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  • Mercoledì 20 febbraio 2013

Contro il Tiqui-Taca

Michele Dalai spiega in un libro come ha imparato a detestare il Barcellona

Barcelona's Argentinian forward Lionel Messi (L) celebrates with his teammates after scoring during the Spanish league football match Valencia CF vs FC Barcelona at the Mestalla stadium in Valencia on February 3, 2013 . AFP PHOTO / JOSE JORDAN (Photo credit should read JOSE JORDAN/AFP/Getty Images)
Barcelona's Argentinian forward Lionel Messi (L) celebrates with his teammates after scoring during the Spanish league football match Valencia CF vs FC Barcelona at the Mestalla stadium in Valencia on February 3, 2013 . AFP PHOTO / JOSE JORDAN (Photo credit should read JOSE JORDAN/AFP/Getty Images)

È uscito il 19 febbraio per Mondadori “Contro il Tiqui-Taca. Come ho imparato a detestare il Barcellona“, un pamphlet di Michele Dalai (dedicato “a ogni contropiedista”) in cui, partendo dall’articolo pubblicato su IL a settembre 2012, Dalai prova a smontare i luoghi comuni sulla superiorità del Barcellona criticandone molti aspetti: dal motto “mes que un club” alla noia di un gioco basato tutto sul possesso palla, dal buonismo dei suoi giocatori “allineati allo spirito disneyano richiesto dal club” alla logica da allevamento del suo settore giovanile.

I – La verità ti fa male, lo so

Ti è già successo.
Nel mezzo di un’accanita conversazione calcistica, unico collante di una moltitudine in fuga da argomenti impegnativi, qualcuno ha fatto una lunga pausa e ha detto certo che se giocassimo come il Barcellona…
All’unisono gli altri partecipanti hanno annuito, forse hanno anche brindato con vigore rischiando di sbeccare bicchieri e incisivi. Tu cos’hai fatto? Hai sorriso, gli angoli della bocca tirati allo spasimo per evitare di essere scoperto. Una parte di te ha preso il sopravvento, quella che ama il vivere quieto e non interviene nemmeno in soccorso delle vecchine scippate in strada. Arrendevole, mite agnello sacrificale, hai partecipato all’apologia con qualche aneddoto posticcio da spendere a bassa voce. Hai spacciato notizie di terza mano sulla velocità incredibile di Messi: un amico di amici ti ha raccontato che l’argentino può superare un’utilitaria in salita e consuma molto meno. Ti hanno anche detto, ma non ricordi chi, che quando è arrivato a Barcellona era alto nove centimetri e che lo hanno appeso a testa in giù con dei pesi attaccati alle orecchie pur di farlo crescere (o qualcosa del genere), forse gli stessi pesi che i guru indiani si legano ai testicoli per poi meditare incuranti del dolore (si spiegherebbe così quella quieta accettazione di ogni cosa, la calma del fuoriclasse senza rabbia). Le vite dei Santi sono piene di episodi minori e, anche se non ne sai nulla, improvvisare è semplice.
Stai parlando bene del Barcellona.

Ti eri ripromesso di non cascarci più e di battere i pugni sul tavolo, urlando a squarciagola che uno come Pedrito non lo vorrebbero nemmeno i circhi per spararlo con il cannone, ma non ce l’hai fatta. Hai valutato i rischi e le difficoltà e hai deciso che non potendo batterli e non volendo unirti a loro, questa adesione timida è il modo migliore per non farti stanare. Ti sei arreso allo standard blues più scontato, quello secondo cui dopo di loro il diluvio, prima di loro solo calcio dozzinale.
Secondo gli integralisti blaugrana il fútbol esiste solo in funzione del Barcellona, il resto è noia. Parlano i risultati, le statistiche, parlano gli appassionati e i conoscitori del pallone. Parla la Uefa, lo dicono gli scrittori arguti e sornioni, non può non essere vero. Ma è davvero così? Vale la pena di prendere sempre per buona la dottrina maggioritaria?
Non sempre.
Questo piccolo libro serve a farti sentire meno solo, a confortarti e a riscaldare lo spirito di tutti quelli come te.

Riavvolgi il nastro di una a caso di quelle serate e prova a cambiare il finale. Osa l’impossibile, guardali in faccia e dillo con fermezza: a me il gioco del Barcellona non piace.
Nella migliore delle ipotesi ti daranno del bastian contrario, come fosse un vezzo il tuo profondo e motivato dissenso, come se ci fosse studio nella tua radicale antipatia per quello stile di gioco. Quelli meglio informati sul sarcasmo anglosassone ti sputacchieranno sprezzanti che sei un attention whore e ti costringeranno a cercare sui dizionari quello che avrebbero potuto farti capire in mille altri modi e nella tua lingua: a loro giudizio sei uno che farebbe qualsiasi cosa pur di ottenere l’attenzione dei più. Una zoccola, appunto. Ti daranno dell’hater, come fanno quelli giovani con il cavallo dei pantaloni basso-che-struscia-in-terra con altri che hanno lo stesso cavallo dei pantaloni ma diversi gusti musicali. Molti faranno uso di una categoria abusata, la supercazzola del povero di spirito e d’argomenti: l’invidia. Diranno che il motore unico di ogni pur motivata critica è l’invidia, perché quella squadra di cui a parole fai scempio è in realtà l’unico sogno della tua vita. Loro credono di averti capito bene.

Tu odi perché non sai amare e non puoi avere, ti è negata quella perfezione stilistica perché i centrocampisti della squadra che tifi a tempo pieno (e a volte perso) hanno piedi maleducati e non sanno muoversi come nuotatrici sincronizzate russe. Invidi le vittorie per tanto a poco e la ragnatela ipnotica di passaggi, i trofei di squadra e quelli individuali, li invidi quando vincono e quando perdono, perché hanno stile anche nella sconfitta o comunque quella è l’opinione comune e a questo mondo si sa che se lo dicono tutti deve essere vero al di là di ogni dimostrazione pratica del contrario, con buona pace di Pirrone e dei suoi.
I più raffinati, quelli con un esame di estetica alle spalle, ti diranno che la tua è una pura provocazione, che odiare il bello è una disperata richiesta di aiuto. Quelli seduti accanto a loro, gente con qualche esame di psicologia sul libretto, coglieranno la palla al balzo e suggeriranno una via per uscire da questo brutto momento, sussurreranno pazienti e comprensivi che se tuo padre ti menava da piccolo è inutile prendersela con il Barcellona. Il rimosso, il tuo problema deve essere per forza il rimosso. I meno raffinati ne faranno una questione di tifo, ma rimandiamo il tema a qualche pagina più in là.
Sei sospeso tra un’iperbole blaugrana e l’altra, in apnea e pronto a capitolare definitivamente, ad ammettere che in fondo hanno anche ragione.
Non arrenderti, non farlo.
Non lasciare che il brusio di dissenso che percorre il bancone del tuo pub mano a mano che la voce della tua eresia si propaga ti distragga dall’obiettivo finale, non arrossire.
Nonostante manchi la certezza sulla vera origine dell’espressione idiomatica bastian contrario, è possibile che si riferisca al piemontese conte di San Sebastiano che nel pieno della battaglia dell’Assietta rifiutò di obbedire all’ordine di ripiegamento sulla seconda linea. Il suo gesto di insubordinazione e quello di pochi granatieri che con lui scelsero di resistere fruttò l’insperata vittoria contro l’esercito franco-ispanico.
Caparbio, ottuso e lucido, il conte di San Sebastiano; se l’espressione si dovesse a lui allora siamo disposti a farci dare dei bastian contrari e a non arretrare di fronte alla pioggia di consensi che costruiscono la leggenda dell’ultima armata blaugrana come squadra più forte di tutti i tempi.
Come?
È un mantra ma non lo troverai nei manuali dei guerrieri della luce perché a quelli il calcio non piace.
Prendi fiato, conta fino a tre e ripeti a voce alta.
Io detesto il Barcellona, chiunque ami il gioco del calcio non può che detestare il Barcellona.
Ora aggiungi il fondamentale secondo me, che ti libererà dall’accusa di tromboneria.
Ecco, l’hai fatto.
Ti senti meglio?

[…]

V – Il tiqui taca come arma di distruzione di massa

Finiti i convenevoli tocca parlarne per davvero.
Il Barcellona di Guardiola è la massima espressione del nuovo spirito blaugrana. Un allenatore giovane e intelligente (anche molto presentabile, che non guasta). Un gruppo di giocatori disciplinati, incapaci di qualsiasi forma di protagonismo o eccesso, allineati allo spirito disneyano richiesto dal club. Un pubblico che festeggia le vittorie ma non dimentica di celebrare la squadra anche nelle sconfitte, come accaduto alla fine della sfortunata semifinale di Champions League contro il Chelsea. Non me ne sono accorto in tempo reale perché come altri milioni di antipatizzanti ero in piedi sul divano, paonazzo e stravolto dalla gioia a celebrare il successo dei brutti, sporchi, ricchi e cattivi del Chelsea di Abramovic, il miliardario dallo sguardo di ghiaccio e il portafoglio senza fondo. Da dove viene quello che uno bravo chiamerebbe Schadenfreude e uno come me semplifica in antipatia? Perché tutto questo astio, come si può non amare il Barcellona? Si può e forse per amore del calcio si deve. non è il passatismo a trasformarci in nemici irriducibili del gioco del Barcellona (che qui non chiameremo mai affettuosamente Barça), non la nostalgia della melina né la naturale e molto sana propensione catenacciara di noi gente che non ama il tiqui taca. Abbiamo già declinato le nostre generalità e le preferenze in tema di stile di gioco, siamo al di sotto di ogni sospetto ma non per questo ciechi.
Il Barcellona è terribilmente noioso, ecco la verità, ecco il punto.

Il suo gioco lento e avvolgente, la quantità industriale di palloni stoppati, lavorati e giocati dai suoi centrocampisti frenetici è una delle cose più deprimenti della storia del calcio e il fine ultimo della creazione del suo gioco, l’umiliazione dell’avversario ancora più e prima che la sua sconfitta, è aberrante. Il dramma (sportivo, s’intende), è che siamo di fronte a un’onda lunga, di cui vediamo solo i primi effetti. Dicevamo che non vogliamo lasciare ai nostri figli un mondo a misura di possesso palla? Sarebbe il meno. infatti gli infidi maestri di calcio catalani iniziano molto presto a instillare i principi della noia e della masturbazione del pallone ai loro pulcini.

La masía del Barcellona, il suo settore giovanile, è l’incubatore perfetto del malinteso celebrato in tutto il mondo come il miracolo della squadra che inventò il calcio moderno. Li vogliono tutti uguali, pettinati allo stesso modo, educati e al servizio del collettivo. Una fabbrica di piccoli cloni interscambiabili, pronti a entrare nello schema. Tempo fa una selezione giovanile romana chiamata Futbolclub fece visita alla masía per cercare di carpirne i segreti. Furono organizzate quattro partite e i ragazzini italiani presero complessivamente 59 gol per segnarne solo uno. I dirigenti del Futbolclub si dissero entusiasti dell’esperienza, nessuno si prese la briga di raccogliere le dichiarazioni dei piccoli giocatori, che con tutta probabilità avrebbero sposato la mia tesi, dedicando al Barcellona quel sordo rancore che la vittima dedica non tanto al carnefice quanto al sadico torturatore. I 59 gol delle giovanili, gli otto gol a partita rifilati dalla prima squadra alle inermi armate brancaleone della Liga (un campionato molto poco equilibrato, in cui due club si contendono il titolo da sempre, permettendo sporadici inserimenti a terzi incomodi, insomma quello che succede in tutto il mondo…), tutti esercizi di uno stile arrogante che per carità è disponibile e rappresenta una soluzione per chi ha più forza e talento, ma che ha comunque enormi zone d’ombra.

foto: JOSE JORDAN/AFP/Getty Images