«Togliamo l’Italia agli incapaci»

Mario Monti ha spiegato le ragioni della sua "salita in campo" in un'intervista con il direttore del Corriere della Sera (c'entrano le alleanze di PD e PdL, dice)

Intervistato dal direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli – un’intervista che ormai è quasi un genere letterario – il primo ministro Mario Monti ha raccontato le ragioni della sua “salita in campo”, una scelta che ha definito «giusta, ma non quella più utile per me». A fargli decidere per una sua partecipazione diretta alle elezioni sarebbero state le scelte di alleanza praticate negli ultimi mesi del suo governo dai due principali partiti della sua maggioranza.

La domanda è una sola. Semplice. Perché ha deciso di «salire in politica»? Quali sono le vere ragioni di una scelta che chi scrive, pur conoscendola da molto tempo, mai avrebbe immaginato? Monti fa un grande sospiro. Siamo nel suo ufficio a Palazzo Chigi, in una piovosa mattinata romana. «Credo di aver fatto una cosa giusta, non quella più utile per me». Il racconto del presidente suddivide il suo periodo di governo in due parti. La prima, la più drammatica, con l’incubo quotidiano di restare senza i soldi per pagare gli stipendi pubblici («Quando incontravo Angela Merkel sapeva esattamente quanti titoli di Stato avevamo bisogno di vendere»). Poi i primi risultati, l’emergenza che si allontana. «Allora, pensavo che, dopo aver contribuito a salvare il Paese, restando al di sopra delle parti avrei svolto tranquillamente le mie funzioni di senatore a vita, in attesa che qualcuno, forse, mi chiamasse».

E invece no. «A un certo punto, con l’avvicinarsi delle elezioni, le riforme incontravano ostacoli crescenti, erano sempre più figlie di nessuno. La strana maggioranza cambiava pelle sotto i miei occhi. Il Pdl ritornava ad accarezzare l’ipotesi di un nuovo patto con la Lega, non con il Centro, ed emergeva un fronte populista e antieuropeo; il Pd alleandosi esclusivamente con Sel riscopriva posizioni radicali e massimaliste in un rapporto più stretto con la sola Cgil». E che altro poteva aspettarsi, professore? Che i partiti si suicidassero tutti sull’altare del rigore? «Ho intravisto due rischi. Uno a breve, che il governo cadesse prima che i partiti si accordassero finalmente su una riforma elettorale; uno più a lungo termine, e assai più grave, ovvero che sei mesi dopo le elezioni si dissipassero tutti i sacrifici che gli italiani avevano fatto, con grande senso di responsabilità, per sottrarre il Paese a un sicuro fallimento. Tutto inutile, pensavo. Sarebbero tornati al governo i vecchi partiti, i vecchi apparati di potere, veri responsabili del declino dell’Italia. In quello stesso periodo si erano poi moltiplicati gli incoraggiamenti di molti leader europei e internazionali, da Barack Obama a François Hollande, che però – chiarisco subito – non sono stati determinanti».

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