti del Bahrein. Il padre Abdulhadi al-Khawaja è stato presidente del Centro per i diritti umani del Bahrein; per questo e per la sua opposizione al regime venne arrestato nell’aprile del 2011 e condannato all’ergastolo. In quell’occasione vennero arrestati anche il marito e il cognato di Zainab, che iniziò per protesta lo sciopero della fame. Al-Khawaja è diventata famosa anche in Occidente e negli Stati Uniti per aver raccontato le proteste la repressione del regime su Twitter, con l’account AngryArabiya (che ha 49 mila followers e non è aggiornato dal 27 gennaio). È stata arrestata più volte per «raduno illegale» e «protesta illegale». La rivista americana Foreign Policy l’ha inserita nella lista dei cento più importanti pensatori al mondo ed è stata candidata al Premio Nobel per la Pace.

Nicholas Kristof è una sorta di istituzione del giornalismo americano. Ha 53 anni, ha iniziato a lavorare al New York Times nel 1984 e da allora si è occupato soprattutto di abusi contro i diritti umani in molti paesi del mondo (secondo la sua biografia ne ha visitati 150). Ha vinto due premi Pulitzer: uno per il racconto della repressione delle proteste in piazza Tiananmen, a Pechino, e un altro per il racconto del genocidio in Darfur, di cui si è occupato intensivamente dal 2004.

La lettera di al-Khawaja, che cita ampiamente storici attivisti come Martin Luther King e Nelson Mandela, è stata ripresa da molti giornali e siti di notizie di tutto il mondo (in Italia il programma Alaska di Radio Popolare le ha dedicato una puntata): di seguito potete leggerne la traduzione.

***

Un grande leader è immortale, le sue parole e le sue azioni riecheggiano negli anni, nei decenni, nei secoli. Attraversano gli oceani e i confini, e diventano un’ispirazione che tocca le vite dei molti che vogliono imparare. Uno di questi leader è lo straordinario Martin Luther King Jr.

Quando leggo le sue parole sento che riesce a raggiungerci da un’altra terra e da un altro tempo per insegnarci lezioni davvero importanti. Ci insegna, per esempio, che non dobbiamo essere amareggiati, che dobbiamo essere disposti a sacrificarci per la libertà e che non possiamo mai permetterci di abbassarci al livello dei nostri oppressori.

Quando due anni fa fiori di speranza e resistenza all’oppressione iniziarono a spuntare in tutto il mondo arabo, la gente del Bahrein vide i primi segni di un’alba nuova. Speravamo che quell’alba avrebbe spazzato via una lunga notte di dittatura e oppressione, un lungo inverno di silenzio e paura, e che avrebbe diffuso la luce e il calore di una nuova era di libertà e democrazia.

Con quella speranza e quella determinazione, le persone del Bahrein sono scese in strada il 14 febbraio del 2011 per rivendicare in modo non violento i loro diritti. Le loro canzoni, le loro poesie, i loro disegni e i loro slogan per la libertà furono accolti con proiettili, carri armati, gas tossici e lacrimogeni, e i pallini delle pistole. Il brutale regime degli al-Khalifa voleva porre fine alla rivoluzione pacifica usando la violenza e diffondendo la paura.

Di fronte a questa brutalità la gente del Bahrein ha mostrato grande autocontrollo. Giorno dopo giorno i manifestanti hanno offerto fiori ai soldati e ai mercenari che gli sparavano contro. I manifestanti restavano in piedi a petto nudo e con le braccia levate gridando «pace! pace!», prima di cadere a terra coperti nel loro stesso sangue. Migliaia di cittadini del Bahrein sono state arrestati e torturati per crimini come «raduno illegale» e «incitamento all’odio contro il regime».

Due anni dopo, le atrocità del regime del Bahrein continuano. Le persone continuano a essere uccise, arrestate, ferite e torturate per aver chiesto la democrazia.

Oggi quando guardo negli occhi i manifestanti del Bahrein, vedo troppo spesso che la speranza è stata sostituita dall’amarezza. È la stessa amarezza che Martin Luther King vedeva negli occhi delle persone che protestavano nei bassifondi di Chicago nel 1966. Vedeva che le stesse persone che avevano guidato le proteste non violente, che erano disposte a essere picchiate senza rispondere, si erano invece convinte che la violenza fosse l’unica lingua che il mondo capiva.

Io, come King, sono rattristata nello scoprire che gli stessi manifestanti che prima affrontavano i carri armati e le pistole a petto scoperto e con i fiori in mano ora si chiedono: «a che serve la non violenza, a che serve la nostra superiorità morale, se nessuno ci ascolta?». King spiega che questa disperazione è naturale quando le persone sacrificano così tanto, quando non c’è alcun cambiamento in vista e sentono che le loro sofferenze sono inutili.

Uno dei motivi per cui il progresso verso la democrazia è così lento in Bahrein è, ironicamente, che le nazioni democratiche sostengono la dittatura. Che sia vendendo armi o dando sostegno politico o economico, gli Stati Uniti e altri governi occidentali hanno mostrato al popolo del Bahrein di stare dalla parte della monarchia degli al-Khalifa e contro i movimenti per la democrazia.

Ultimamente, quando leggo le parole di King, vorrei davvero che fosse ancora vivo. Mi chiedo che cosa direbbe del sostegno degli Stati Uniti ai dittatori del Bahrein. Che cosa direbbe sul distogliere lo sguardo dal sangue e dalle lacrime versate nella ricerca della libertà? Tutto quello che dovevo fare era voltare una pagina, e questa volta Martin Luther King non parlava a me, ma a voi, americani.

«Le parole del defunto John F. Kennedy ritornano a perseguitarci. Cinque anni fa ha detto “quelli che rendono le rivoluzioni pacifiche impossibili, renderanno inevitabili le rivoluzioni violente”. E sempre di più, per scelta o per caso, è questo il ruolo che ha assunto la nostra nazione, il ruolo di quelli che rendono impossibile la rivoluzione pacifica rifiutandosi di rinunciare ai privilegi e ai piaceri che vengono dagli immensi profitti degli investimenti oltremare. Sono certo che se vogliamo stare dalla parte giusta della rivoluzione mondiale, noi, come nazione, dobbiamo sottoporci a una radicale rivoluzione dei nostri valori», ha detto King. «Una vera rivoluzione di valori che presto metterà in discussione l’equità e la giustizia di molte nostre politiche passate e presenti».

King scriveva anche: «Questi sono tempi rivoluzionari. In tutto il mondo gli uomini si stanno ribellando contro i vecchi sistemi di sfruttamento e oppressione e dal grembo di un mondo fragile stanno nascendo nuovi sistemi di giustizia e uguaglianza. Le persone che non hanno vestiti e non hanno scarpe si stanno sollevando come non era mai successo prima. “Le persone che prima sedevano nel buio hanno visto una grande luce”. Noi in Occidente dobbiamo sostenere queste rivoluzioni. È triste che per comodità, compiacenza, una patologica paura del comunismo e la nostra disponibilità ad adeguarci all’ingiustizia, le nazioni occidentali che hanno iniziato per così tanta parte lo spirito rivoluzionario del mondo moderno siano diventate adesso gli arci-anti-rivoluzionari».

Concludendo il suo discorso, King aggiunse: «dobbiamo andare oltre l’indecisione e iniziare ad agire. Dobbiamo trovare nuovi modi di parlare per la pace. Se non agiamo, saremo certamente trascinati nei lunghi corridoi bui e pieni di vergogna che il tempo ha riservato a quelli che possiedono potere senza compassione, potenza senza moralità, e forza senza visione».

L’eco delle parole di Martin Luther King ha viaggiato attraverso gli oceani, attraverso le valli e le sbarre di metallo di una prigione del Bahrein, nella cella sporca e sovraffollata in cui mi trovo. Ascolto le parole di questo grande leader americano. Non è stata la presidenza a fare grande questo leader afroamericano, ma la sua dedizione inflessibile alla moralità e alla giustizia.

Mentre ammiro la sua saggezza, mi chiedo se anche l’America è in ascolto.

Da prigioniera politica in Bahrein, cerco di trovare un modo per combattere da dentro la fortezza del nemico, come la chiamò una volta Nelson Mandela.

Quando sono stata chiusa in una cella con quattordici persone – tra cui due condannate per omicidio – mi è stata data la divisa arancione dei carcerati: sapevo che non la avrei potuta indossare senza dover ingoiare un po’ della mia dignità. Non indossare gli abiti da prigioniera perché non avevo commesso alcun crimine è stato il mio piccolo gesto di disobbedienza civile. Non permettere che la mia famiglia e la mia bambina di tre anni venissero a farmi visita, è stata la loro punizione. È per questo che sto facendo lo sciopero della fame.

Gli amministratori del carcere mi chiedono perché lo faccio e io rispondo «perché voglio vedere la mia bambina». E loro rispondono «obbedisci e la rivedrai». Ma se obbedisco, la mia piccola Jude non vedrà la sua mamma ma una sua versione spezzata. In una lettera ho detto all’amministrazione della prigione che non indosserò la divisa dei detenuti perché, come ha detto una volta King a proposito del saggio di David Thorau sulla disobbedienza civile, «nessun uomo morale può adattarsi pazientemente all’ingiustizia».

Quello che rende il carcere difficile è convivere con il tuo nemico. Persino nelle cose più semplici: se vuoi mangiare devi stare in piedi davanti a lui con il tuo vassoio di plastica. Ogni giorno uno affronta la possibilità di essere ridicolizzato, umiliato, o che gli si urli addosso per qualsiasi ragione.

Ma io ho lasciato che le parole di grandi uomini mi aiutassero nei momenti difficili.

Quando uno “specialista” ha minacciato di picchiarmi per aver detto a una compagna di cella che aveva il diritto di chiamare il suo avvocato, non ho risposto urlando, ho ripetuto nella mia testa le parole di King: «non importa quanto sono aggressivi i tuoi nemici, tu devi restare calma».

Quando ne ho avuto abbastanza delle persone che dicevano che avevo avuto i miei diritti e che mi stavo rifiutando di affrontare le mie responsabilità, mi sono arrabbiata. Mi sentivo così frustrata che mi sono messa a urlare contro le persone che mi ripetevano continuamente quelle cose.

Ma non è stato forse un grande uomo a dire che nella lotta per la giustizia «non dobbiamo amareggiarci» e «non dobbiamo abbassarci al livello dei nostri oppressori»?

Un medico è venuto a visitarmi e mi ha detto «potresti andare in coma, i tuoi organi vitali potrebbero smettere di funzionare perché il tuo livello di zucchero nel sangue è troppo basso. E tutto questo per cosa? Una divisa».

Io gli ho risposto: «Sono contenta che non ci fosse lei con Rosa Parks su quell’autobus, a dire a quella donna che ha dato origine al movimento dei diritti civili che quello che stava facendo era “soltanto per una sedia”». Quando il medico mi ha chiesto del movimento per i diritti civili gli ho offerto il mio libro di Martin Luther King. Se mi conosceste sapreste che è una cosa rara per me, di solito non mi separo mai dai miei libri.

Delle volte con le sue parole Martin Luther King mi ha fatto compagnia, è stato più un compagno di cella che un maestro.

Ha scritto che «può capire il mio conflitto soltanto chi ha guardato negli occhi di chi ama sapendo che non ha nessuna alternativa: qualsiasi scelta farà li lascerà nel tormento». Io lo capisco. È come se fosse seduto al mio fianco. L’esperienza del carcere, ha detto, «è vita senza il canto degli uccelli, senza la vista del sole, della luna, delle stelle, senza poter sentire l’aria fresca. In breve, è vita senza le bellezze della vita, è mera esistenza: fredda, crudele, avvilente».

Anche mio padre – il mio eroe e il mio amico – venne condannato all’ergastolo per il suo impegno per i diritti umani, e rifiutò di indossare la grigia uniforme dei detenuti. Come al solito il governo cerca di rimetterci al nostro posto togliendoci quello che per noi è più importante. Non permisero a mio padre di ricevere visite dalla sua famiglia.

La crudeltà è un segno distintivo del regime al-Khalifa, ma il coraggio incrollabile è il marchio di mio padre. Nessuna pressione emotiva potrà mai spezzarlo.

Le visite familiari sono l’unica cosa che uno aspetta in prigione. Mio padre e io non potremmo incontrare la nostra famiglia e non potremmo incontrarci l’uno con l’altro, ma la battaglia per i nostri diritti continuerà.

Finché non incontreremo i nostri familiari, li terremo nei nostri cuori.

Ieri, mentre guardavo la porta della mia prigione con le sue sbarre di ferro, ho fatto un sogno. Questa volta era un sogno piccolo e semplice, non un grande sogno di democrazia e libertà. Ho semplicemente visto mia mamma sorridere e tenere mia figlia per mano, davanti alla porta della mia cella. Le ho viste mentre passavano attraverso la porta, mia madre si è seduta sul mio letto di prigione, io e mia figlia eravamo distese l’una vicino all’altra, con la testa dell’una sul grembo dell’altra. Ho fatto il solletico a Jude e lei si è messa a ridere. Il mio cuore si è riempito di gioia. Improvvisamente ho sentito che eravamo circondate da un’ombra fresca e protettiva, ho sollevato lo sguardo e ho visto mio padre di fianco al letto, che guardava noi tre e sorrideva. Io sogno quelli che amo, ed è il loro amore che mi dà la forza per combattere per i sogni del nostro paese.

Foto: Zainab al-Khawaja con la figlia Jude nel villaggio di Abu Saiba nel maggio 2012. Zainab era stata appena rilasciata dopo un mese di carcere. (MOHAMMED AL-SHAIKH/AFP/GettyImages)