Unfit

Un severo commento del Financial Times nei confronti di Mario Monti e della sua capacità di governo intacca l'immagine di un leader unanimemente stimato in Europa

Le opinioni della stampa internazionale sulla politica italiana hanno sempre due presupposti simmetrici. Uno è che possono essere dotate di maggiore obiettività di quella che troviamo nei commenti dei media italiani, “dal di dentro”. L’altro è che rischiano di essere gravati da superficialità e schematismi, fino a tratteggiare le cose italiane in modi un po’ macchiettistici e poco approfonditi. È una discussione che si accese molto ai tempi delle copertine dell’Economist molto critiche su Silvio Berlusconi e sul suo essere “Unfit”, inadeguato, a guidare il governo italiano. Adesso è interessante che sia il Financial Times a occuparsi ancora dell’Italia e della sua situazione politica ed economica a poche settimane dalle elezioni: primo perché il quotidiano è autorevole e non superficiale, secondo perché questa volta critica un leader che da noi ha un’immagine di alta considerazione presso la finanza e la politica internazionale, Mario Monti.

Dopo l’intervista della scorsa settimana con Stefano Fassina del Partito Democratico, molto citata dai giornali italiani, il Financial Times ha pubblicato online domenica sera un’analisi molto critica nei confronti di Mario Monti e di un suo possibile futuro ruolo di governo, firmata dall’editorialista Wolfgang Münchau. Esperto dei temi economici legati all’eurozona, Münchau collabora da tempo con il Financial Times su cui ogni settimana analizza le tendenze economiche e politiche che riguardano l’Unione europea. In questi anni di crisi ha spesso criticato le politiche dell’austerità per rimettere a posto i conti dei paesi più a rischio. Lo stesso Monti è accusato di avere sacrificato la crescita per le misure di austerità.

Münchau scrive che il governo Monti non è stato in grado di valutare pienamente gli effetti che il rigore avrebbe portato sull’economia reale e che ora – come molti altri paesi europei – l’Italia ha davanti a sé tre diverse alternative.

1. Rimanere nell’euro e farsi carico da sola degli aggiustamenti economici necessari, sia dal punto di vista dell’inflazione, sia del costo del lavoro sia del fisco.
2. Rimanere nell’eurozona e condividere gli aggiustamenti economici necessari con i paesi debitori e creditori.
3. Lasciare l’euro.

L’articolo del Financial Times spiega che finora i governi che si sono succeduti in Italia hanno scelto una quarta opzione, cioè: rimanere nell’euro, occuparsi solamente di alcuni aggiustamenti fiscali nel breve termine e aspettare. Questa strategia è alla base dei molti problemi che si sono accumulati nel corso degli anni e che, prima o poi, riportano alla necessità di scegliere tra le prime tre opzioni. Münchau sostiene che l’opzione migliore è la seconda, perché impegna tutti gli stati europei a concorrere, con impegni economici reciproci, alla sostenibilità degli altri. Monti avrebbe quindi dovuto spingere in questa direzione ma non lo ha fatto a sufficienza, piegandosi alle richieste di Angela Merkel legate al rigore e all’austerità.

Münchau accusa Monti di non avere detto chiaramente a Merkel che, per proseguire il proprio impegno nell’euro, l’Italia e gli altri stati hanno bisogno di un’unione bancaria vera e propria in Europa, dei cosiddetti eurobond e di un ammorbidimento delle politiche di austerità richieste da Berlino. L’articolo del Financial Times non riconosce che Mario Monti si sia dato da fare per mediare con le posizioni della Germania sul tema dell’austerità, soprattutto in sede europea con lunghi confronti e discussioni con Merkel. Münchau ritiene anche di trascurare le pressioni fatte dal governo italiano per fare approvare soluzioni per tenere sotto controllo gli spread e il sostegno per un sistema bancario europeo.

L’articolo prosegue facendo il punto sull’Italia, vista da Münchau, a un mese dalle elezioni:

Da primo ministro, Monti ha promesso riforme e ha finito per alzare le tasse. Il suo governo ha provato a introdurre una modesta serie di riforme strutturali, annacquate a tal punto da essere rese insignificanti. Ha iniziato come il leader di un governo tecnico ed è diventato un politico. Ha raccontato di avere salvato l’Italia dal baratro, o almeno dal suo predecessore Silvio Berlusconi. La caduta dello spread ha giocato a suo favore, ma molti italiani sanno che devono questo a un altro Mario: Draghi, il presidente della Banca Centrale Europea.

Münchau elenca sbrigativamente i principali schieramenti che si contenderanno la guida del paese dopo le elezioni di febbraio. Dice che Pier Luigi Bersani negli ultimi tempi si è distanziato dalle politiche di austerità di Monti, mettendosi a fare campagna elettorale su “un’imposta sul patrimonio, la lotta all’evasione fiscale e al riciclo di denaro, i diritti degli omosessuali”. Secondo l’articolo Bersani – che però ha detto proprio pochi giorni fa di essere contrario a introdurre una patrimoniale – avrebbe più chance di contrastare Angela Merkel perché più vicino al “compagno socialista” François Hollande, il presidente francese.

Per quanto riguarda il centrodestra, Münchau dice che Berlusconi finora ha fatto una efficace campagna elettorale, puntando sulla dura critica delle misure di austerità. L’ex presidente del Consiglio non ha però ancora comunicato un chiaro piano di governo, dice l’articolo, e continuerà quindi a essere meno credibile fino a quando non avrà presentato qualcosa nel dettaglio: «Conosciamo mr. Berlusconi troppo bene, comunque. Per ora abbiamo solo dichiarazioni televisive».

L’articolo si conclude con una considerazione sulla possibilità che le elezioni non portino all’indicazione di un governo con un’ampia maggioranza e si raggiunga una situazione di “stallo”, soprattutto al Senato dove le cose sembrano essere più in bilico anche a causa del sistema elettorale su base regionale. Münchau termina dicendo che Mario Monti sarà ricordato dalla storia alla stregua di Heinrich Brüning, cancelliere della Repubblica di Weimar in Germania dal marzo del 1930 al maggio del 1932: “Faceva parte anch’egli di quell’establishment che concordava sull’impossibilità di avere alternative all’austerità”. Il giudizio appare poco lusinghiero nei confronti di Monti e storicamente parziale per quanto riguarda Brüning: il cancelliere fu certamente uno strenuo sostenitore delle politiche di rigore, ma va ricordato che governò la Germania in un momento di profondissima crisi economica, dovendo fare i conti con la Grande Depressione e con il pagamento molto salato delle rate per le riparazioni di guerra (132 miliardi di marchi d’oro) decise con il Trattato di Versailles del 1919 dopo la Prima guerra mondiale.