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  • Giovedì 31 gennaio 2013

La business class e io

Il confortevole inizio del viaggio intorno al mondo di Francesco Piccolo, raccontato nel suo libro Allegro occidentale

di Francesco Piccolo

È uscita per Einaudi la riedizione del libro di Francesco Piccolo Allegro occidentale, pubblicato per la prima volta da Feltrinelli nel 2003. È una serie di racconti di un viaggio orientale, introdotti così nel secondo capitolo (nel primo Piccolo veniva scambiato per Nicolas Cage in un ascensore di Hong Kong).

Qualche settimana prima, sono all’aeroporto di Malpensa. Al Terminal 2. Al Terminal 1 ci sono cinque voli al minuto, qui solo due – non al minuto, solo due oggi: un volo è partito per Zanzibar, un altro partirà per Colombo. È quasi tutto chiuso, silenzioso, con un piccolo bar in fondo, dove poche persone chiedono un caffè. Io sono seduto nel corridoio. Sono in una posizione spazio-temporale speciale. Sono sul punto di. Posso guardare questi sconosciuti in quanto sconosciuti, con la coscienza di sapere che ognuno di loro ha una probabilità altissima di diventare mio compagno di viaggio.

Non è questione da poco. Perché questo significa che siamo sull’orlo di un’intimità sfrenata. Posso guardare queste persone sconosciute, mai viste, mentre sono pienamente cosciente che già domani, soltanto domani, di quelle di loro che viaggeranno con me, saprò tutto. E sono di sicuro qui davanti a me, anche se ancora non le riconosco.

Fino al momento in cui li ho visti, ora, i miei probabili futuri compagni di viaggio, non sapevo della loro esistenza, nemmeno la presupponevo. Ora li guardo e quelli di loro che il destino sceglierà, costituiranno il mio gruppo. Ciò vorrà dire che essendo domani molto lontano da casa, solo, il mio gruppo si trasformerà immediatamente nella mia improvvisata famiglia, con naturalezza: con loro mangerò, dormirò, camminerò sotto il sole, guarderò il mondo che non ho mai visto. Il livello emotivo sarà costantemente alto e lo condividerò per intero e senza pudore con degli esseri umani che prima di questo viaggio non sapevo esistessero e che ora sono qui davanti a me anche se ancora non li riconosco. Eppure soltanto domani mi racconteranno la loro vita e ascolteranno la storia della mia vita. Ci racconteremo storie intime che non abbiamo raccontato a nessuno, porremo questioni filosofiche poste solo al nostro migliore amico una notte seduti sul marciapiede con molte birre vuote, e faremo tutto ciò solo perché siamo lontanissimi da casa e con persone che non c’entrano nulla con la nostra vita e per questo ci sentiremo al sicuro. E poi nomineremo e sentiremo nominare con sillabe confidenziali altre persone che non conosceremo mai ma che faranno parte dei prossimi giorni perché saranno le persone a cui si riferiscono i racconti – amici, fidanzati, figli, mogli, colleghi, amanti, fratelli, madri –, li nomineremo e li sentiremo nominare nelle telefonate e nelle preoccupazioni, nei negozi per scegliere un regalo e quando ci sentiremo indifesi di fronte a un’insensata nostalgia. Sono proprio qui davanti a me, senza che ancora li riconosca, gli esseri umani che tra pochissimo condivideranno con me una quotidianità improvvisa, totale, in cui berremo dallo stesso bicchiere, ci presteremo il phon, ci faremo fotografare tutti insieme, ci telefoneremo da una camera all’altra due minuti prima dell’ora dell’appuntamento per chiederci con complicità se siamo pronti. E soprattutto, condivideremo una cosa che non potremo condividere più con nessun altro: vedere, come in questo caso, per la prima volta (e forse mai più) la foresta dello Sri Lanka, le luci dei grattacieli di Hong Kong, la grande barriera corallina australiana. Ci fermeremo davanti a queste bellezze, a queste scoperte, e le guarderemo tutti insieme nello stesso istante e non avremo altre persone oltre noi (il nostro gruppo) per condividerle. Alla fine di tutto torneremo in questo aeroporto e ci scambieremo in fretta gli indirizzi e i numeri di telefono con la certezza in ognuno dei nostri cuori che ci perderemo nello stesso modo in cui ci siamo ritrovati: qui, a Malpensa; e torneremo gli sconosciuti che eravamo prima, cioè adesso, mentre sono ancora qui in attesa di riconoscere il mio gruppo.

Questa preveggenza stupida comporta una speciale malinconia, la stessa che non mi fa dormire nelle notti che precedono un viaggio. La stessa che ho provato qualche giorno fa in libreria e che mi ha spinto a non acquistare alla fine quel che vedo hanno acquistato tutti gli altri miei futuri compagni di viaggio: una guida dello Sri Lanka (e le altre guide che seguiranno). La stringono in una mano, la leggeranno durante il viaggio in aereo.

Io ci sono andato in libreria per acquistare diligentemente le mie guide sullo Sri Lanka e sull’Australia, nel reparto creato apposta per quelli che devono partire e sentono il bisogno imprescindibile di acquistare una guida che descriva con minuzia i luoghi che devono assolutamente vedere. Ma appena ho avuto tra le mani la guida dello Sri Lanka (o meglio, quella delle Maldive con l’appendice dello Sri Lanka), l’ho aperta a caso e ho visto una foto che mi ha inquietato in maniera misteriosa; il motivo di questa inquietudine l’ho capito soltanto quando sono arrivato in Sri Lanka. Questo, insieme allo smarrimento di un computer da parte di un mio compagno di viaggio, ha reso un cattivo servizio alla mia testarda disposizione a volermi considerare in viaggio. In ogni caso, sul momento ho lasciato perdere la guida (e quella dell’Australia non l’ho nemmeno più considerata). E adesso, a torto o a ragione, sono l’unico a non averla.

In tutto siamo nove: due accompagnatori, un fotografo e sei persone che devono scrivere di questo viaggio sui propri giornali. Caterina, l’accompagnatrice, mi consegna il biglietto e insieme a esso un invito per una sala dell’aeroporto.

Perché il nostro viaggio sarà in business class.

E questo cambia tutto.

Sul momento penso che significherà che faremo probabilmente il viaggio che fa chiunque altro, ma in maniera più confortevole. Però è assolutamente evidente che questo è il pensiero di un povero cristo che finora non ha mai viaggiato in business class e nemmeno aveva mai pensato o desiderato di farlo. Era una possibilità esclusa dalla mia vita, e oggi mi chiedo un sacco di volte perché, e so che la risposta non sta solo nel fatto che non avessi abbastanza soldi, ma che non avevo nessuna cognizione di un altro mondo parallelo al mio. In cui lo Sri Lanka o qualsiasi altro posto del mondo non c’entrano nemmeno.

Per esempio, quel che ancora non so mentre stringo la mano a Caterina, presentandomi, e lei mi chiede se questa ai miei piedi è la mia valigia, è che la mia risposta non sarà una risposta qualsiasi: perché se dico sì (e lo dico, visto che effettivamente è la mia valigia), questo momento si trasformerà in una specie di addio tra noi – tra me e la mia valigia, intendo. Dal momento in cui Caterina la guarda, come se fosse la fata turchina, il rapporto tra me e la mia valigia si risolve definitivamente; sparisce per sempre, e ricomparirà soltanto sul ripiano della stanza d’albergo di qualsiasi posto del mondo raggiungerò. E ricomparirà già aperta; io sfilerò quel che mi serve, senza richiudere, e poi farò ancora lo stesso gesto in un altro posto del mondo. Per tutto il tempo, avrò le mani libere e i polsi leggeri.

Ma non solo. Si vede che non sono mai stato in business class, e si vede già prima di salire sull’aereo, quando in questa sala vip della Malpensa, mentre gli altri chiacchierano amabilmente e sfogliano distratti qualche rivista, io ho una mano piena di noccioline e l’altra piena di patatine, mangio e riimmergo le mani oleose e salate nei piattini. Mi alzo continuamente e prendo da bere, incredulo che sia tutto gratuito e che nessuno mi controlli, o perlomeno mi osservi con aria disgustata. È come essere diventati piccolissimi ed essersi infilati dentro un frigorifero gigantesco, e strapieno – e non fa nemmeno freddo. Poi torno a sedermi sulla poltrona e appoggio sulle gambe una quantità impressionante di riviste e quotidiani, perché ho paura di perdermene qualcuno, e li sfoglio con voracità lasciando segni indelebili di oli industriali. Ho paura che ci chiamino senza che io abbia potuto sfruttare tutte le opportunità. Perché qui vengono a chiamarti loro, non devi stare su poltrone scomode del gate e leggere il tuo quotidianetto ma senza lasciarti sedurre troppo dagli articoli, perché un orecchio e una fetta di attenzione devono essere rivolti all’altoparlante in attesa che ti indichi l’inizio dell’imbarco. No, vengono a chiamarti loro quando è il momento, e segui un signore in divisa che ti accompagna fino al gate. Lì entri in un corridoio accanto a un altro corridoio, quello della economy class, dove sono in tanti e in fila e subito noti una cosa che quando stavi lì in mezzo non notavi, e cioè che stanno tutti vicinissimi e un po’ si spingono, anche se hanno il posto a sedere assegnato e assicurato (oltre al fatto che probabilmente manca qualcuno che non ha sentito che l’imbarco è cominciato). Quando noi della business class entriamo nel corridoio, siamo solo noi; a passo veloce entriamo in aereo e veniamo accolti da sorrisi più larghi di quanto avessi visto finora nei miei non pochi viaggi in aereo, che cominciavano dalla valigia depositata con grande fatica sul tapis roulant del check-in, dopo averla riempita di adesivi e striscette con sopra il mio nome e indirizzo, e poi solo con riluttanza e tristezza acconsentivo a lasciar premere il pulsante che faceva partire la valigia e la portava lontano, forse per sempre. Partiva sul tapis roulant e dopo tre metri dal vicoletto del check-in si immetteva sulla strada statale, e lo faceva con una curva improvvisa che sempre – sempre – la faceva rovinare in malo modo e rumorosamente su un fianco; e poi, così malandata, forse ferita, spariva. Il sospetto, il timore, quasi la certezza, era che spariva per sempre. Per questo continuavo a guardare la signorina del check-in con occhi imploranti, per supplicarla di fare attenzione a quella valigia in modo particolare. Non aspiravo al miglioramento del servizio bagagli negli aeroporti fino a che diventasse sicuro per tutti, non era questo il problema, ma desideravo che una sola valigia non venisse persa d’occhio, richiedesse delle cure particolari, una speciale raccomandazione; una sola valigia non doveva essere smarrita: la mia. Di tutte le altre chi se ne fregava.

Eppure erano esattamente tutte le altre che vedevo quando, una volta in aereo, appoggiavo la fronte all’oblò e vedevo arrivare il trenino con un enorme carico di bagagli che venivano infilati nella pancia dell’aereo. Prima guardavo distrattamente, cercando di non far troppo caso se tra quei bagagli intravedevo la mia valigia. Così, buttavo un occhio. Poi però, buttando un occhio, la valigia non la vedevo e allora cominciavo a passare in rassegna il trenino dall’ultimo vagoncino al primo, all’inizio velocemente, poi con sistematicità e preoccupazione, poi ansioso; ma nulla. E so che ognuno dei passeggeri seduti accanto al finestrino dal mio lato stava guardando la stessa cosa e so che anche loro vedevano tutte le altre valigie tranne la propria. Era molto probabile che loro vedessero la mia e io le loro. Poi l’aereo si muoveva, e da quel momento per tutto il viaggio conservavo un sospetto e un malessere, e cioè che la valigia fosse finita su un altro aereo e stesse volando verso qualche altra parte del mondo. Anche loro avevano lo stesso sospetto.

Finora per me l’aereo era questo; e poi era rinunciare alla coca-cola che offrono perché tanto è sempre calda, ed è inutile farlo notare alla hostess: perché non potrà fare altro che darvi del ghiaccio; e anche il ghiaccio è misteriosamente caldo. Era avere un vassoio minuscolo ricoperto in alluminio con una serie di vaschette microscopiche piene di cibo impossibile da identificare, ma che aveva un odore e un sapore unico sia rispetto alle varietà all’interno della vaschetta sia rispetto ai vari tipi di aerei e di nazioni; non era riconducibile a nessun odore o sapore conosciuto in tutta la vita vissuta fino a quel momento, se non ad altro cibo mangiato in un altro aereo prima di quel momento. Era aver cominciato a conservare le salviette rinfrescanti se non le usavo subito, aver scoperto che non le avrei usate mai più e allo stesso tempo che non riuscivo a smettere di accumularle. Era veder passare la hostess con i prodotti del duty free e non aver mai visto un solo passeggero acquistare qualcosa. Era chiedere continuamente scusa a quello davanti perché continui a dare ginocchiate nella sua schiena ogni volta che ti muovi, e dopo un po’ ritrovartelo accucciato su di te quando abbassa il sedile per addormentarsi, e resistere con difficoltà alla tentazione di accarezzargli i capelli e cantargli una ninna nanna. Era avere soffietti sopra la testa bloccati e non regolabili che lanciano per tutto il viaggio una mitragliata d’aria al centro del cervello. Era cercare di farsi assegnare un posto nelle prime file per riuscire a leggere i giornali migliori perché quelli davanti scelgono e ne prendono anche due o tre e agli ultimi tocca sempre leggere «Il Sole 24 Ore» o «La Gazzetta dello Sport». E solo in aereo puoi renderti davvero conto di quanto spesso e insistentemente i giornali riportino disastri aerei e con quanto accanimento si soffermino sui dettagli di quegli incidenti. In aereo è molto probabile che tu legga che il giorno prima, in qualche parte del mondo, un altro aereo si è schiantato: c’è una cronaca dettagliata e, accanto, il solito articolo con la storia degli incidenti più tragici degli ultimi trent’anni. Il tutto corredato di foto agghiaccianti. Ed è inutile sedersi nelle ultime file, perché anche «Il Sole 24 Ore» riporta il grafico delle perdite in danaro delle compagnie aeree per ogni passeggero deceduto negli incidenti.

E anche «La Gazzetta dello Sport» ha notizie sull’incidente aereo avvenuto il giorno prima, perché tra le vittime c’era o una nazionale juniores di hockey su ghiaccio, o un famoso atleta che alle Olimpiadi del 1972 si era piazzato al quinto posto nel sollevamento pesi. Accanto a questo articolo, un altro che ricorda tutti gli atleti deceduti in un incidente aereo da quando l’aereo è stato inventato. Casomai poi vi girate e accanto a voi è seduto, ben riconoscibile, un campione di qualche sport minore che appassiona solo voi, ed è difficile non fare cattivi pensieri.

Ma tutto questo fa parte del passato.

Adesso, solo per darvi un assaggio di cosa sia viaggiare in business class, la mia valigia e quella degli altri che qui intorno a me sono seduti in business, viene caricata a parte, e tirata fuori a parte al mio arrivo, e quindi non si perderà mai e uscirà da qualsiasi tendina del ritiro bagagli per prima, senza il tempo di patire. E aprendo il giornale sull’aereo adesso ho letto una notizia allarmante sul viaggiare in aereo, certo, ma stavolta, stando seduto in business, non si trattava più di un incidente, bensì, ve lo giuro, della seguente notizia: è ormai nota la sindrome che colpisce sempre più spesso sui voli a lunga percorrenza (o, come poi ci dicono i più furbi, che conoscono bene come va il mondo, colpisce da sempre, ma solo ora cominciamo a scoprirlo, perché le multinazionali ce lo tenevano nascosto). È causata dall’immobilità di ore e ore in posizione scomoda e dalla disidratazione – perché si beve in maniera insufficiente rispetto a quel che le ore di volo e l’aria condizionata richiedono. Questo coacervo di fattori a volte colpisce mortalmente, tramite embolia. E questa sindrome appartiene esclusivamente alla economy class, tanto che alcuni la chiamano «sindrome da economy».

Ecco: immaginate di leggere questa notizia la prima volta che viaggiate in business class. Cominciate a stendere le gambe e le braccia e fate dei veri e propri esercizi di ginnastica per mostrare a voi stessi lo spazio sterminato che avete a disposizione. Poi vi alzate e andate a dare un’occhiata in economy, ma restando al di qua della linea di demarcazione. Vi rattristate un po’ per loro, ma subito richiudete la tendina e cominciate a saltellare per il largo corridoio e se la hostess si avvicina preoccupata le ordinate litri e litri di acqua e lei ve li porta a una velocità tale che la figura del suo corpo sbiadisce soltanto, ma non scompare. Vi assicuro che la combinazione tra la sindrome degli altri e la consapevolezza della vostra incolumità vi fa sentire seriamente felici. Un aspetto che si ripresenterà in forma etica davanti alla vostra coscienza tra un po’ di tempo, anzi si può dire addirittura davanti al bivio che dovrà scegliere la vostra anima; ma non in questo momento.

Adesso non hai tempo per pensare. In business class hai appena preso posto e già ti sono addosso due hostess: una ti dà un bicchiere di champagne come aperitivo, l’altra ti propone una serie di quotidiani e riviste, settimanali e mensili, che da una parte ti rendono indeciso come un bambino in un grande negozio di giocattoli a cui viene detto di scegliere una cosa (con la differenza che qui puoi prenderne non una, ma dieci, o venti, o tutte) e dall’altra ti svelano il motivo principale per cui nelle ultime file della economy non ti arrivava mai un giornale decente. Queste due hostess sono generiche, possono anche servire la economy, e quindi non le vedi più. Per te ce ne sono altre.

Appena dopo, in molte delle compagnie aeree – sulla compagnia di Hong Kong dei voli tra Australia, Hong Kong e Roma, credo sia una regola fissa che ha a che fare con una particolare predisposizione alla gentilezza, che diventa eccesso, dei cinesi – fa subito un salto da te la capohostess, per darti il benvenuto, e tu ti trovi davanti una giovane donna avvenente che ti guarda ti sorride e ti dice «benvenuto, Mister Piccolo». Dice proprio Mister Piccolo; e Mister Piccolo sarà anche l’intercalare continuo della hostess sotto la cui giurisdizione sei capitato. Certo Mister Piccolo, mi dispiace Mister Piccolo, gradisce ancora qualcosa Mister Piccolo, ha chiamato Mister Piccolo?, e così via. La sensazione che vuole immediatamente farti provare con «Mister Piccolo» è che lei è lì esclusivamente per te per qualsiasi cosa in qualsiasi momento; vuole ottenere questo effetto, e lo ottiene. Però, di contro, il fatto che queste povere criste delle hostess debbano imparare a memoria i nomi di ognuno di noi per dare a me la soddisfazione di sentirmi dire «Mister Piccolo» e di darmi quindi la falsa illusione di essere uno conosciuto e amato e forse apprezzato, rende il tutto una messinscena leggermente più ipocrita, e soprattutto il loro lavoro decisamente più umiliante, se oltre a tutte le cose che devono fare (in pratica, servirci ogni minuto al massimo dell’efficienza) sono pure costrette a stare lì e a imparare a memoria i nomi in corrispondenza dei posti assegnati. Con reali e paradossali incongruenze, perché un metodo è un metodo ed è sempre, per qualche motivo incomprensibile, più rigido di quanto la realtà dei fatti richieda; e così quando il tuo gruppo si trasforma come da pronostico in una gita scolastica e cominci a scambiare i posti per metterti accanto al tuo compagno di banco o per chiacchierare con chi ti pare, le hostess non sono tenute a renderne conto. E io mi sono sentito chiamare Miss Vaccaro per un intero viaggio da Cairns a Hong Kong, semplicemente perché Miss Vaccaro mi ha chiesto di scambiarci di posto, e per la hostess questo non rientra nel campo della concepibilità, o di sicuro è più schematicamente concepibile che Miss Vaccaro possa essere Mister Piccolo per l’intero tragitto, e viceversa.

La mia hostess, dicendo prego Mister Piccolo, mi consegna una scatola in alluminio di quelle che subito pensi: me la porto a casa così ci metto dentro qualcosa, e infatti andrà a fare compagnia a quelle altre scatole vuote che hai collezionato per metterci dentro qualcosa. La confezione contiene tappi per le orecchie, spazzolino e dentifricio, un profumo deodorante, crema idratante, pettine. E soprattutto calzettoni riposanti per mettersi in libertà. Ti togli scarpe e calzini, metti questi calzettoni e senti una subitanea beatitudine, non contrastata dalla distanza tra la tua poltrona e quella davanti, dal libro che sta di fronte a te e che ti dice che hai un televisore che sbuca da sotto il tuo gomito sinistro solo che tu lo voglia e che ha una quantità di programmi pari al tuo abbonamento casalingo alla pay tv, con la differenza che a casa tua puoi vedere i film solo otto mesi dopo che sono usciti al cinema, e qui puoi vedere film che stanno proiettando in questo momento nella tua città oppure film che usciranno in Italia tra otto mesi.

Non è male. Io mi sono addormentato davanti al Signore degli anelli e ho visto l’ultimo film di Zhang Yimou in cinese con sottotitoli in inglese, e a un certo punto – per fortuna che era notte e tutte le luci erano abbassate e tutti dormivano – ho pianto, ma davvero con le lacrime, guardando un documentario su Wimbledon e rivedendo una scena che avevo completamente dimenticato: il pianto incontenibile della tennista Jana Novotna per la felicità di aver vinto il torneo, pianto che non si ferma mai fino alla premiazione, dove la immarcescibile duchessa di Kent, che nella sua esistenza televisiva non aveva mai nemmeno cambiato una volta espressione del viso, la accoglie tra le braccia e la accarezza mentre la Novotna singhiozza ancora di più e le sparge lacrime sul tailleur giallo mentre il pubblico in piedi applaude in delirio.

Ma quel che ha rivelato il mio ruolo di matricola in business, nel primo viaggio da Milano a Colombo, è stato il mio entusiasmo per il fatto che stavolta appariva sul mio televisore personale il canale con il disegno del mondo e del piccolo aereo che si spostava a seconda di dove eravamo, con una scia di tratto rosso che indicava il percorso fatto e davanti un tratteggio che indicava il percorso da fare. Il disegnino si alternava con una schermata che indicava l’orario del paese di partenza, l’orario del paese di arrivo, la velocità dell’aereo, la distanza ancora da percorrere e le ore e i minuti che mancavano all’atterraggio; schermata che appariva ogni cinque minuti per segnalare che mancavano cinque minuti in meno (sette ore e quarantacinque invece di sette ore e cinquanta), e così, quando tornava il disegnino, l’aereo era leggermente spostato verso il mondo orientale e appena percettibilmente più lontano dall’Europa. Una cosa davvero appassionante, che mi ha fatto perdere alcuni film, molte ore di sonno e un po’ di residua intelligenza. Anche perché alla lunga ho scoperto che nell’animazione non era affatto l’aereo a spostarsi, bensì la cartina geografica sotto di lui, e nel momento in cui l’ho capito ho cominciato ad agitarmi e a guardarmi intorno con una gran voglia di comunicare la mia scoperta a tutti gli ospiti dell’aereo, ma per fortuna dormivano e così ho avuto il tempo di razionalizzare e di arrivare a comprendere che forse loro, chissà, potevano essersene già accorti, e comunque potevano non ritenerla una questione decisiva, visto che erano riusciti ad addormentarsi nonostante avessero la possibilità di passare la notte intera a guardare l’animazione su un televisore personale. Questo mi ha anche suggerito che non sarebbe affatto male se nella vita, appena ti viene un’idea geniale, tutto il mondo intorno si addormentasse di colpo per qualche ora. Così, quando si risveglia, hai avuto il tempo di capire la portata di genialità della tua idea e se vale davvero la pena darne comunicazione.

Intanto, se sei in business class in aereo, e non dormi, puoi ammazzare il tempo chiamando la hostess e facendoti portare ogni tipo di bevanda, dall’acqua ai superalcolici, oppure puoi farti portare un sandwich o un gelato, due cose alle quali hai diritto in qualsiasi momento del viaggio, e cioè tra un pasto e un altro.

Perché l’impalcatura su cui è costruita l’intera concezione di business class è il cibo. In pratica, la filosofia di base consiste nel farti mangiare quando è ora di mangiare sia in riferimento all’ora della città di partenza sia all’ora della città di destinazione, e qualche volta prendendo anche alcuni tempi intermedi. Il concetto, in definitiva, è di farti mangiare sempre. Appena ti sei sistemato con i calzettoni riposanti, la hostess ritorna e dicendo prego Mister Piccolo ti consegna un sofisticato menu in cui sono indicati tutti i turni di pranzo, cena, spuntino, colazione che ti sono stati assegnati in questo viaggio che dura al massimo dodici ore, mettiamo anche quattordici. Subito ti portano un aperitivo, che di solito è champagne, e te lo portano appena dopo che ti sei sistemato in aereo, e cioè appena dopo che una hostess ti ha portato il drink di benvenuto, tanto che non riesci a comprendere la differenza tra il drink di benvenuto e l’aperitivo, visto che ti vengono serviti uno dopo l’altro e sono lo stesso champagne, ma in fondo non ti importa, bevi e ti stordisci. Mentre sorseggi l’aperitivo, la hostess dice scusi Mister Piccolo ed estrae il tavolino che sta sotto il tuo gomito destro e posa sopra di esso una bianca tovaglia. Da quel momento sei in trappola. Perché il modo di servire ogni pasto è il risultato di questa intenzione: ti portiamo tanti piatti e lo facciamo lentamente, così il tempo passa. Alle volte lo fanno così lentamente che arrivi vicinissimo all’appuntamento con il pasto successivo, e hai appena il tempo di tirare il fiato che ricominci. Il pranzo durerà ore, sul tavolino ci sarà sempre una quantità di roba impossibile da mettere da qualche altra parte se ti viene voglia di muoverti, devi aspettare ancora e sempre una lunga quantità di portate che il menu ti promette; e il tavolino ti ha incastrato dentro uno spazio che diventa improvvisamente minuscolo, non puoi più muoverti e nemmeno fare la pipì, e questo continuerà a succedere per tutto il viaggio, con pause brevissime in cui ti conviene fare vari tipi di ginnastica e tutta la pipì che riesci a fare, perché tra poco il tavolino si riaprirà, la hostess sorridente ti dirà sorry Mister Piccolo e ti metterà un’altra tovaglia bianchissima e ricomincerà a portarti roba da mangiare. E poiché non hai molto altro da fare, mangi.

Nemmeno se ti addormenti sei salvo, perché al risveglio la hostess che ti tiene sotto la sua giurisdizione non ricorda solo il tuo nome, ma anche a quale numero di portata sei giunto, e ritiene suo dovere assoluto e tuo piacere assoluto ripartire da lì e farti recuperare, un po’ più velocemente, in modo da rimetterti in pari con gli altri per ricominciare in una condizione di normalità il pasto successivo. E se, come capita a me, hai problemi di insonnia, allora la hostess continua a venirti vicino e a portarti dell’acqua e a chiederti se vuoi qualcos’altro; alla fine cedi e fai qualcuno di quegli spuntini previsti tra un pasto e l’altro: un sandwich o un gelato enorme e dolcissimo.

Tra i miei compagni di viaggio ho pian piano scoperto un autentico fenomeno da viaggio intercontinentale. Si chiama Fausta. La sua caratteristica è quella di salire le scalette dell’aereo, bere il drink di benvenuto, mettere i calzini, tirare fuori cuscino e coperta, mettere i tappi nelle orecchie e addormentarsi; poi svegliarsi in corrispondenza non di ogni pasto ma di ogni portata; poi riaddormentarsi, svegliarsi e mangiare; quando poi le tolgono il tavolino davanti, si alza, va in bagno, fa la pipì, mette la crema idratante, torna e si addormenta di colpo e potrebbe continuare così per mesi, e se alla Nasa, o dove altro si prepara questo genere di cose, qualcuno sta cercando un essere umano pronto a partire per un viaggio su Marte un giorno che lo faranno, ecco, se questo momento non è troppo in là con i decenni, io mi permetterei di consigliar loro di ingaggiare senza dubbio Fausta. La quale, alla fine, si sveglia pochi minuti prima dell’atterraggio, si sfila i tappi, va in bagno, si lava i denti, si profuma, si pettina ed è pronta per scendere. È l’unico essere umano di mia conoscenza capace di scendere da un aereo intercontinentale molto ma molto più in forma di quando era salita e soprattutto l’unica capace di sfruttare interamente il kit da viaggio distribuito dalle hostess. Non ne lascia traccia. L’unico problema che ha con il gruppo sta nel fatto che si scandalizza quando, una volta scesi dall’aereo, esprimiamo il desiderio di andare in albergo a darci una rinfrescata anche solo per dieci minuti.

Il mio primo cenone in business class Milano-Colombo è stato il seguente: molti salatini da aggiungere a quelli ingurgitati in sala vip, antipasto di prosciutto e parmigiano con spumante come ennesimo aperitivo e poi via con un Sangiovese di Montalcino, lasagna, filetto con patate, misto di formaggi, frutta, Amarone e dolce. Semifreddo e Bailey’s. Oppure, nei paesi più esotici, un’apertura con stuzzichini rustici, insalata di mare con aceto balsamico, poi salmone affumicato con insalata di mele (e fin qui siamo sempre nell’area antipasti); costata di maiale con salsa ai funghi, cosce di pollo con olive e pomodoro, sempre che abbiate rifiutato per pregiudizio tutto italiano i garganelli con uno strano pesto rosso. Di contorno patate al forno, tagliolini al pesto, insalata, oppure il fantastico riso cinese. Poi una selezione di formaggi serviti con cracker e una torta al limone.

E ancora, in questo viaggio, ho mangiato sui vari aerei: gamberi, involtini primavera, riso di ogni tipo e anche una specialità di riso cucinata da un cuoco speciale espressamente per un volo che nemmeno ricordo più quale fosse, delle splendide insalate greche, sushi di prima qualità, prosciutto e melone come ai matrimoni, verdure miste di ogni tipo, carni al vino e pesci fumanti spinati davanti ai miei occhi, e in più tortellini alla bolognese tra Hong Kong e l’Australia. Tutto ciò accompagnato da un’infinita varietà di pane, e c’è sempre una hostess che durante i pasti (cioè continuamente) non ha altro compito che passare e ripassare con un vassoio stracolmo dei diversi tipi di pane e chiederti se ne vuoi ancora, ancora e ancora. Abbiamo quasi tutti una predilezione per il garlic bread, una cosa che in Italia in pratica non esiste ma esiste in tutto il mondo. In Italia non esiste perché esistono le bruschette, che forse ne sono la versione nobile ma non sono la stessa cosa di questo pane tostato all’aglio che ne mangereste in continuazione (e in effetti ne mangiate in continuazione). In seguito, per tutta la business class si spande una nube di aglio che è un condensato di tutti i nostri aliti e che, per una questione di correnti interne, pian piano comincia a dirigersi verso la economy class. E per finire potete scegliere ancora tra vari tipi di tè o tisane, caffè, decaffeinato, cappuccino, camomilla, il tutto servito con fantasiose praline. Tra un pasto e l’altro c’è un refreshment, credo ogni mezz’ora o poco più, con una rosetta calda con pomodoro e prosciutto e minipizze con i gamberi o i funghi (o tutt’e due), oppure i chicken-flavoured instant noodles, e per instant si intende forse che sono cucinati lì per lì. E poi il gelato.

Ogni volo di questo viaggio comprendeva almeno due di questi pranzi completi (più qualche refreshment), serviti con vini francesi o italiani o australiani, ma in ogni caso un vino diverso per ogni pietanza (come a un certo punto diventa ovvio), insieme a dei semipranzi di passaggio, delle merende, e in più certe fantastiche colazioni mattutine che cominciavano con succo d’arancia o di mela, yogurt e muesli, dei gran piatti di frutta mista tropicale e non, omelette al formaggio e pancake con funghi e pane caldo con burro o formaggi spalmabili, e poi bacon e pomodori «grilled», patate e funghi saltati. E solo a questo punto si passava alla parte dolce: croissant, paste italiane, danesi, roll e inspiegabili Granetti del Mulino Bianco serviti con burro e marmellata, accompagnati da una scelta di tutto ciò che di liquido possa esistere al mondo; e poi arrivava il momento della scelta difficile che riguardava certi piatti cinesi che dopo la brioche e il cappuccino caldo non riuscivo proprio a concepire, ma le hostess si intestardivano perché proprio non comprendevano come potessi lasciar passare senza usufruirne certe prelibatezze fantastiche che solo il mio pregiudizio occidentale – questo non lo dicevano ma me lo facevano capire con una strana esplicitazione dell’implicito – giudicava incompatibili con il resto. Senza considerare il fatto che io non sono un mangiatore di cornflakes, ma voglio proprio vedere chi può resistere davanti a una hostess bellissima e ipergentile che ti mostra una scatolina monouso di cornflakes che sembra uscita dalla cucina di Barbie, ti mette un tovagliolo pulito al collo, una tazza davanti, ti versa del latte freddo, ti apre la confezione di Barbie con gesti precisi che sono credo quelli omologati dall’assemblea costituente della Kellog’s e ti versa uno per uno tutti i cornflakes nella tua tazza e poi ti porge un cucchiaino e ti invita a cominciare. È una sensazione che annulla tutto il tempo in cui siete stati adulti, ve ne siete andati da casa anche con un certo orgoglio, avete costruito una vita nella quale fin dal primo mattino era compito vostro procurarvi il necessario per fare una ricca o meno ricca colazione, poco importa, ma nella quale la regola semplice e fissa era che avreste trovato sulla tavola solo quel che avreste comprato e avreste voi stessi messo in tavola. E ricostruisce per voi la magia di quel tempo in cui vi svegliavate e assonnati vi sedevate al tavolo della cucina e qualcun altro, nella fattispecie vostra madre, vi metteva davanti tutto quel che occorreva per essere portato verso la bocca impastata; ecco, svegliarsi in business class e vedere il sole fuori dai finestrini e avere una nuova mamma che vi versa il latte e i cornflakes e vi mette un tovagliolo intorno al collo vi fa ritornare esattamente a quel momento in cui eravate solo e unicamente figli, e le vostre responsabilità nel mondo erano quelle di consumare quel che vi veniva chiesto di consumare. Che è esattamente quel che hanno cercato di procurare alla vostra coscienza nel momento in cui avete messo piede su questo benedetto aereo.

Una cosa importante è che durante tutto il viaggio nessuno della economy class può entrare nel nostro reparto. Gli è precluso. Non ci sono misure di sicurezza, né cartelli di divieto; è un patto che viene rispettato, nel senso che nessuno di loro si azzarda a venire da questa parte. Si potrebbe dire che vengono scoraggiati, ma è qualcosa di più. Sono stato anch’io in passato (fino a questo viaggio) un viaggiatore di economy, e so che il modo in cui ti difendi è dimenticare prestissimo che esiste la business class. Ti convinci che dopo la tendina c’è la cabina di pilotaggio, ed è fatta. Anche se quelli della economy quando vengono fatti salire sull’aereo passano di qui, e forse la cosa è organizzata in modo che buttino uno sguardo sulla nostra condizione e si sentano umiliati – in modo che la prossima volta prenotino in business.

Intanto che a noi capita tutto ciò, loro mangiano in quelle vaschette ricoperte di alluminio, e solo una o due volte. Bevono pochissimo e sono incastrati ai loro posti. Sia chiaro: anche noi rischiamo di morire a causa del tavolino che c’incastra per ore, potremmo essere finanche colpiti da quell’embolia dovuta a immobilità, ma vuoi mettere, accadrebbe per opulenza, per eccesso di accuratezza, e non per trascuratezza. Come quei boss nei film di mafia che schiattano di cibo a tavola. Loro poi, quando l’aereo arriva, devono aspettare in piedi, pronti per uscire, che l’ultimo di noi abbia preso la sua roba e sia andato via. Soltanto a quel punto hanno il diritto di scendere. Credo che la compagnia tema che potremmo mischiarci.

Eppure, nonostante abbia pensato che non può capitare di meglio nella vita di una persona che un viaggio in business class, la verità è che, se pure sembra impossibile, può capitare di meglio. Perché in tutti gli aerei di linea che abbiamo preso, ho fatto la scoperta incredibile che esiste una classe superiore, che noi della business non eravamo il meglio. Sugli aerei esiste qualcosa di più: la first class.

Non chiedetemi di cosa si tratta, perché a noi non è dato saperlo, possiamo solo immaginarlo. Abbiamo con la first class lo stesso rapporto che quelli della economy hanno con noi. Ma, a parte l’orgoglio ferito derivante dalla scoperta, e a parte l’ipotesi che mi fa accapponare la pelle riguardo a cosa possono mai pensare allora quelli della first class di quelli che viaggiano in economy, visto che già noi siamo così irrimediabilmente sprezzanti, mi chiedo se davvero ci possa essere qualcosa di meglio della business. Noi abbiamo tutto, o riteniamo di avere tutto, eppure c’è qualcuno che ha di più. Non so cosa, ma di più. L’unica cosa che so e che ho visto su un dépliant è che se le nostre poltrone comodissime si distendono quasi del tutto, lì diventano veri e propri letti. Per il resto non oso immaginare il kit che riceveranno in regalo gli ospiti della first class, né so immaginare altro, per loro, che un tavolino automatizzato e retrattile, che compare solo quando devi portare il cibo alla bocca; oppure dei piatti che galleggiano nel vuoto come nelle astronavi (sarà così, in first class mancherà la gravità); oppure hostess che ti si inginocchiano davanti e ti imboccano e puliscono le labbra col tovagliolo, e tu apri gli occhi e per un effetto allucinatorio realizzato con la supervisione della DreamWorks, ti sembra davvero di vedere la tua mamma quando era giovane. E forse sarà proprio così: quando prenoti in first class, sarà cura dell’organizzazione mettersi in contatto con la tua famiglia e procurarsi foto di tua madre da giovane e costumi dell’epoca, documentarsi su cosa ti piaceva mangiare appena sveglio e su quali parole ti piaceva ascoltare – e le hostess riprodurranno per ognuno degli ospiti l’intero ambiente familiare infantile. Ognuno avrà un rubinetto d’acqua corrente e freschissima accanto. Un garlic bread speciale, in cui l’aglio ha il sapore d’aglio solo mentre lo mastichi ma intanto libera una sostanza alla clorofilla che appena dopo rende l’alito di una freschezza che non conosce precedenti. Una saletta di montaggio accanto alla poltrona comodissima con un film appena girato che il montatore e il regista stanno montando e chiedono di continuo il consiglio dell’ospite della first class (il suo nome apparirà nei titoli di coda). E poi lo so, ci saranno di sicuro Jana Novotna e la duchessa di Kent in carne e ossa che se ne stanno lì abbracciate, e la duchessa di Kent ti rivolge la parola per chiederti se hai un fazzoletto per asciugare le lacrime di Jana Novotna. Cose del genere.