Fin dove si ritocca il fotogiornalismo?

Se lo chiede Michele Smargiassi riflettendo sull'immagine che ha vinto il World Press Photo

In this photo provided on Friday Feb. 15, 2013 by World Press Photo, the 2013 World Press Photo of the year by Paul Hansen, Sweden, for Dagens Nyheter, shows two-year-old Suhaib Hijazi and her three-year-old brother Muhammad who were killed when their house was destroyed by an Israeli missile strike. Their father, Fouad, was also killed and their mother was put in intensive care. Fouadís brothers carry his children to the mosque for the burial ceremony as his body is carried behind on a stretcher in Gaza City, Palestinian Territories, Nov. 20, 2012. (AP Photo/Paul Hansen, Dagens Nyheter)
In this photo provided on Friday Feb. 15, 2013 by World Press Photo, the 2013 World Press Photo of the year by Paul Hansen, Sweden, for Dagens Nyheter, shows two-year-old Suhaib Hijazi and her three-year-old brother Muhammad who were killed when their house was destroyed by an Israeli missile strike. Their father, Fouad, was also killed and their mother was put in intensive care. Fouadís brothers carry his children to the mosque for the burial ceremony as his body is carried behind on a stretcher in Gaza City, Palestinian Territories, Nov. 20, 2012. (AP Photo/Paul Hansen, Dagens Nyheter)

Repubblica ospita martedì in prima pagina una riflessione di Michele Smargiassi, giornalista esperto e appassionato di fotografia, sull’uso contemporaneo del ritocco digitale delle immagini che ha raggiunto visibilmente anche la foto che ha vinto l’importante premio World Press Photo.

Per la giuria del World Press Photo Award, l’Oscar olandese del fotogiornalismo, il caso non esiste. Qualunque ritocco lo svedese Paul Hansen, che venerdì ha ricevuto il primo premio per il 2012, abbia praticato sulla sua immagine vincitrice, “siamo convinti che rientri nelle pratiche accettabili della professione”, hanno stabilito i guru di Amsterdam. Ne sono meno convinti centinaia di fotografi, o semplici appassionati, che da venerdì intasano i forum di Internet con proteste contro la “teatralizzazione del dolore”, e la “foto trasformata in un Caravaggio”.
Di drammatizzazioni, quell’immagine non parrebbe avere bisogno. Mostra il funerale concitato e affranto di Suhaib e Muhammad, fratellini palestinesi di due e quattro anni uccisi il 20 novembre nel bombardamento israeliano della loro casa a Gaza City. Un’immagine di dolore estremo, un urlo contro una guerra ingiusta e spietata.
Ma nessuno contesta quel che la foto racconta. Il dubbio è su come lo fa. Per una volta, non sono in questione l’aggiunta o la cancellazione di dettagli significativi, le bugie conclamate.
La polemica si fa più sottile. Sotto accusa è lo “stile” che un uso eccessivo dei “pennelli elettronici” di Photoshop o di Lightroom imporrebbe al lavoro dei fotogiornalisti, allontanandolo dalla testimonianza visuale. Quell’abbondanza di dettagli nitidissimi in una situazione movimentata. Quella luce calda che piove da sinistra, sui volti, scaturita da chissà dove, in un vicolo stretto e buio. “Per un attimo la luce è rimbalzata sui muri della stradina”, ha spiegato Hansen al New York Times.
Ma non bisogna essere dei tecnici per intuire che questa immagine non è uscita così come la vediamo dalla fotocamera. Del resto, “non c’è fotografia mediatizzata, oggi, che non sia più o meno post-prodotta”, conferma Renata Ferri, photo-editor di grande esperienza, due volte nella giuria del WPP, “e le regole del premio, lo garantisco, sono molto severe, proprio per impedire che gli eccessi dilaghino”. E questa foto, perché è passata? “Questa non è una foto disonesta, mostra un fatto tragicamente reale. A me comunque non piace, io sono per il ritorno al documento, anche spoglio, brutale. Purtroppo la tendenza all’epicità, alla “licenza poetica”, sta dilagando. Non c’è fotografo che non ci provi, ma non tutti i fotografi possono essere dei Goya, come non tutti i giornalisti scrivono come Montale”.

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