Tutti i guai del Monte dei Paschi

Dall'acquisto di Antonveneta ai derivati di Nomura, cosa è andato storto e cosa c'entra il PD, spiegato semplice

di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca

Da qualche giorno si parla molto della Monte dei Paschi di Siena (MPS), la terza banca italiana. Il caso è nato qualche giorno fa dopo un articolo che ha rivelato un nuovo buco nei bilanci della banca – in crisi oramai da diversi anni – che sarebbe stato creato dai vecchi amministratori e scoperto recentemente dai nuovi, Fabrizio Viola e Alessandro Profumo. Per il momento non si tratta di una grossa cifra: sono circa 220 milioni di euro, ma oltre a questi la banca ha aumentato di 500 milioni di euro la sua richiesta dei cosiddetti “Monti bond” e non si sa quale sarà il costo finale delle operazioni sospette. La vicenda ha portato alle dimissioni dell’ex presidente di MPS dall’ABI, l’organizzazione rappresentativa delle banche italiane.

Ma di MPS si parla anche oggi: Repubblica riporta in esclusiva che la magistratura starebbe indagando su una tangente da 2 miliardi pagata in occasione dell’operazione che dette l’avvio alla crisi della banca, l’acquisto di Banca Antonveneta nel 2008. Anche a causa di questa operazione, nel 2009 MPS dovette ricorrere – insieme ad altre banche – a un prestito del governo: i famosi “Tremonti bond”.

L’anno scorso la banca non è riuscita a restituire il prestito e ricorrerà quindi ai nuovi “Monti bond”, sia per rifinanziare il vecchio debito, sia per ottenere nuovi capitali. Ma probabilmente i guai della banca risalgono ancora più indietro e risiedono nella sua stessa struttura. Nessuna banca in Italia è così legata alla città che ne ospita la sede. Per decenni la funzione principale della banca è stata quella di distribuire i suoi dividendi alla città, sotto forma di investimenti, sponsorizzazioni e altre forme di supporto. Questo perché a controllarla non erano spietati banchieri, ma i politici che governavano Siena.

L’acquisizione di Banca Antonveneta
MPS è considerata una delle banche più antiche del mondo. Venne fondata nel 1472 come monte di pietà, una specie di banco dei pegni. Da diversi anni è la terza banca più grande del paese, a un certo distacco da due colossi che si contendono il primo posto: UniCredit e Banca Intesa San Paolo – create da una serie di fusioni e acquisizioni a cavallo tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila. MPS era una banca particolare e a questo giro di acquisizioni e fusioni rimase sostanzialmente estranea (ci torneremo dopo). Tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008 le cose, però, cambiarono improvvisamente.

L’8 novembre 2007 MPS, presieduta da Giuseppe Mussari, annunciò la conclusione di un accordo con la banca spagnola Santander per acquistare il 55% di Banca Antoveneta (BAV) al prezzo di 9 miliardi di euro. Fu una specie di blitz, un colpo che nessuno si aspettava. BAV, una solida banca territoriale radicata nel nordest, era da circa due anni sulle prime pagine economiche dei giornali e a volte anche su quelle della cronaca giudiziaria. Era stata al centro del cosiddetto “scandalo di Bancopoli“, quello che coinvolse, tra gli altri, il banchiere Gianpiero Fiorani e l’allora governatore di Banca d’Italia, Antonio Fazio. Dopo una serie di scontri e l’intervento della magistratura, Antonveneta passò al gruppo olandese ABN Amro.

Nell’ottobre del 2007 ABN Amro era stata smembrata e acquistata da un gruppo di banche; in questa operazione, BAV sarebbe dovuta finire nelle mani della grande banca spagnola Santander a un prezzo di circa 6,6 miliardi. L’annunciò dell’acquisto di BAV da parte di MPS arrivò circa un mese dopo. L’accordo annunciato ebbe effetto nel maggio successivo, quando Antonveneta divenne parte di MPS per un prezzo finale di più di 10 miliardi di euro. Tra lo stupore di tutti i principali analisti e commentatori finanziari, il prezzo di BAV era quasi raddoppiato nello spazio di pochi mesi.

L’acquisto fu definito da molti un gesto di “megalomania”, compiuto, scrive lo Spiegel in questi giorni, «da persone che si intendevano più della storia del Palio che di mercati finanziari». Per finanziare l’acquisto, MPS si indebitò, usò quasi tutta la sua liquidità – ovvero denaro contante e soprattutto, in questo caso, in forme che possono rapidamente essere trasformate in contante – e varò un aumento di capitale, che fu sottoscritto in buona parte dal principale azionista della banca: la Fondazione Monte dei Paschi, uno dei protagonisti di questa storia, che si indebitò fino al collo. Alla fine del 2007 MPS si trovava in una situazione pericolosa: era indebitata ed impegnata nella complessa operazione di integrazione tra le due strutture, quella nuova di BAV e quella vecchia. Proprio in quei mesi fallì la banca inglese Northern Rock, l’estate successiva sarebbe scoppiata la bolla dei mutui subprime, un anno dopo sarebbe fallita Lehman Brothers.

La governance
I manager che scelsero di fare quelle operazioni – quelli che, per dirla con lo Spiegel, sapevano più di Palio che di finanza – non erano manager come tutti gli altri. Quasi tutti ritengono che i problemi di MPS comincino ancora prima del caso Antonveneta e che, anzi, i problemi MPS li abbia proprio nel DNA. La sua struttura di governance era basata, fino a poco tempo fa, su una struttura quasi omonima della banca: la Fondazione Monte dei Paschi di Siena.

Qui bisogna fare un po’ di storia. Dal 1936 ai primi Anni ’90 il sistema bancario italiano è stato sostanzialmente pubblico. C’erano tre grandi banche pubbliche – Credit, Comit e Banco di Roma – e una miriade di altri piccoli istituti bancari controllati a vari livelli dai politici locali. Il principio, introdotto nel 1936 sotto il fascismo, era che le banche dovessero avere un ruolo pubblico e che quindi fossero i politici a doverle controllare. Nel corso dei primi anni ’90 il settore bancario venne privatizzato. Le banche vennero divise a metà: da un lato veniva la banca vera e propria, che raccoglieva il risparmio e lo investiva, dall’altro la fondazione, che possedeva le azioni della banca e con i dividendi doveva investire sul territorio e perseguire l’antico ruolo delle banche.

La legge prevedeva che le fondazioni abbandonassero gradualmente il controllo delle banche. Una cosa che è avvenuta per quasi tutti gli istituti bancari, dove ora le fondazioni controllano quote importanti anche se non più quote di controllo, cioè indispensabili per prendere le decisioni. L’unico caso dove questo non avvenne fu il Monte dei Paschi, una banca in cui la fondazione Monte dei Paschi ha sempre controllato, almeno fino agli ultimi anni, più del 50% delle azioni della banca.

E chi comanda nella Fondazione Monte dei Paschi? I politici. Sostanzialmente ci sono due organi all’interno della fondazione: una specie di governo, chiamato Deputazione Amministrativa – che ha il compito di decidere cosa fare nella Banca Monte dei Paschi – e un parlamento – chiamato Deputazione Generale – che elegge il governo. Chi compone questo parlamentino? Sedici membri di cui: otto eletti dal comune di Siena, cinque dalla provincia di Siena, uno dalla regione Toscana, uno dall’università e uno dall’arcidiocesi. In altre parole su 16 membri, 14 sono diretta espressione della politica. Una politica che negli ultimi cinquant’anni è stata rappresentata sempre dallo stesso partito: il PCI, poi PDS e DS e infine PD.

Gli ultimi anni
Il controllo politico della fondazione e quindi della banca ha significato che per molti anni MPS ha agito come una specie di cassaforte per Siena e la sua provincia. «È stato un errore per una città cercare di controllare una banca» ha dichiarato allo Spiegel l’ex sindaco di Siena, Franco Ceccuzzi: «Una amministrazione pubblica può a malapena regolare se stessa, come può controllare qualcosa di così complicato come una banca?».

Anche il recente caso scoperto dal Fatto riguarda in qualche modo la fondazione. Ieri sera, durante la prima puntata del nuovo programma Zeta di Gad Lerner, l’economista Roberto Pedrotti ha spiegato cosa c’era dietro il nuovo buco di cui si è parlato in questi giorni. In sostanza, nel 2009 MPS – che era già in grave crisi – non avrebbe dovuto distribuire utili. I dirigenti della banca decisero così di negoziare con la banca giapponese Nomura una complicata operazione.

Si tratta dei due nomi che si sono spesso sentiti in questi giorni: Alexandria e Santorini (Nota Italia, invece, è un’altra operazione già liquidata che non c’entra nulla, secondo MPS). Si tratta di due operazioni in derivati compiute con la banca giapponese Nomura. In sostanza, l’obbiettivo delle due operazioni – che, secondo Pedrotti, i manager di MPS non comprendevano del tutto – era ottenere un utile per la banca nell’anno in corso. Un utile che sarebbe stato poi ripagato in futuro. Perché questa necessità di un utile? Perché serviva alla fondazione, che poi lo avrebbe ridistribuito sul territorio secondo le indicazioni dei politici che la controllavano.

Due anni dopo la vicenda dei derivati, nel 2011, divenne sindaco Ceccuzzi: uno dei protagonisti dell’ultima fase di MPS. Dopo aver fatto ricorso ai Tremonti Bond, nel 2009, la banca era ancora in difficoltà e negli anni successivi subì diversi downgrade dalle agenzie di rating. Nel 2011 Ceccuzzi, un ex parlamentare, venne eletto sindaco di Siena e all’inizio del 2012 decise di cominciare parecchi cambiamenti per Siena. Mussari venne cacciato e per la prima volta a dirigere la banca vennero chiamati dei manager esterni, non dei senesi: Fabrizio Viola e Alessandro Profumo.

Poco dopo queste scelte, Ceccuzzi si è dovuto dimettere a causa di un voto di sfiducia sul bilancio del Comune. Secondo l’ex sindaco quel voto fu una conseguenza delle sue azioni sul caso MPS. «È stato un tradimento delle persone a cui non piaceva il mio nuovo inizio», ha raccontato sempre allo Spiegel. L’anno scorso, la Fondazione Monte dei Paschi, in crisi quasi quanto la banca, per la prima volta vendette una consistente quota delle sue azioni, scendendo al 36%: che è ancora molto, ma è sotto la soglia di controllo. Il piano di Viola e Profumo per risanare la banca è duro. In un primo momento erano previsti 4.600 esuberi e la chiusura di 400 sportelli. Ora forse gli esuberi saranno ridotti a un migliaio, con altri mille impiegati che saranno esternalizzati. In ogni caso, i dirigenti prevedono che la banca non tornerà a fare utile prima del 2015.