Come Draghi ha cambiato la BCE

Molte cose si fanno in modo diverso da prima, racconta Reuters: da come si prendono le decisioni ai carichi di lavoro, fino all'attenzione alla comunicazione

In un lungo reportage pubblicato mercoledì sul suo sito, l’agenzia di stampa Reuters ha ricostruito come funziona il lavoro alla Banca Centrale Europea da quando il direttore è l’italiano Mario Draghi, 65 anni, ex governatore della Banca d’Italia dal 2006 al 2011. Il 24 giugno 2011 è stata ufficializzata la sua nomina a presidente della BCE, con ingresso in carica dal primo novembre successivo.

Draghi è arrivato alla guida della BCE dopo una carriera molto ampia e di altissimo livello, che, come vedremo tra poco, gli ha lasciato alcune convinzioni molto solide su come gestire la politica economica ma anche i rapporti personali e professionali in un gruppo di persone. Ha un dottorato in economia al celebre Massachusetts Institute of Technology, ha lavorato alla Banca Mondiale di Washington e poi al ministero del Tesoro italiano, prima di diventare governatore della Banca d’Italia. Un incarico che gli ha attirato qualche critica sono stati i tre anni durante i quali Draghi ha lavorato per la banca di investimenti statunitense Goldman Sachs, dal 2002 al 2005.

Lo stile di Draghi
Prima di Draghi, gli organi direttivi della Banca Centrale Europea erano noti perché lavoravano moltissimo e ogni decisione era analizzata molto nello specifico, in primo luogo dal precedente direttore, il francese Jean-Claude Trichet (francese, ma noto perché voleva “far diventare tedeschi i francesi”, per la sua vicinanza alla linea di politica economica della Germania). Draghi ha cambiato piuttosto profondamente lo stile di lavoro.

Secondo i suoi collaboratori, scrive Reuters, Draghi ha delle convinzioni piuttosto decise ma è molto disponibile ad ascoltare gli altri responsabili degli organi direttivi. Lui stesso riconosce che ritiene fondamentale delegare responsabilità ai suoi colleghi. Ad alcuni dirigenti che prima avevano il compito di fornire tutte le informazioni perché qualcuno sopra di loro prendesse le decisioni, è stato richiesto di prenderle in prima persona. Oltre a questo, i ritmi e i metodi di lavoro si sono fatti più rilassati: Draghi stesso, dicono i suoi collaboratori, passa molto tempo a leggere. Al momento di fare delle scelte Draghi mantiene l’ultima parola, ma l’obiettivo è normalmente quello di prendere o di far apparire le decisioni come prese in modo collegiale. Questo cambiamento si ripercuote nella BCE a molti livelli e “sta cambiando il modo in cui la BCE funziona”, secondo Reuters.

Questo stile più tranquillo ha i suoi critici, naturalmente. Il primo è che, senza solleciti e stimoli continui, ci sia meno controllo. Il secondo è che la messa in pratica delle politiche economiche sia più difficile, con meccanismi decisionali meno netti, e che alla lunga la BCE perda parte della sua capacità di fare rispettare le sue posizioni, e in definitiva perda parte del suo potere.

Al momento della sua nomina, il primo problema da affrontare riguardava i massimi vertici della BCE. Due mesi prima che Draghi entrasse in carica, il responsabile per l’Economia e l’Analisi monetaria del Comitato esecutivo, il tedesco Jürgen Stark – conosciuto, più in breve, come il “capo economista” della BCE – annunciò che avrebbe dato le sue dimissioni prima della fine dell’anno. Insieme a Stark, che durante il suo periodo in carica era molto influente sul precedente direttore della BCE, Trichet, insieme al capo della Bundesbank Axel Weber – cambiarono quasi tutti i sei membri del Comitato esecutivo (le nomine sono di fatto contrattate tra i principali paesi dell’UE) ed entrarono a farne parte anche due membri che non avevano precedente esperienza in una banca centrale.

Draghi dovette quindi procedere ad assegnare gli incarichi al nuovo Comitato esecutivo e dimostrò subito una certa autonomia rispetto alle procedure e agli accordi informali che si erano seguiti durante gli anni precedenti. Reuters dice che il caso esemplifica bene “il mix di decisioni radicali e stile manageriale basato sul consenso” che Draghi ha portato alla BCE. Così, il ruolo di “capo economista” venne dato non a un tedesco, come ci si sarebbe aspettato, ma al belga Peter Praet, che era stato per oltre dieci anni il direttore della Banca Nazionale del Belgio. Al membro tedesco del comitato esecutivo, Jörg Asmussen, venne assegnato il ruolo di responsabile delle relazioni internazionali, valorizzando la sua esperienza nelle contrattazioni politiche che aveva sviluppato da viceministro delle finanze tedesco.

Anche grazie all’uscita di scena di Stark nel Comitato esecutivo e di Axel Weber alla Bundesbank, sostituito da Jens Weidmann nello stesso 2011 (Weber è passato a dirigere la banca svizzera UBS), Draghi ha potuto avere un “gruppo più collegiale”, dice Reuters, che agevola la sua preferenza per le decisioni prese in modo condiviso e non calate dall’alto.

Uno stretto collaboratore di Trichet prima e di Draghi poi riassume bene la differenza di stile tra i due: «Era come se Trichet dicesse “Voglio sapere tutto” mentre Draghi dice “Dimmi le cose essenziali”».

Le mosse di Draghi
La BCE, sotto Draghi, è stata decisamente attiva. Ha tagliato tre volte il tasso di interesse di riferimento della zona euro e ha fatto il celebre prestito a condizioni molto agevolate alle banche europee, del valore di oltre mille miliardi di euro. Il fine (più o meno raggiunto) di questo prestito, che ritorna ciclicamente nel dibattito politico con grandi dosi di semplificazione, era quello di evitare il cosiddetto credit crunch, ovvero che le banche smettessero completamente di concedere prestiti, con conseguenze gravissime per l’economia.

Un altro passaggio fondamentale dell’anno o poco più in cui Draghi è stato in carica è stato la firma del fiscal compact da parte dei paesi della zona euro, ad eccezione di Repubblica Ceca e Regno Unito, un piano per una maggiore integrazione fiscale che Draghi aveva già annunciato esattamente un mese dopo essere diventato direttore della BCE.

Ma la data decisiva della BCE di Draghi è probabilmente un’altra: il 26 luglio 2012. La mattina di quel giorno, a Londra, Draghi disse in una conferenza stampa che avrebbe fatto “qualsiasi cosa per proteggere l’euro e, credetemi, sarà abbastanza”. Al momento si trattava di poco più di una generica dichiarazione di intenti, al termine di una settimana piena di brutte notizie per l’economia europea – i guai delle regioni spagnole, spread ai massimi, borse ai minimi dall’inizio della crisi – ma improvvisamente i mercati internazionali invertirono la tendenza negativa e i segnali della peggior tempesta si calmarono.

A posteriori, la dichiarazione di Draghi fu quello di cui i mercati avevano bisogno, e il direttore della BCE dimostrò di saper usare bene le parole, pur senza abbandonare del tutto lo stile tecnico e indiretto delle dichiarazioni dei banchieri centrali (europei in primo luogo). L’attenzione di Draghi alla comunicazione è molto alta: ha nominato anche una nuova responsabile prendendola dal settore privato, la franco-tedesca Christine Graeff.

Qualche settimana dopo, ai primi di settembre, la BCE presentò un piano che avrebbe permesso, almeno in teoria, di acquistare quantità indeterminate di titoli di stato dei paesi più in difficoltà: un intervento limitato e condizionato, ma si poté iniziare a parlare di “fine della crisi” o almeno della sua fase peggiore dal punto di vista finanziario. E qui entrano in gioco i rapporti di Draghi con un altro organo fondamentale della BCE e, soprattutto, con la Germania.

Oltre al ristretto Comitato esecutivo, l’altro organo fondamentale della Banca Centrale Europea è il Consiglio direttivo, che è formato dai sei membri del Comitato più i governatori delle 17 banche centrali della zona euro. Abbiamo già visto come Draghi ha operato nei confronti del Comitato esecutivo: nei rapporti con il Consiglio, invece, le cose sono state un po’ più accidentate. In particolare, una mossa che secondo molti è stata un errore è l’aver di fatto isolato il neoeletto governatore della banca centrale tedesca, il già citato Jens Weidmann, perché era il solo del Consiglio ad opporsi al nuovo programma di aquisto di titoli di stato proposto di Draghi alla fine della scorsa estate.

Le numerose e incisive decisioni di politica economica di Draghi hanno infatti un grande critico, la Germania. Qui il piano di acquisto di titoli di stato, in primo luogo, è stato accolto con una preoccupazione principale: quella dell’inflazione. In Italia, dopo molti anni di politiche economiche che hanno fatto largo uso dell’inflazione come strumento per sostenere l’economia, è difficile che questa sia messa al primo posto tra le cose negative che il futuro ci potrebbe riservare, ma nel dibattito politico le cose sono molto diverse. E Draghi è visto come un pericoloso sovversivo della tradizione della BCE di restare autonoma rispetto ai governi e occuparsi in primo luogo di tenere l’inflazione sotto controllo, attraverso misurati interventi sui tassi di interesse.

Draghi ha il suo ufficio al 35esimo piano dell’Eurotower di Francoforte, il grattacielo con il famoso simbolo dell’euro di fronte. Sulla sua scrivania c’è un elmetto prussiano in nero e oro del 1871, il famoso Pickelhaube: un regalo del giornale tedesco Bild che si augurava che Draghi avrebbe continuato sulla linea tradizionale della disciplina tedesca.

Foto: Alex Domanski/dapd